Lo specchio di Beatrice (n. 2 – Nell’anno della Luna)

Riassunto delle puntate precedenti

Beatrice si rifugia nel bagno del Palazzaccio per sfuggire all’ennesima sfuriata della kapò dell’Acquario delle Orche Assassine. Sfinita dal caldo, appoggia la fronte allo specchio e si risveglia in un inquietante ospedale da terzo mondo, con una suora, una poliziotta, e la reincarnazione dei suoi genitori a quarant’anni. 

1969 moon landingIn quello specchio è successo qualcosa, e mi serve tempo per capire. Quando ho ripreso conoscenza ho preso atto che se mi agito mi sedano come un cavallo, per cui mi conviene mantenere un profilo basso e far finta di non ricordare più niente. Un medico mi ha piantato una lampada negli occhi e mi ha fatto qualche domandina facile facile: come mi chiamo, e quello lo sapevo; che giorno è, e sapevo pure quello; e che anno è. Che cazzo, gli dico, è il 2013. No, risposta sbagliata. Qui pare che siamo nel 1969. Sul momento penso che alla Kapò delle Orche Assassine sia riuscito il colpaccio di una vita, e mi abbia fatto rinchiudere in una clinica privata dove fanno gli esperimenti sugli umani. Calma, devo rimanere calma, per uscirne viva e non lobotomizzata. Non devo pensare al water boarding e alle altre tecniche di tortura stile Guantanamo, devo far finta di dare ragione a tutti e prima o poi scoprirò dove sono, riuscirò a mettere le mani su un telefono e a scappare. Mio marito mi cercherà, fuori sta facendo buio, non ha mie notizie da ore, sarà già andato dai carabinieri…

Ritorna la poliziotta e si siede di nuovo vicino a me. Anche secondo lei siamo nel 1969. Da qui capisco che è una poliziotta finta, fa parte della messa in scena, e cerco di stare al gioco. Le chiedo che cosa mi è successo, e perché ho la testa fasciata. E lei mi chiede se voglio la mamma. La mamma? Per favore, le dico, voglio solo mio marito, lo cerchi, lo faccia venire qui al più presto. Tu non hai un marito, mi dice. Sei troppo giovane per essere sposata, non hai ancora tredici anni. E vai, l’Orca maledetta ce l’ha fatta, mi ha venduto ai trafficanti di organi. Va bene, sto al gioco e dico che sì, voglio vedere la mamma. La donna che entra ha una quarantina d’anni portati malissimo, piange, mi abbraccia, e dice che il babbo non l’ha fatto apposta. Il babbo? E che cosa ha combinato stavolta il babbo?

da giovaneStando zitta il più possibile, raccolgo la loro versione dei fatti. Il babbo si è arrabbiato, io sono scappata e correndo sono inciampata e ho sbattuto la testa. Chiedo uno specchio. La poliziotta dice di sì, dateglielo. Torna la suora – quando ci sono delle cose losche di mezzo, la chiesa non manca mai, magari anche loro fanno i miliardi col traffico di organi – e mi porge uno specchio. Quello che ci vedo dentro è il viso che avevo a tredici anni. Esattamente nel 1969. Capelli lunghi e lisci, sopracciglia non depilate, guanciotte paffute. Niente cicatrice sopra al labbro. Potrebbe quadrare, l’incidente in bici l’ho avuto nel 1973, e qui dicono che siamo nel 1969… Ma come cacchio hanno fatto? Ho la fronte bendata e il naso scorticato, però non ho più le rughe intorno agli occhi e alla bocca, la pelle è soda, liscia e tirata. Mi hanno fatto il botox? Qualche segno si dovrebbe vedere… Ma perché farmi il botox se poi mi vogliono espiantare gli organi? Che piano hanno le Orche Assassine? Per scoprirlo devo stare zitta e far parlare loro. E magari farmi portare un giornale.

§

Dopo due giorni di minestrina insipida e tè piscioso, mi sono fatta un quadro della situazione. O nel palazzaccio sono riusciti a recuperare un quotidiano del 1969 ancora fresco di stampa e hanno trovato due attori uguali ai miei genitori quarantenni, oppure nello specchio è successo qualcosa. E non credo che l’Acquario delle Orche Assassine sprechi un tale dispiegamento di forze per me, non sono mica Edward Snowden. Controllo la data sul giornale e mi viene in mente un episodio di quell’estate del 1969. Una domenica pomeriggio ero seduta sulle scale del condominio con una mia amica e un altro ragazzino della nostra età, quando mio padre fece irruzione e mi rispedì a casa a calci nel sedere, perché “non dovevo parlare coi ragazzi”. Oh, non fate quelle faccine: era la Romagna, erano gli anni Sessanta, e i diritti delle donne stavano messi più o meno come in Pakistan.

Ciao2001 n.39 22 ottobre 1969Chiedo conferma alla poliziotta e scopro che il mio ricordo è corretto. Però in questo passato, scappando da mio padre sono caduta e ho sbattuto la testa, e a quanto pare qualcuno ha chiamato un’ambulanza perché non riprendevo conoscenza. Nel 2013 ero chiusa in un bagno, con la kapò urlante che prendeva a calci la porta; ho appoggiato la fronte allo specchio per cercare un po’ di fresco e ci sono caduta dentro come Alice. Non è il massimo dell’originalità, ma l’alternativa è pensare che sono in coma e il mio cervello sta girando su se stesso. Può anche darsi, ma se questo è il nuovo incubo che mi è toccato, vediamo di farci amicizia. Per decenni ho sognato di tornare indietro nel passato per rimettere a posto le cose, e forse è arrivata la mia occasione. Vera, sognata, ma in fondo che cosa cambia?

La poliziotta dice che mio babbo vorrebbe vedermi, ma solo se io do il mio consenso. Madonna che riguardi, all’epoca prendere le botte in famiglia veniva considerata cosa buona e giusta, ma forse in una città piccola come questa la voce si è sparsa un po’ troppo. Si parla di me anche nella cronaca locale, “Ragazza cade fuggendo dal padre e rimane incosciente per due giorni”. Epperò, due giorni! Cadere da uno specchio giù per quarantaquattro anni è una bella botta. Ecco mio babbo che entra, scortato da due poliziotti, e naturalmente piange. Tipico del suo disturbo di personalità bipolare, attacchi di violenza seguiti dal pentimento. Mi dispiace, non l’ho fatto apposta… Che palle! E se morivo? A chi chiedevi scusa, a Gesù bambino con le ali? Nel 1969 che ricordo io, non ero caduta e non avevo sbattuto la testa, però ho continuato a prendere calci e schiaffoni per altri quattro anni, finché non mi sono ribellata seriamente. Stavolta ho l’occasione per fargli perdere un po’ prima quella cattiva abitudine. Gli faccio un discorso molto serio, che di certo non si aspetta da me – secondo lui devo ancora compiere tredici anni – gli dico che lo perdono, però deve giurare solennemente, davanti alla Polizia, che non alzerà mai più le mani su di me.

Jack TorranceSiccome lo conosco bene, purtroppo, non mi meraviglio di sentirlo giurare su tutto, sulla Polizia, sui Carabinieri e anche sul corpo dei Marines, tanto tra un’ora si è già dimenticato, ma io non mi fido di lui e chiedo una garanzia, e la poliziotta me la dà. La simpatica signora mi porge il suo biglietto da visita, col telefono dell’ufficio e pure quello di casa, e mi autorizza a chiamarla ogni volta che voglio, se ci sono problemi e anche se non ce ne sono. Anzi, promette di tornare a trovarmi “per vedere come vanno le cose”. Finisce che invece di abbracciare mio padre, che al momento indossa la faccia da vecchio cane abbandonato in autostrada ma in un attimo la può cambiare con quella da Jack Torrance di Shining, abbraccio la poliziotta e scoppio a piangere. Sono io la prima a sorprendermi, perché nel 2013 avevo l’artrite reumatoide con varie complicazioni, tra cui la sindrome di Sjögren, l’occhio secco, e non piangevo più da due anni. Nel 1969 l’artrite non si era ancora manifestata, lo vedo dalle dita delle mani, dritte e sottili. E questo miracolo, nell’Acquario delle Orche Assassine, proprio non sarebbero riuscite a farlo.

 Quali miracoli succedono a cadere indietro nel tempo per quarantaquattro anni? Non strappatevi i capelli, la prossima settimana lo saprete

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