Invictus

Essere grandi non è un gioco da ragazzi, non s’impara da un manuale, non si acquisisce con l’età, non è uno stato della mente, né un’onorificenza consegnata sul campo. Essere grandi è come essere invisibili, nell’esatto ribaltato ed opposto. E’ come vivere galleggiando, come essere tutto ciò che non può essere incasellato, catalogato, censito e vivisezionato.

Essere grandi è essere unici, i primi in una gara senza avversari se non se stessi.

E te ne accorgi dal rispetto con cui il pubblico entra in sala, dal silenzio, dalla compostezza di coloro che sono lì per guardare, dalle loro facce, dal loro stare seduti sino alla fine dei titoli di coda.

Come si può essere grandi nel rugby, allora? Come vincere in uno sport nel quale si gioca con un avversario che non sia il tuo nemico?

Vincere non significa stendere battere, stracciare, sconfiggere, andare avanti, conquistare?

«Chi di voi conosce le regole del rugby?», chiede François Pienaar, capitano della nazionale sudafricana – gli Springboks – ai bambini dei ghetti neri.

«Stendere l’avversario quando l’arbitro non guarda».

«No. La prima regola del rugby è che si può passare la palla solo all’indietro o di fianco».

In un film sulla vita di Nelson Mandela (9.000 e più giorni di prigione restando fedele ai suoi ideali fino alla liberazione, Premio Nobel per la Pace nel 1993 e primo Presidente nero del Sudafrica nel 1994), Clint Eastwood va ad incastonare una gemma sul rugby, narrando l’epica impresa della nazionale sudafricana, sorretta sino ad allora soltanto dal tifo degli afrikaneer, che vince a sorpresa la finale della Coppa del Mondo di rugby, affrontando i fortissimi All Blacks e dando un senso al tentativo di unire una nazione – la rainbow nation – al motto di “one team, one dream”.

Invictus è un film che affronta il tema del mito, tanto caro a Sergio Leone, riportandolo nella nuova frontiera della rivoluzione, tra la polvere dei quartieri neri, nei campetti di calcio, tra i cortili delle prigioni dove si spacca ancora la pietra, di una nazione che – sotto la guida di un leader illuminato da una forza tranquilla – cerca di uscire dal disastro dell’apartheid, trovando un senso a tutto ciò che può unire, anziché dividere.

Allora, cosa può unire meglio se non ciò che sino ad allora ha diviso, ma che indubbiamente rappresenta un patrimonio comune? E come unire quarantadue milioni di familiari in una battaglia che non sia “contro”, ma in una competizione che serva  per dimostrare di sapere dare il meglio di sé, mentre si è ancora alla ricerca di un’identità?

Ma, soprattutto, come essere grandi?

Se lo chiede Nelson Mandela, interpretato dall’amico Morgan Freeman, in una smagliante forma da Oscar, quando si rende conto che il tifo, pro e contro la nazionale di rugby, rappresenta in modo simbolico il rifiuto di gettare i fucili nell’oceano e guardare avanti, oltre il passato, stringendo la mano a quello che – sino a ieri – era il proprio nemico.

La coppia Eastwood – Freeman sceglie di dare risalto ad una figura di un grande leader capace di rendere visibili gli altri, piuttosto che se stesso, di mettere in mostra il pensiero, piuttosto che l’azione; di essere trasparente di fronte alla grandezza che compiace lo sguardo, per dare maggiore spazio alla potenza ispiratrice e rivelatrice che provenga dal dentro di sé.

Freeman è un perfetto Mandela in un film nel quale, la sua candidatura all’Oscar quale miglior attore protagonista, sta in modo perfettamente proporzionale a quella di Matt Damon (nel ruolo del capitano François Pienaar), quale miglior attore non protagonista, così come la figura di un leader pacifista dovrebbe stare a quella di un capitano guerriero.

E’, insomma, un film di Guerra e Pace, sul metodo al quale un leader di una grande nazione si deve ispirare, adattandosi alle mutate situazioni e, soprattutto, confrontandosi con le esigenze morali che discendono dal ruolo coperto.

Il clou del film è nell’incontro tra Mandela ed il capitano Pienaar, un incontro tra pari, nel quale il Presidente chiede al corrispettivo leader della squadra di rugby, modello della nazione che guida:

«François, qual è la tua filosofia della leadership? Come ispiri la tua squadra a dare il meglio?».

«Ho sempre dato l’esempio per guidarla».

«Ma come fai a renderli migliori di quanto loro credono di essere? è questo che io trovo difficile. Con l’ispirazione, è possibile. Ma come facciamo ad ispirarci alla grandezza, quando niente di meno ci può bastare? Come facciamo ad ispirare quelli che ci circondano? A volte io penso che la risposta sia nel lavoro di altri».

Ed è appunto questo il tema centrale, il nocciolo duro, quello dell’ispirazione, che possa essere alta come una poesia vittoriana, per condurre e guidare l’animo di un capitano.

«Abbiamo bisogno d’ispirazione, François. Perché, per costruire la nostra nazione, dobbiamo tutti cercare di superare le nostre aspettative». E’ indubbio che la leadership debba ispirare, dunque, ma non esaltando la figura del capo.

Ed anche Clint si confronta con il doppio binario della guerra contro la pace, della grandezza umana contro l’ispirazione che discende dall’alto, realizzando una storia che monta in progressione come un’onda, partendo dalla calma e dalla pace di una forte personalità, sino a giungere allo sport, alla partita della vita («La sentite la vostra nazione che vi chiama? Questo è il nostro momento»), che è il sublimato della guerra in tempo di pace, come del resto abbiamo imparato e già sappiamo dai tempi di Rollerball.

Il rugby assurge, dunque, a metafora della battaglia leale che deve combattere il leader, perché:

«Il calcio è un gioco da gentiluomini giocato da selvaggi. Il rugby è un gioco da selvaggi giocato da gentiluomini».

E cambiare è una necessità che non può essere sottesa, dice Mandela a coloro che nutrono dubbi:

«Può vincere un’elezione, ma è  in grado di governare un paese?»

«Adesso sono al cento per cento con i nostri campioni. D’altra parte se io non so cambiare quando le circostanze lo impongono, come posso chiedere agli altri di cambiare?».

Dietro un grande uomo c’è una grande ispirazione, alta e profonda, tenuta nascosta e serbata nel cuore per 9.000 lunghissimi giorni, in una cella ristretta dalla quale, infine, si può venire fuori più forti di quando si è entrati, perché, se Dio ti ha dato tanti giorni da vivere dentro, altrettanti e più te ne darà di vivere fuori e, nel frattempo, ti avrà ispirato a divenire forte, anzi, invincibile capitano dell’anima tua.

 

Il trailer del film: watch?v=vdA2ZWhLiFE

Il poema di William Ernest Henley nel tema del film: watch?v=3J1Xov0dB5Q&feature=related

Musiche di Kyle Eastwood: watch?v=DB-PVwRpXM0&feature=related

L’intervista a Morgan Freeman: watch?v=iQuxhrc6lfM

Ringrazio Juan Jose Da Silva per la preziosa consulenza sul rugby:  http://www.facebook.com/note.php?note_id=384619080644&ref=mf

 

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