Da Il nastro bianco a Good, le radici del male

Quest’anno la Palma d’oro a Cannes va a Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives di Apichatpong Weerasethakul, prossimamente al cinema per i comuni mortali. L’anno scorso, invece, se l’aggiudicò Il nastro bianco, di Michael Haneke, film – diciamolo subito – autoriale che ha incassato in Italia soltanto 555.000 euro.

Dunque poco visto, perché realizzato con tecniche che non contribuiscono a esercitare il giusto appeal presso il pubblico di massa: bianco e nero, fotografia priva di ombre e contrasti, riprese con camera fissa, senza musiche, interni in spazi ristretti e claustrofobici, inquadrature effettuate da angoli nascosti dietro gli stipiti delle porte ed altre scelte, sicuramente apprezzabili e motivate nel contesto della cifra stilistica che il regista ha inteso esprimere, ma oramai in disuso per un cinema che rende il meglio di sé sul grande rettangolo bianco, da guardare con il naso all’insù e la bocca spalancata.

Sono gli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale. La vita degli abitanti di un tranquillo villaggio nel nord della Germania scorre tranquilla e senza scosse, quando accade un fatto apparentemente inspiegabile: il medico del villaggio cade da cavallo e si frattura una spalla, a causa di un filo tesato tra due alberi lungo il tragitto per il suo ritorno a casa.

La polizia indaga senza successo, ma i fatti strani e gli attentati si perpetuano senza apparente logica: un incidente sul lavoro provoca la morte di una contadina; uno dei figli del barone viene picchiato; un altro bambino subisce violenze indicibili che quasi lo conducono alla perdita della vista.

Al centro della scena, un giovane maestro trasferitosi da un paese vicino.

Attraverso lo sguardo altro del maestro, che narra i fatti dell’epoca con voce fuori campo, iniziano le indagini sul piccolo gruppo di abitanti che, pur conoscendosi tutti perfettamente, cominciano a sospettare gli uni degli altri.

Gli abitanti lavorano quasi tutti alle dipendenze del barone del villaggio e ad egli devono rispetto e ubbidienza. Il barone incarna, dunque, il doppio ruolo di padrone e di leader politico che distribuisce gratificazioni ed umiliazioni ai dipendenti – sudditi, al fine di tenere unita e coesa la collettività, motivandola al rispetto delle regole sociali e produttive.

L’altra figura di spicco nel villaggio è quella del rigido pastore protestante, il quale – dal suo canto – si preoccupa di imporre regole morali severissime, a cominciare dai suoi figli.

Per ricordare ai propri figli la purezza che, soprattutto nel corpo, devono assolutamente rispettare, lega loro un nastro bianco al braccio, che possa essere da monito per preservarsi dal compiere il male.

Alle eventuali, reiterate, trasgressioni seguiranno anche punizioni corporali e pubbliche umiliazioni.

Il pastore incarna, dunque, la figura dell’autorità religiosa e morale che, in sovrapposizione a quella  politico – sociale e datoriale di lavoro del barone, comprime ulteriormente ogni spazio di libertà,  anche quella di trasgredire volontariamente le regole, dei “tranquilli” abitanti del villaggio.

Ma cos’è il male? Se lo chiede, ad esempio, uno dei figli del pastore quando, minacciato di essere frustato dal padre, sale pericolosamente su una struttura sospesa nel vuoto cercando la volontà divina e spiegando che, in tal modo, cerca di comprendere la gravità del suo male dando a Dio l’occasione per ucciderlo.

Anche il medico – vedovo del villaggio, nonostante rimanga vittima del primo attentato, ha i suoi scheletri nell’armadio: intrattiene un rapporto carnale con la donna che lo assiste nella cura dei figli, che si trasforma in padronanza del corpo di lei mentre, nonostante le si conceda per sfogare le sue pulsioni sessuali, al contempo le manifesti il più profondo disprezzo.

E l’apparente sottomissione alle autorità, alle regole ed alla morale alle quali il gruppo degli abitanti si adegua, nasconde la rabbia e la frustrazione di sentimenti pronti ad incendiarsi, come un fuoco che cova sotto la cenere, aspettando l’occasione di rivitalizzarsi al contatto con l’aria.

Molti hanno voluto intravedere, in controluce alle vicende degli abitanti del villaggio del film, l’incubazione del periodo immediatamente precedente al nazismo, attraverso il viaggio psicologico nelle menti di individui (in questo film immaginari, ma assunti come stereotipi) ai quali viene inculcata fin dall’infanzia la convinzione di (dovere) essere necessariamente migliori degli altri nonché depositari del bene. Concetti che nei decenni successivi confluiranno nello sviluppo dell’eugenetica nazista, che stava alla base delle politiche sociali razziste di Hitler.

E proprio dal tema dell’eugenetica nazista prende l’avvio Good – L’indifferenza del bene, film del 2008, di Vicente Amorim, da noi in Italia uscito soltanto nel 2010 in versione home video.

John Halder (Viggo Mortensen) è un professore tedesco di letteratura nella Germania nazista del 1937. Anni prima dell’avvento del nazismo, provato dalle sofferenze della madre malata di demenza senile, ha scritto un racconto che in qualche modo sembra appoggiare la scelta dell’eutanasia come soluzione amorevole, per i casi nei quali i malati siano senza speranza di guarigione.

La sua opera viene notata dal Comitato di censura del partito nazista, che intende utilizzarla a fini di  propaganda, così il professor Halder viene convocato dalla Cancelleria del Reich. Piuttosto che deprimenti – come il professore teme – le sue idee sono considerate romantiche e coraggiose. Esse incarnano lo spirito del nazionalsocialismo e Hitler stesso (fatto peraltro vero) riceve migliaia di lettere di cittadini, parenti di persone colpite da incurabili handicap, che chiedono al loro Führer di essere autorizzati a porre fine alle loro sofferenze.

Il regime ha bisogno di idee che siano veicolate da menti fervide, uomini giusti e al di sopra di ogni sospetto. La Cancelleria necessita di un trattato di Halder: un approccio illuminato alla morte per pietà, come atto d’umanità e dal quale, eventualmente, ricavarne un film. Per portare avanti quest’opera, però, il professor Halder dovrà divenire membro onorario delle SS.

Da qui comincia l’ascesa al potere del tranquillo professore che, tra l’altro, intrattiene un rapporto di profonda amicizia con uno psichiatra ebreo. Il professore non riesce a rimanere insensibile alle lusinghe del regime che gli offre successo, consenso e anche la stima del mondo femminile e si avvia lentamente, ma inesorabilmente, verso gli abissi nei quali seppellisce le sue idee, la sua genuina bontà, la famiglia d’origine, l’amicizia nei confronti dello psichiatra ebreo. Nel frattempo,  la sua carriera decolla irresistibilmente.

I due film rappresentano quasi un percorso tra le spelonche della violenza e del male. Quei territori sotterranei nei quali si agitano e si mescolano i vizi e le virtù di uomini che, mossi da logiche di apparente bontà e giustizia, perseguono le proprie idee fino in fondo, ricavandone logiche ferree ed assolute, ergendole a fondamenta del pensiero e finendo nelle derive della degenerazione.

Come vascelli in balìa del vento, gli uomini sospinti dalle loro idee dimenticano spesso la guida più importante che è stata installata nel programma della loro vita. Quella guida che è infallibile, che non necessita di istruzioni, di corsi per l’apprendimento, di scuole di formazione, di cultura e di aggiornamento. Quella guida che, anche nei momenti più bui, quando la giusta strada sembra smarrita, rimane accesa come una fiammella perenne. Quella che accomuna popoli diversi, uomini di diversa estrazione, società, razza e cultura: l’amore.

Parafrasando una scena del film Vi presento Joe Black, potremmo dire che dobbiamo sentire il nostro cuore, perché la verità è che non ha senso vivere senza questo. La vita senza l’amore equivale a non vivere e, se non abbiamo mai tentato di ragionare con l’amore, non abbiamo mai vissuto.

 

 

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