“Arrival”: uno sci-fi per soli amanti della lingua

 

di Elisa Scaringi

 

Il linguaggio sta alla base della facoltà comunicativa. Si tratta di suoni, gesti e movimenti portatori di significati ben precisi, frutto di complessi processi mentali, la cui elaborazione è prerogativa esclusiva dell’essere umano. Esso non è da confondere con la lingua, forma concreta di espressione propria di una singola comunità umana.

Ma cosa accadrebbe se un giorno l’uomo dovesse incontrare un alieno? Come si potrebbe affrontare il divario comunicativo? Sarebbero in grado di instaurare un contatto significativo? Il regista Denis Villeneuve ha cercato di visualizzare per immagini un possibile contatto linguistico, ispirato da un racconto di Ted Chiang, scrittore statunitense di narrativa fantascientifica. Nel film Arrival l’ipotesi di fondo è la stessa teorizzata dal linguista Edward Sapir e dal suo allievo Benjamin Lee Whorf, secondo cui lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano sarebbe influenzato dalla lingua parlata. Stando all’assioma della relatività linguistica, il modo di esprimersi dell’uomo ne determinerebbe il pensiero.

È così che la protagonista della pellicola, la linguista Louise Banks, si ritrova a essere plasmata dalle stesse teorie insegnate ai suoi alunni. Chiamata a interrogare gli extraterrestri sbarcati sulla Terra all’interno di monolitiche astronavi, la protagonista riesce a sperimentare lei stessa l’ipotesi di Sapir e Whorf. Tentando un approccio al loro complesso linguaggio, lo studio e il contatto diretto le permettono di capire i logogrammi alieni e di immedesimarsi nel loro pensiero. Come teorizzato dall’assioma della relatività linguistica, i pensieri dell’uomo vengono plasmati dalla lingua utilizzata. E la linguista conquista il potere di vedere nel proprio futuro, proprio come gli eptapodi da lei umilmente avvicinati.

linguaggio alieno  contatto alieno

Molti sono i racconti di fantascienza nei quali compaiono culture aliene dotate di una propria lingua. Il Clive Staples Lewis, autore de Le Cronache di Narnia, riteneva possibile che gli alieni parlassero un dialetto indoeuropeo, e così nel suo Lontano dal pianeta silenzioso il protagonista è in grado di ricostruire le lingue parlate su Marte. In Noi marziani, invece, Philip Kindred Dick (la cui fama è legata a Blade Runner) affida all’inglese pidgin degli australiani aborigeni il compito di rappresentare la lingua aliena.

Nello sci-fi di Villeneuve ciò che arriva allo spettatore è, però, un’idea più complessa del linguaggio: al di là dei possibili confronti tra grafemi e ologrammi, la lingua è portatrice di una comprensione culturale. La pura traduzione passa in secondo piano rispetto alla portata valoriale di un sistema complesso, fatto di significati (le parole) e di significanti (le interpretazioni). Non a caso la rottura interna al film nasce dal limite interpretativo di potenti incapaci di comprendere a pieno le implicazioni sociologiche di una lingua. Si tratta, allora, di un monito al mondo di oggi: gli alieni potrebbero arrivare da un momento all’altro; quindi state in campana e rivolgetevi a dei linguisti esperti per comunicare con loro. La scienza potrà aiutarvi, ma il cuore sicuramente vi farà fare mille passi avanti.

 

Gamy Moore
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