Che il 2011 sia vincente, come l’esplosivo piano di Bazil

Nell’anno 2011 gli uomini contano solo se hanno il denaro. Sono terminati i tempi in cui contavano l’ingegno, l’onore, la lealtà, la fedeltà. Il punto però è: come lo hanno fatto il denaro questi uomini? Ora, qui non si tratta d’invidia. Qualcuno, ad esempio, invidia Michael Schumacher, Steven Spielberg, Walt Disney che poi – poverino – non è più tra noi? No, non è questo. Ma sì, magari un poco di successo lo vorremmo tutti. Anche qualche soldo non guasterebbe. Però, l’amore per il denaro no, perché quello è la radice di ogni male.

Ma l’uomo moderno non la pensa così e non ha neanche tutti i torti, perché quelli che hanno il denaro non fanno altro che farti pesare la tua condizione di miseria e di sofferenza, che agli occhi degli altri si trasforma, in un battibaleno, in inferiorità sociale. Per non parlare degli invisibili che: chi li ha visti?

Direte: quando passo accanto a loro faccio finta di non vederli, mica posso mettere sempre le mani in tasca. Non è giusto, ma condivido. Il problema degli invisibili, dei clochard e dei senzatetto non può essere del singolo. Da quando nasciamo in una comunità, facciamo parte di un contratto: io pagare moneta e tu fare vedere cammello. Che tradotto vuol dire: io pago le tasse e tu mi proteggi dalla delinquenza, pulisci le strade, vigili sulla mia salute e fai ricerche per guarire le malattie che sino ad ora non si possono guarire. Questa dicotomia si chiama Stato.

Lo Stato siamo noi, direte, visto che adesso siamo il popolo sovrano. È vero, ma i nostri politici non ce lo fanno credere. Loro dicono che votandoli li abbiamo nominati padroni del cammello. Noi invece pensavamo di averli presi come guardiani del cammello, insomma, come nostri dipendenti, ma loro no, dicono che sono i padroni del cammello. E allora lo Stato sono loro. E ancora allora – o allora allora – se io pago loro, loro fare vedere cammello. Chiaro?

Beh, ma cosa c’entra questo con L’esplosivo piano di Bazil? C’entra, c’entra. Siete i soliti diffidenti. Mi avete dato fiducia sino a questo rigo, continuate a darmela almeno sino alla pronuncia della Corte Costituzionale dell’11 gennaio, quando mi considereranno legittimamente impedito. Vi avevo detto che deve essere lo Stato a pensare ai poveri e non i singoli. Perché noi siamo una società e nelle società si divide, sennò che società è? Dunque, lo Stato raccoglie e divide anche ai poveri. Ma se, invece, i padroni del cammello decidessero di dare il denaro a imprenditori già ricchi che vendono armi, voi cosa ne pensereste? Ogni lavoro è lecito, guadagnare molto non è un reato, ma dipende da come lo si fa, il denaro.

Ho immaginato che sia stato questo l’animo con il quale Jean-Pierre Jeunet abbia voluto schierare da una parte i poveri, derelitti e disadattati clochard e dall’altra i ricchi e spregiudicati mercanti d’armi in una guerra nella quale l’ingegno, la simpatia e l’onestà contano più del denaro. Una storia nella quale le tensioni corrono lungo il filo della divisione in classi sociali, come sempre nella Storia. Soltanto che adesso sono stati abbattuti i vecchi steccati tra proletariato e borghesia. Dalla caduta del muro di Berlino in poi siamo tutti uguali, e cioè poveri. Poi ci sono i ricchi e gli straricchi, ma sono una minoranza.

I poveri sono come Bazil (Dany Boon): non hanno nulla. Ma i ricchi, oltre che avere molto o quasi tutto (se queste notizie venissero confermate, ma io non ci credo, figurati se è vero) sono anche prepotenti e fanno mestieri odiosi come quello del commercio delle armi. I poveri sono buoni e si fanno i fatti loro, ma i ricchi (se queste notizie venissero confermate, ma io non ci credo, figurati se è vero) si fanno la guerra anche tra loro e se ne fregano se travolgono i poveri, perché per loro il denaro è potere e il potere è successo.

E siccome piove sempre sul bagnato, la storia della vita di Bazil inizia con la morte del padre a causa di una mina, prosegue con l’affidamento del bimbo orfano a un collegio e la successiva fuga, la ferita da pallottola vagante mentre lavora come precario in una videoteca e la conseguente perdita del posto di lavoro.

Bazil, alienato e sognatore come un novello Charlot vive di piccoli espedienti, ma con dignità, affinando l’arte del mimo in perfetta simbiosi tra il ruolo del personaggio che interpreta e quello sociale che lo Stato riserva ai poveri derelitti di cui parliamo. Eppure, nonostante le traversie, le scarpe con le suole scollate, le notti al riparo dei cartoni e le monete nel cappello, Bazil mantiene un contatto reale con le cose genuine del mondo e il suo sguardo sembra posarsi su ciò che l’occhio sazio non vede. Un po’ come lo sguardo del poeta, che scorge particolari sotto una luce magica, che l’uomo comune non riuscirebbe a scorgere neanche sotto un faro e con la freccia indicatrice accanto.

Succede così che Bazil viene notato e adottato da una comunità di clochard, robivecchi per mestiere – geni per necessità, che vive in un rifugio a forma di caverna, ricavato sotto una montagna di ferri vecchi. Qui la comunità-famiglia produce piccoli gioielli e invenzioni magiche, al pari degli elfi della fabbrica di Babbo Natale. E un giorno per caso, mentre Bazil è in giro a cercare materie prime per la produzione della fabbrica della sua nuova famiglia, nota due edifici – uno di fronte all’altro – che recano le effigi dei costruttori della mina che ha ucciso il padre e del bossolo della pallottola che ha nel cranio.

 

 

Così Bazil decide di saperne di più e, dopo vari tentativi di stabilire un contatto con i fabbricanti d’armi che hanno stravolto la sua vita, decide di infiltrarsi nei loro affari con un piano che irresistibile non è. Oltretutto Bazil non può completarlo da solo: ha bisogno di una squadra. E quale squadra sarebbe più adatta di quella che ha già trovato? Tanto più che la sua nuova comunità-famiglia non vuole fare altro che lavorare in una società di mutuo soccorso, come dovrebbe essere lo Stato ma in forma ridotta. Lui, Bazil, è una sorta di Biancaneve e loro, i suoi nuovi sette amici, sono strani ma uniti da uno spirito di gruppo come se fossero sette piccoli fratelli e sorelle.

Ognuno di loro ha delle peculiari qualità e le mette a disposizione del lavoro di squadra. È grazie a questo lavoro corale che Bazil riesce con il suo improvvisato, scalcagnato ma effervescente piano a mettere in conflitto tra loro le due fazioni di costruttori e mercanti.

Il film è a tratti geniale, a volte incomprensibile, altre gioioso e fiabesco, ma soprattutto è sperimentale come dovrebbe essere un’arte, che mutando non dev’essere mai noiosa e cattedratica. Perché le rivoluzioni sono fatte di piccoli passi, di consenso, affiancando il sentimento di pancia e le mutate esigenze degli insoddisfatti, piuttosto che precedendole. Il cinema francese in Europa, e in particolare quello di Jeunet, dimostra di sapere ancora rompere gli schemi, è il cinema dei mimi, dei Tati, dei Marcel Marceau, dei Pierrot dei giorni nostri. Non a caso, uno dei personaggi più famosi di Jeunet è Amélie Poulain (Audrey Tautou), la sognante e svaghita camerierina di Montmartre, che vive una vita piatta e banale con la stessa intensità con la quale si potrebbe stare nel paese delle meraviglie.

Ad Amélie piaceva girarsi nel buio della sala e osservare le facce degli altri spettatori, tuffare la mano in un sacco di legumi, rompere la crosta della crème brûlée con la punta del cucchiaino; a suo padre non piaceva uscire dall’acqua e sentirsi il costume appiccicato addosso; a sua madre non piaceva avere le dita lessate quando faceva il bagno e avere il segno del cuscino stampato sulla faccia quando si alzava la mattina.

Bazil invece si diletta con i rompicapo, evitando così i corto circuiti generatigli dalla pallottola conficcata nel cranio: «Le zebre sono nere a righe bianche o bianche a righe nere?»; «Tra i pigmei ci sono dei nani? E quanto sono alti?»; «Chi è che inventa le barzellette?»; «Perché il posto che uno cerca in una cartina è sempre in una piega?»; «Quanti passi ci vogliono per consumare uno scalino?».

È demenziale? No, è Jeunet. E Jeunet non cita altri che se stesso. Anche se, incredibilmente, lui sostiene di essersi formato pure con il cinema di Sergio Leone. E in effetti anche quella di Leone era una realtà estesa, amplificata. Qui però le situazioni sono imbrogliate in grande quantità e rischio di non capire più da dove sono partito.

Però una cosa l’ho capita: o abbiamo i soldi come i mercanti di armi o abbiamo una squadra che ci supporti, come quella di Bazil. Non essendoci buone prospettive per i soldi, questo è il mio augurio per il 2011: che possiamo trovare una squadra che ci affianchi nella creazione del nostro mondo straordinario, che ci permetta di realizzare un sogno, il nostro piano esplosivo, una piccola rivoluzione che cominci da noi, perché la nostra vita trasformi gli stenti nei quali i guardiani del cammello vogliono tenerci intrappolati in delicatessen che cambieranno il mondo.

Vi sembra troppo? A me no.

 

Si ringrazia per l’editing M. Laura Villani

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3 Replies to “Che il 2011 sia vincente, come l’esplosivo piano di Bazil”

  1. Vi ringrazio. Infatti è un augurio, appunto, per qualcosa che manca.
    Il cinema (mi) aiuta anche a riflettere sulle situazioni della (mia) vita.
    La cosa che veramente spero, uscendo dal cinema o alzandomi dalla poltrona, è di avere imparato qualcosa e di riuscire a vedere le cose da un punto di vista diverso da come le vedevo prima.
    “Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”. (da L’attimo fuggente).
    A presto.

  2. E’ un bellissimo augurio il tuo,ma non è facile trovare una squadra che ci supporti come quella di Bazil e che ci permetta di realizzare un sogno.Nei films tutto può accadere,nella vita reale,no….ma è tanto bello sognare…Il dolce inganno serve anche a questo,no?
    Comunque anch’io ricambio il tuo augurio..chissà….tutto può succedere,a volte anche nella realtà.
    P.S.Superfluo,ma lo scrivo lo stesso.La tua recensione è eccellente come sempre e invita a vedere il film.

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