Il profeta

Il cinema francese è in perfetta salute. Lo testimonia il recente Un prophète (lett. Un profeta), che non rappresenta l’eccezione ma la regolarità. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’uscita di film come La classe – Entre les murs, Palma d’oro a Cannes nel 2008, La marcia dei pinguini, Il favoloso mondo di Amélie, Il concerto, L’ultima missione, Giù al nord, ed altri ancora che – in quest’ordine anacronistico e scomposto – simboleggiano generi variegati e multiformi, che vanno dal documentario al sentimentale, dalla commedia al poliziesco.

In Italia il film è uscito con un titolo nel quale l’articolo determinativo è stato preferito a quello indeterminativo. E non è stata una scelta felice, in quanto questo titolo sembrerebbe rinviare ad argomenti mistici, dei quali il film non vuole farsi carico. Il profeta (regia di Jacques Audiard) è un cosiddetto prison movie, un sottogenere interno alla categoria dei film drammatici, nel quale il pathos si sviluppa in un mondo ristretto – e al contempo amplificato – delimitato dalle mura di cinta dello spazio claustrofobico nel quale si svolge la storia.

A questo (sotto)genere appartengono titoli che, a distanza di anni, suscitano ancora profonde emozioni ed hanno lasciato tracce indelebili nell’immaginario collettivo. Basti pensare che Robert Redford si sia cimentato due volte nel ruolo di detenuto in film bellissimi: Brubaker e Il Castello. Ma l’elenco dei titoli è lungo e comprende, tra gli altri, Fuga da Alcatraz, Le ali della libertà, L’uomo di Alcatraz, Fuga di mezzanotte, Papillon, Il miglio verde e si potrebbe aggiungere anche Mery per sempre. Includerne o escluderne altri sarebbe comunque una limitazione alle passioni che hanno scatenato questi film. Esistono perfino le serie televisive: tra queste, Oz.

Chi è, dunque, il profeta? Non è altri che il diciannovenne Malik El Djebena (Tahar Rahim) che accede al carcere con l’obbligo di scontare sei anni di reclusione. Lui, Malik, è di origini arabe, ma non aderisce ad alcun credo religioso, non ha familiari fuori che l’aspettano, non sa né leggere né scrivere. Appena dentro, viene assoldato a forza e contro la sua volontà dal boss corso, nonché massima autorità tra la popolazione carceraria, César Luciani (Niels Arestrup), per eliminare un avversario.

Inizia, così, il percorso di Malik all’interno del girone infernale della violenza che lo avvolge come una spirale inarrestabile, come un baratro che tutto inghiotte e risucchia, per uscire dal quale deve restituire la violenza a sua volta, anche perché: «Sono lunghi sei anni. Quanto puoi reggere senza protezione?».

E la violenza scorre con il sangue, ma non è mai fine a se stessa come negli action movie. Qui la scarica di adrenalina percorre le vene al contrario, costringendo a distogliere lo sguardo, alimentando la rabbia e lo sgomento per l’inevitabile ed ingiusta guerra, nella quale i contendenti si sbranano tra loro, perché o mangiano o sono mangiati.

Malik non vuole essere mangiato e si appiattisce sulle regole della vita carceraria, facilitato dalla sua indole sottomessa e da un naturale istinto di sopravvivenza. Perché non è vero che dentro, non vi siano le regole: ve ne sono di altre e diverse. Le convenzioni resistono, insistono e guidano la vita e la sopravvivenza degli uomini, dentro come fuori. Una democrazia totalitaria, la si potrebbe definire attraverso un’iperbole, nella quale l’agorà è rappresentata dal cortile per l’ora d’aria e gli unici codici in vigore sono la forza ed il carisma, che si conquistano giorno dopo giorno.

Ma c’è di più in questo film costruito con ingredienti poveri, girato con tecniche di ripresa minimaliste che mimano la camera a spalla (o lo sono), che si veste di musiche senza seduzione, che fa uso di luce naturale, che utilizza volti privi di fascino ma così tremendamente reali (tecniche e volti), da fare apparire la fiction come la verità di un docu-film. C’è di più. C’è la cronaca delle banlieues, la questione dell’integrazione tra popoli e culture diverse, rappresentata non solo dalla guerra dei corsi contro gli arabi, ma dal rapporto che lega detenuti e secondini, nel rispetto di regole e ruoli che sono fatti per essere infranti, dentro come fuori. Perché dietro le sbarre si gira il film della vita vera, quella di fuori. Solo che fuori la finzione si confonde e si mescola continuamente con la realtà.

Il trailer del film: watch?v=JeJicKEjjAM

L’arrivo del profeta: watch?v=CrLlYGy9USk

Uccidi o sarai ucciso: watch?v=OVpeBioggC4

Riabilitato? watch?v=Od2v86KR8g4

 

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