inFURYAta a vita

Furyo

 

Note di rimbalzo*: strano film di cui restano impresse alcune scene in particolare (l’harakiri, i maltrattamenti e le vessazioni subite dai prigionieri in guerra, il bacio del maggiore Jack Celliers al capitano Yonoi, l’agonia di Jack, il taglio della ciocca) e più ancora una musica che ha un potere magico e incantatorio.

 

Volti e sguardi che trafiggono come lame: bastano questi per superare l’impasse linguistico.

Non un sottotitolo su tutti i numerosi dialoghi, nei quali è solo dato intuire ciò che si esprime in quei suoni urlati, a tratti indistinguibili per un europeo. Eppure si resta là incollati per 2 ore buone, con qualche segno di cedimento solo nei rari passi (flashback) che forse stonano un po’ col clima generale.

 

David Bowie, Ryuichi Sakamoto, Takeshi Kitano, Tom Conti, difficile pensarli insieme fuori da un set eppure così azzeccati nelle parti: lo “spirito maligno”, il demone biondo dagli occhi impari che strega, l’impassibile volto olivastro che spara ordini e sentenze, due uomini così diversi uccisi dalla medesima gabbia, quella dell’Identità, dell’Appartenenza, del “dover” sacrificare se stessi in nome di un’astrazione che ti rende semplicemente un numero.

 

——-

 

NON CAPISCO, NON CAPISCO SE PARLANO O SE VOGLIONO UCCIDERSI SEDUTA STANTE.

HELP!

 

(due ore dopo)

HO CAPITO LO STESSO.

 

 

A distanza di quasi trent’anni dall’esordio di questa pellicola, colta da ‘smania viaggiandi’ (non potendo viaggiare veramente) andavo a rivedere per la … volta (non so bene quante volte l’ho visto) questo film che per molti versi resterà unico, saldamente ancorato nella memoria collettiva e nei miei ricordi.

Perché io ho un problema col sangue e con le lame, e non so perché il destino mi punisce spesso e volentieri mettendomele sott’al naso, senza che possa sgambugliarmela.

 

Rido e piango a pensare a come mi sentii la prima volta.

Neanche si comincia, la musica promette bene… che appare l’orrido harakiri, rituale di autopunizione per espiare una presunta colpa di omosessualità ai danni di un prigioniero – ‘non poteva essere stato solo troppo gentile, no?’ (per inciso, tranne che nel flashback di Celliers, non si vede una sola donna in tutto il film, e poi ti pare strana l’omosessualità?…).

 

E da lì altre lame in azione, tutte affilatissime, anche quelle per gli allenamenti, che mai sia non essere ligi al dovere di tenerle in perfetta efficienza.

Non è dunque un caso se in seguito ho sposato Bear, uno che di lame se ne intende.

 

Siamo seri, almeno una volta nella vita.

E procediamo per gradi, sperando in un’illuminazione.

 

Harakiri, onore, omosessualità, guerra, prigionia, dolore, sangue, privazione, dignità, tradimento, amore, delicatezza, insensatezza.

Una volta che si avvia l’elucubrazione, questa si trascina appresso (insieme ai dati e alle sensazioni) una serie di categorie, sostantivi e aggettivi.

 

Semplice e raffinato. Un film dove c’è praticamente tutto l’universo umano trattato e puntellato, perciò miserie, inganni, le ragioni per cui vale la pena vivere e morire.

Java 1942, recita la didascalia iniziale, eppure non è datato il film come il suo contenuto, che ancora ci perseguita e forse non smetterà mai di farlo.
Un campo di prigionia dove non si rispettano le convenzioni di Ginevra, ci si affretta a sottolineare, e i giapponesi non vanno tanto per il sottile. Vige perciò la strategia del terrore fisico e psicologico, fatta di quotidiane dimostrazioni di forza e debolezza. L’arrivo del maggiore Celliers porta scompiglio, e quel Natale in apparenza recherà non doni ma danni.

1946. Dal campo di prigionia al ribaltamento delle sorti, chi sembrava vincitore è invece sconfitto, e l’aguzzino condannato a morte (il sergente giapponese Hara) incontra l’amico-nemico di un tempo (il britannico Lawrence).

 

“Nessuno è nel giusto”, osserva alla fine soffertamente il colonnello Lawrence, eppure c’è sempre chi avanza e giustifica le proprie azioni su una supposta pretesa di superiorità. Gli occidentali considerano dall’alto in basso i nemici giapponesi e guardano con sospetto a chi (leggi Lawrence) cerca di stabilire un ponte tra le due culture, così diverse, ma in fondo pur sempre il prodotto di esseri umani, con gli stessi bisogni primari, gli stessi desideri. Ed è proprio il desiderio a far scattare quella molla che porta alla destabilizzazione, al collasso di un sistema di valori fino a quel momento considerato assoluto e inviolabile, fondato sull’ordine, la disciplina, un senso quasi spasmodico dell’onore (per un giapponese ‘piuttosto che arrendersi meglio morire’). Bellezza, erotismo e desiderio sconquassano il capitano Yonoi. Sofisticato e contratto, a tratti inquietante, si lascia andare alla fine a un gesto di dolcezza e di rispetto per colui che ha amato e che l’ha condotto nel baratro.

 

Una pellicola che fa riflettere (mostrandola) sull’insensatezza della guerra e dei suoi codici, sulla necessità di andare oltre le ristrettezze delle categorie con cui pensiamo e agiamo quotidianamente.

 

Dunque un film da far girare ancora, nelle scuole, nelle sale, nelle coscienze di chi, giovane o non più giovane non ha ancora un’idea precisa della vita, oppure ha perso ogni illusione sulla natura umana.

 

   

——-

Merry Christmas Mr. Lawrence (Furyo), Gran Bretagna/Giappone, 1983, regia di Nagisa Oshima

  

* Quelle che scrivo per me dopo la prima visione del film, oppure che ripesco dalla memoria, prima di rivederlo

 

Gamy Moore
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