Un’ebbrezza lunga una vita

La febbre calcistica, affezione indotta dal contatto a distanza o ravvicinato con la pratica sportiva denominata Calcio, può scoppiare all’improvviso nell’organismo, talvolta senza preavviso né un’apparente motivazione logica, e perfino con 50 gradi all’ombra.

Colpisce in prevalenza il genere maschile della popolazione (con le dovute eccezioni) per lo più a partire dalla fase adolescenziale; in assenza di anticorpi e di una adeguata profilassi, il virus s’inocula nel sangue ed esistono, nonostante i progressi della scienza, ben poche armi per combatterlo.

È una forma che si impossessa del corpo, ma ancor più dell’animo: non consente di percepire il freddo o il caldo, né gli alti e bassi di altra stagione se non quella calcistica, il calendario che da agosto a maggio fa sentire vivi e attivi, costringendo alla letargia nella breve ma quanto dolorosa, per l’irritabilità che genera parentesi estiva.

I principali sintomi da astinenza periodica da tifoseria (e non è un caso se si parla di tifo, infezione sistemica assai diffusa nel sud del mondo) sono indolenza, indifferenza verso l’ambiente circostante, abuso di alcol e/o tabacco per ingannare l’attesa, irritabilità alla guida e nei confronti dei pensieri molesti che distolgano dall’unico centro di attenzione.

Rientrano nei pensieri molesti cose e persone senza eccezione alcuna, inclusa la morosa, anzi quest’ultima può determinare o arrecare ulteriore danno al paziente, nel vano tentativo di smuoverlo.

 

Ad alcuni è capitato di ammalarsi da bambini o adolescenti, vuoi per le leggi di Mendel o familiarità, vuoi per l’esposizione a/frequentazione di soggetti già affetti da tale patologia; altri ancora vengono infettati da adulti da una patologia connessa (fantacalcio) pur non essendo necessariamente entrati in contatto strettissimo col virus principale, e scusate ma questo è il caso più sfigato. Perché se hai la sfortuna di incappare in un malato di calcio tradizionale, almeno sai potenzialmente chi bestemmiare (generalmente la madre). Se invece scivoli sul tapis roulan del fantacalcio (patologia più recente) non puoi che prendertela col suddetto artefice delle tue incazzature.

 

Londra, campionato di calcio 1988-89

L’Arsenal, dopo annate di dolorose umiliazioni, è in corsa per il titolo e deve fronteggiare i favoriti del Liverpool. Sulla carta è scontata la vittoria degli avversari. Ciononostante, Paul Ashworth, insegnante dai metodi alquanto discutibili ma assai amato dai suoi allievi, di cui è anche allenatore, continua a sperare nel miracolo, che attende da ben 18 anni.

Nella sua testa non circola che quest’unico pensiero, che lo tiene vivo e attivo e dal quale solo perché costretto quasi a forza da una donzella che gli casca fra le braccia riesce vagamente a distogliersi.

La signorina in questione, avvenente quanto basta anche se agli antipodi per carattere e formazione (‘mutande di ferro Hughes’ è il suo soprannome), riesce a intrattenerlo piacevolmente, ma ha un unico difetto insopportabile: non capisce un accidente di calcio, e lo considera solo uno stupido gioco. Non è la sola, ma è l’unica di cui Paul non comprende l’atteggiamento ostativo, volto ad allontanarlo, sminuendone la portata, dalla sua passione.

A onor del vero, Paul è estraneo ad ogni aspetto malevolo o inquietante legato alla tifoseria, specie moderna. Il suo coinvolgimento non prevede o giustifica gli eccessi di una tifoseria violenta o teppistica; è in fondo un vero tifoso, malato sì, ma nell’accezione migliore del termine.

Lei ce la mette tutta per cercare di capire il meccanismo alla base e in qualche modo esserne partecipe, ma il suo limite è non coglierne l’importanza assoluta agli occhi dell’amato.

Ciò determina un crack alla notizia di una inaspettata gravidanza.
Non è la stagione (calcistica) più adatta per metter su famiglia.
Dalla delusione per una sconfitta dell’Arsenal a fine campionato Paul è sinceramente convinto che non potrà riprendersi, troppo lunga è stata l’attesa di quel momento di ebbrezza.

Le cose tra i due giungono a un punto quasi di rottura, nonostante Paul progetti seriamente e con impegno (smette di bere e di fumare) la sua paternità.
È fondamentalmente Sarah a non essere certa di voler metter su famiglia con un uomo che ragiona e si comporta ai suoi occhi come un dodicenne.

Ad una cosa però anche Sarah non può sottrarsi, ed è ciò che infine la riporta fra le braccia di Paul. L’ebbrezza e l’euforia per la vittoria all’ultimo minuto dell’Arsenal la coinvolgono e contagiano suo malgrado, perché quell’attimo di felicità collettiva, così esplosiva ed intensa, le fa assaporare qualcosa che lei stessa non ha mai provato, e che è compatibile col senso di responsabilità nei confronti del mondo.

Si può essere adulti responsabili e nel contempo godere di una gioia semplice e istintiva da bambini, che ti trasmette però fiducia ed energia sufficienti ad andare avanti ed oltre, con entusiasmo.

Quella partita allora non è più soltanto una partita di campionato, ma la partita in fondo più importante per la vita di Paul: raggiunto finalmente il sogno di una vita, egli può pensare finalmente a concedersi e appassionarsi anche a qualcos’altro, gli consente cioè di mettere in dimensione aspetti fino allora trascurati della sua esistenza. Dove il calcio è ancora molto, ma non più tutto.

Continueremo perciò a pensarlo nel futuro come un tifoso di calcio, e ce lo immaginiamo con pupo e moglie al seguito nei pressi o sugli spalti dello stadio con la sciarpetta biancorossa al collo, finalmente appagato e felice, poiché il suo sogno di bambino e di adulto è divenuto realtà.

 

Tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby, e da lui stesso sceneggiato, Fever Pitch di David Evans è un piccolo grande film che mi sento di consigliare a tutti, semplice e immediato per contenuti  e linguaggio, ma soprattutto in grado di svelarti in un sol colpo il mistero che invano hai sognato di infrangere da solo, pensando e ripensando per quale oscuro motivo il tuo partner smetteva di degnarti d’attenzione la domenica o al solo nominare la sua squadra del cuore.

E qui, al solito Moretti che ripete ostinatamente “ma tu che ne sai?” potrò a mia volta replicare:

“Eh no, bello, stavolta lo so per esperienza… trent’anni di convivenza con un malato di calcio, e poi di fantacalcio, mi autorizzano a scriverne almeno una recensione!”.

 

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=I2kyi_P5c4g&feature=related

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=5bJ2AeMRKxA

 

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Febbre a 90°, Gran Bretagna, 1997, regia di David Evans

 

 

Gamy Moore
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2 Replies to “Un’ebbrezza lunga una vita”

  1. Cara Antonella, mio marito è juventino da generazioni, ma ormai col fantacalcio compra e vende formazioni ‘multietniche’ e si diverte ancora come un bambino, e meno male che non abbiamo bambini veri, altrimenti li avrebbe ‘contagiati’… come mamma mi sarei trovata in minoranza… almeno i gatti sono immuni, viva il basket!

    Tra parentesi, a me piace il pattinaggio artistico, se tornassi all’infanzia mi piacerebbe ‘volare’ sul ghiaccio, senza cadere però!

  2. …E che recensione!Sei fantastica Gamy e spero di vedere presto il film.A proposito di calcio,in casa mia ho tre milanisti:-( e uno juventino:-(.Da cinque anni(tutta colpa di sky)anch’io seguo il calcio,ma per la par condicio,ho scelto la Roma e ne sono diventata una tifosa sfegatata.
    A presto

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