Hannah Arendt e la banalità del male

Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler irrompe in scena nell’agognata veste di uno dei principali protagonisti della politica mondiale. Dopo avere provato l’ascesa con scarsa fortuna, il Presidente della repubblica Paul von Hindenburg ne appoggia la nomina a Cancelliere della Germania. Il regime nazista e il suo capo trasudano assolutismo, dominio, supremazia, fanatismo, messianismo in ogni aspetto della loro stessa essenza. Hitler giunge a quel tipo di ruolo come se la scena fosse stata preparata appositamente per lui. E quando giunge, Hitler non deve piegare gli eventi al suo volere, sono gli eventi che si piegano da soli al suo passaggio. All’avvento di Hitler è come se il tempo messianico dell’attesa sia, fatalmente, giunto al termine.

Sebbene l’aggettivo totalitario e il sostantivo totalitarismo fossero già stati coniati dagli anni Venti, è proprio il Führer nazista, con il suo avvento, a  incarnare perfettamente il ruolo del leader totalitario per eccellenza, il ruolo del profeta del totalitarismo, come lo si suppone nell’immaginario collettivo. Il totalitarismo è la massima degenerazione del potere, sfrenato e senza limiti, che l’uomo può esercitare sui propri simili. Per Hannah Arendt è “qualcosa come l’uomo al singolare collettivo che assomma in sé una potenza che non conosce limiti”. Al suo confronto dittatura, dispotismo e tirannia rappresentano solamente pallide e decadute degenerazioni del potere.

In poche, sintetiche e efficaci parole, Arendt cataloga i nazisti come coloro che volevano “decidere chi dovesse e chi non dovesse abitare questo pianeta”. Prende corpo l’idea che ci fossero individui migliori di altri, anzi, che gli altri non potessero neanche assurgere al rango di individui. Hitler, profeta di una religione che avrebbe dovuto portare un nuovo ordine sociale idoneo a garantire la salvezza dell’umanità, scatena la sua violenza rigeneratrice contro gli ebrei, considerati alla stregua di parassiti e nemici della vita:

 

“L’ebreo è un verme in un corpo in putrefazione, è una pestilenza peggiore della peste nera del passato, un veicolo di bacilli della peggior specie, l’eterno schizomicete dell’umanità, il ragno che succhia lentamente il sangue del popolo da tutti i pori, una banda di topi che si dibatte sanguinosamente, il parassita nel corpo degli altri popoli, il prototipo del parassita, lo sbafatore che prolifera incessantemente come un bacillo nocivo, l’eterno sanguisuga, il vampiro dei popoli” (Lista di espressioni usate nel Mein Kampf).

 

Ma il fenomeno totalitario in Germania non investe soltanto il regime ed i suoi capi. Sebbene lontane dai campi di lavoro e di concentramento – e quindi potenzialmente libere –  molte persone simpatizzano, o addirittura collaborano, con il regime totalitario. Ed è lo studio del caso Eichmann, che offre ad Arendt la possibilità di approfondire la questione dell’adesione fattiva di larghi strati della popolazione al regime nazista. In poche parole: quali sono le origini del male?

Adolf Eichmann era un nazista, evaso alla fine della guerra dopo essere stato catturato, e rifugiato sotto falso nome in Argentina, con l’aiuto dell’organizzazione Odessa. Gli israeliani, dietro segnalazione delle organizzazioni che si occupavano di stanare gli ex nazisti, con uno stratagemma prelevarono Eichmann, l’11 maggio 1960, e lo portarono a Gerusalemme, per riaprire una sorta di appendice del processo di Norimberga al quale, l’ex organizzatore dei convogli che trasportavano gli ebrei nei campi di concentramento, era sfuggito.

Dunque a Gerusalemme, al contrario di Norimberga, non è sotto processo il sistema nazista, ma una persona – una singola persona, un individuo nella sua unicità – che offre quasi la sensazione di non capire la gravità delle accuse che gli sono rivolte, o meglio che, a distanza di anni, non ha rivisto minimamente le sue posizioni, le sue idee, né ha maturato il minimo senso del rimorso.

Al momento della celebrazione del processo di Gerusalemme sono già trascorsi alcuni anni dalla redazione de Le origini del totalitarismo, ed Eichmann costituisce per Arendt un nuovo punto di vista, il prototipo del singolo individuo che ha aderito spontaneamente alle idee del regime, senza nesso alcuno con la genesi del regime totalitario. Eichmann si richiama in continuazione alla logica del nazismo, si considera una rotella di un ingranaggio più grande, rimane coerente al ruolo coperto durante la guerra e, così facendo, offre la sensazione di ignorare la possibilità che, durante il processo o prima, avrebbe potuto operare una scelta di libertà. In condizioni normali, molti di coloro che sarebbero diventati i funzionari del regime non avrebbero mai nemmeno pensato di commettere crimini del genere.

Arendt spiega così questi fatti: “Il problema morale nacque solo con il fenomeno della Gleichschaltung, la quale non era una simulazione ipocrita dettata dalla paura, ma il fervore improvviso di non perdere il treno della storia. Da un giorno all’altro ci fu un cambiamento di opinioni per così dire sincero che coinvolse la grande maggioranza delle persone di tutti i ceti e le professioni”. Inoltre, durante i primi tempi del nazismo, parecchie persone “erano impressionate dal suo successo e incapaci di emettere il proprio giudizio contro quello che ritenevano un verdetto della storia”.

Il male allora, secondo Arendt, rivela tragicamente la sua facciata di banalità. Un male che non è necessariamente iscritto nel codice genetico del sistema politico deviato. Un male evitabile ma realizzato per mancanza di reazione: l’atteggiamento di Eichmann suggerisce l’idea che, se il regime riteneva  che fosse giusto o necessario sterminare milioni di ebrei, ci sarebbero state senz’altro delle valide ragioni. Eichmann personifica l’ignavia del popolo. Un’ignavia che Arendt non ammette perché, pur non potendo sovvertire il regime a livello collettivo, individualmente si sarebbero potute adottare forme di resistenza passiva.

Ma vi sono altre ragioni che spiegano la mancanza di opposizione al nazismo: ad esempio, la penetrazione delle idee del regime nella mentalità collettiva, attraverso l’efficacia dell’azione di propaganda. E, in termini ancora più gravi, profondi e radicali, l’annichilimento operato attraverso un lavoro continuo di spersonalizzazione degli individui e la loro assimilazione all’interno dei ranghi-massa.

Ma anche un crollo dei cosiddetti valori morali generali, del quale così scrive Arendt analizzando il  processo di Gerusalemme:

 

“Era come se la morale nel momento stesso in cui crollava all’interno di un vecchio mondo civilizzato si rivelasse senza veli nel suo significato originario, ossia come codice di norme di usi e di costumi che potevano essere sostituiti senza tanti problemi così come cambiano le usanze conviviali”.

 

E se ciò fu vero per gli uomini comuni, lo fu ancora di più per i militari e i burocrati. Costoro, inseriti nelle strette maglie delle strutture gerarchiche, si lasciarono – ancora più dolcemente – dominare dalle autorità, dai folli ideali dei capi, dai loro piani criminali, divenendo – a loro volta – strumenti di iniquità e di morte.

Lo storico Christopher Browning, nel suo libro Uomini comuni, ci racconta dell’evoluzione del carattere di un particolare battaglione di soldati tedeschi: erano padri di famiglia di mezza età del ceto basso e medio-basso, provenienti da Amburgo. Considerati troppo vecchi per essere utilizzati nell’esercito tedesco, erano stati arruolati nella Ordnungspolizei. Molti di essi erano reclute alle prime armi, con nessuna esperienza precedente nei territori occupati. Si trovavano in Polonia da meno di tre settimane:

 

“…il maggiore Wilhelm Trapp (era) un poliziotto di carriera di cinquantatre anni chiamato affettuosamente dai suoi soldati «Papà Trapp». Era giunto il momento di spiegare l’incarico affidato al battaglione.

Trapp appariva pallido e nervoso, parlava con voce soffocata e le lacrime agli occhi, e lottava palesemente con se stesso per dominarsi. Il battaglione, disse in tono rattristato, doveva svolgere un compito estremamente spiacevole. L’incarico non era di suo gradimento, anzi era assai increscioso, ma gli ordini provenivano dalle più alte autorità. Gli uomini avrebbero dovuto tenere a mente che in Germania le bombe cadevano su donne e bambini, se ciò poteva facilitare il loro compito.

Poi passò alla faccenda in questione. Un poliziotto ricorda che Trapp affermò che gli ebrei avevano istigato il boicottaggio americano ai danni della Germania. Secondo altri due poliziotti, egli spiegò che nel villaggio di Józefów c’erano ebrei in combutta coi partigiani. Il battaglione aveva perciò ricevuto l’ordine di rastrellare gli ebrei. I maschi abili al lavoro dovevano essere separati dagli altri e portati in un campo apposito. Gli ebrei restanti – donne, bambini e vecchi – dovevano essere fucilati sul posto. Dopo aver spiegato che cosa li aspettava, Trapp fece ai suoi uomini un’insolita proposta: se qualcuno fra i poliziotti più anziani non si sentiva all’altezza del compito affidatogli poteva fare un passo avanti”.

 

Il 13 luglio del 1942, questi semplici padri di famiglia, fucilarono circa 1.500 ebrei.

 

Così conclude Arendt il suo studio su Alcune questioni di filosofia morale: “Ho cercato di mostrarvi che le nostre decisioni sul bene e il male dipendono dalla scelta dei nostri compagni, di coloro con cui vogliamo passare il resto dei nostri giorni […] Nel malaugurato caso che qualcuno venisse a dirci che preferisce la compagnia di Barbablù, prendendolo ad esempio, la sola cosa che potremmo fare sarebbe di assicurarci che ci stia lontano. Ma il caso più plausibile e frequente, purtroppo, è quello di coloro che vengono a dirci che non importa, che qualsiasi compagnia andrà bene. Sul piano politico e morale, questa indifferenza, benché comune, è a mio avviso il pericolo maggiore che possiamo correre. E associato a questo, si profila oggi un altro pericolo, grave quanto il primo, ossia quella tendenza, così diffusa a non volere giudicare affatto. Dalla volontà o incapacità di scegliere i propri esempi e la propria compagnia, così come dalla volontà o incapacità di relazionarsi agli altri tramite il giudizio, scaturiscono i veri skandala, le vere pietre d’inciampo che gli uomini non possono rimuovere perché non sono create da motivi umani o umanamente comprensibili. Lì si nasconde l’orrore e al tempo stesso la banalità del male”.

Clicca qui per leggere la recensione cinematografica sulle radici del male

Clicca qui per vedere la prima parte del documentario sul processo


2 Replies to “Hannah Arendt e la banalità del male”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *