La chiave a stella

Autunno 1979

Lo guardavo, mentre chiuso nel suo mondo, riempiva risme di carta gialla di numeri e di segni, alcuni per me senza senso.
Si fermava di tanto in tanto, mi mandava uno sguardo di sguincio, poi riprendeva i suoi calcoli senza fine. Tossivo per attrarre la sua attenzione: «Papà, vuoi un caffè?».

Senza togliere lo sguardo dalla lunga sequenza di numeri: «Sì grazie e nella tazza gialla.».
Da circa un mese era il periodo giallo: fogli gialli, golf giallo, tutto giallo.
Tra un po’ sarebbe passato di sicuro a un colore diverso.

E chissà se allora si sarebbe deciso a uscire da quella stanza, mangiare a orari decenti, dormire di notte e stare sveglio di giorno.

Quando cambiava le sue regole, non tutte erano chiare e comprensibili.

Seduto sul divano, cercavo di distrarmi leggendo un giornale, in attesa di una sua frase che non fossero i soliti monosillabi.
Provavo a leggergli le notizie del giornale, per suscitare il suo interesse: nessuna risposta.

Poi quella mattina di dicembre sul bancone della libreria di mio cugino Raffaele, la copertina bianca de La chiave a stella di Primo Levi, con la fascetta Premio Strega attrasse la mia attenzione. Non tanto per il premio strega, ma per il titolo insolito.

La chiave a stella era uno degli attrezzi preferiti di papà, lo nominava sempre, mentre io non avevo mai capito a cosa diavolo servisse, anche per la mia totale inettitudine al bricolage.

Aveva fatto la scuola d’arte e mestieri, era perito meccanico. La meccanica era la sua passione, anche se era finito a fare il capostazione perché nella Grande Guerra lo mandarono nel Genio Ferrovieri ad aggiustare rotaie e a costruire un abbozzo di ferrovia in Albania tra Tirana e Valona, fino al 1921. E quando dismise la divisa di sergente maggiore e le mostrine nere bordate di cremisi c’era già il lavoro pronto: alunno d’ordine capostazione.

Meglio quello che fare il garzone nella macelleria paterna a sfasciare quarti di bue.

Ma il bernoccolo per la meccanica gli era rimasto e aveva inutilmente tentato di trasferirmelo.

Con l’amore per i libri ci era riuscito, ma usare un semplice cacciavite mi dava ansia.

Leggere quel libro era l’occasione buona per conoscere da vicino la chiave a stella e magari per attrarre la sua attenzione e distoglierlo dalla fissa dei numeri e dei disegni.

Gli mostrai il libro e: «Ti leggo qualcosa?».

Alzò la testa dai fogli gialli e mi sembrò che annuisse.

Quel sabato mattina lessi molte pagine. Le avventure di Tino Faussone, torinese, di mestiere meccanico montatore in giro per il mondo forse attirarono la sua attenzione.

È vero che continuava a riempire di numeri e di disegni i suoi fogli gialli, ma di tanto in tanto, nei momenti topici della narrazione, mutava l’espressione del viso come se comprendesse il senso delle parole che leggevo.

Finii la lettura un po’ prima di Natale e mi venne voglia di scavare nella sua cassetta degli attrezzi per conoscere la famosa chiave a stella che avevo tanto sentito nominare.

C’erano decine di attrezzi, di tutte le forme e misure, chiodi, viti, carta vetrata, pezzi di spago, cacciaviti, martelli, pinze, tenaglie e un paio di seghetti, ma di chiavi a forma di stella nessuna traccia.

O forse non l’ho riconosciuta. Gli portai la cassetta davanti e gli chiesi: «Ma qual è la chiave a stella?».
Non mi rispose e continuò a riempire i fogli di numeri.

Non ho mai saputo quale fosse la chiave a stella.

Una mattina, mancava una settimana a Natale, decise di restare a letto per non alzarsi più. E ci rimase fino al mercoledì prima di Pasqua.

Quando si mise a letto, lasciò sullo scrittoio tutti i fogli con quella lunga sequenza di numeri, molte erano divisioni a tre e a quattro cifre, radici quadrate, e i risultati erano tutti giusti, tutti fatti a mente, c’era solo l’indicazione dell’operazione e il risultato. C’erano anche disegni meccanici di vari “accrocchi” come un taglia pomidoro in quattro “pacchetelle”, un paraspruzzi per la Moka, un coltello bilama per tagliare le bistecche con l’osso e altri aggeggi di cui non riuscii a capirne l’uso.

Non poteva essere demenza senile, come disse un tronfio luminare della scienza medica.

Un pensiero mi frullò nella mente: per un attimo avrei tanto voluto essere come lui per poter entrare nel suo mondo e capire.

Il suo stato poteva essere uno scalino superiore dell’evoluzione mentale al quale si arriva poco prima che finisca tutto.

Tra qualche anno avrò la sua stessa età di quando iniziò quella sua diversa modalità e forse avrò la risposta.

Forse anch’io sarò capace di fare le divisioni a tre cifre e le radici quadrate a mente, d’inventare strani accrocchi e di adoperare la chiave a stella.

Si tratta solo di aspettare.

Ringrazio per l’editing Maria Laura Villani

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