La mia casa

La casa aveva un portone in legno, rosso. Non ricordo il nome della via, solo che era la casa d’angolo, all’incrocio. Il numero era alto, qualcosa come 1742. Si usava così.

Le strade erano sterrate e per quanto ne so probabilmente lo sono ancora. Due volte l’anno passava una macchina a livellarle. Durava fino alla prima pioggia, poi le buche ricominciavano e verso la fine potevano inghiottire una macchina.

Di fianco alle strade i fossi portavano via l’acqua piovana e anche tutto il resto, e quella volta che ci sono finito dentro in bicicletta, beh, non profumavo certo di pulito.

Di fronte c’era un giardino e un piccolo orto. La camera che si affacciava era quella da letto dei miei genitori, dove dormivo anch’io.

Un patio coperto correva lungo tutto il lato sinistro della casa. Pavimento in cemento rosso, era il luogo ideale per i nostri giochi che erano principalmente:

  • Calcio
  • Automobiline, con il circuito disegnato usando il gesso
  • Scivoloni: d’estate, con il caldo, si apriva la canna dell’acqua e via a scivolare di pancia.

La casa confinante è stata a lungo occupata dai miei migliori amici d’infanzia, tra noi solo una siepe alta un paio di metri e occupata, l’ho scoperto a mie spese, da nidi di vespe. Una volta, per salutarli, mi sono arrampicato in cima e ho messo entrambe le mani giusto sopra uno di quei nidi.

Il cortile in terra battuta era invece il terreno ideale per far correre le biglie: si scavava una piccola buchetta e poi si partiva tutti da dietro una linea, più biglie a testa. Bisognava mettere le tue in buca e allo stesso tempo spazzare via quelle degli altri. Ricordo ancora con orgoglio quella volta che ho spaccato a metà il boccione di un “avversario”.

In fondo al patio c’era a sinistra un magazzino dai muri esterni molto ruvidi: sulla mia testa è ben visibile il risultato di un incontro troppo ravvicinato, finito con un rapido bendaggio casalingo. Ospedale? Punti? Che roba sono?

Di fronte al magazzino c’era il laboratorio da sarto di mio padre, con il camerino di prova, il bancone lungo, le stoffe, il manichino.

Una volta che stavo giocando a pallone con lui, l’ho stressato tanto che è uscito di corsa per parare un pallone e di rimbalzo ha rotto un vetro. Quante parole…

La casa aveva degli ospiti un po’ particolari: grossi ragni neri e pelosi, non so quanto pericolosi ma di certo molto brutti. Ce ne ho messo di tempo per farmi passare la paura dei ragni dopo.

Ogni tanto si assisteva a battaglie epiche tra ragni e vespe. La vittoria andava naturalmente alle ultime. I vantaggi dell’attacco aereo.

Quando pioveva, dal terreno spuntavano lombrichi grossi come un dito e lunghi una trentina di centimetri.

D’estate, ogni tanto le mie sorelle uscivano con pentole e mestoli a far un gran casino per cercare di coprire il suono del camioncino dei gelati.

Una volta sullo stradone davanti sono passate le farfalle: milioni, tutte in volo in una direzione. Sembrava una migrazione di massa. Mettevi le mani aperte fuori e ne catturavi a decine.

Quella è stata l’unica casa di proprietà dei miei, venduta per comprare i biglietti che ci hanno permesso il viaggio in Italia.

Dopo quella casa ne ho passate tante: per un certo periodo abbiamo vissuto a casa di parenti, poi su una porzione di casa colonica e poi per tanti anni in un appartamento, parte della paga di mio padre custode del condominio.

Io l’ho lasciato prima di loro: matrimonio e piccolo appartamento acquistato con il mutuo. Abbiamo finito di pagarlo vivendo in un’altra casa, a migliaia di chilometri di distanza.

I miei figli, 9 e 4 anni, hanno già abitato 6 case diverse in 4 nazioni e due continenti.

Un anno fa abbiamo venduto quell’appartamento e ora, tornati in Italia, siamo di nuovo in affitto.

Eppure ognuna delle case che abbiamo passato l’ho sentita mia.

Non ho mai sentito il bisogno, l’urgenza di una casa piena di tutti gli accessori possibili. Non riesco a concepire l’idea di spendere venti, trenta mila euro per una cucina. Non capisco perché debba durarmi tutta la vita.

Una casa non è quell’ammasso di solo mattoni, cemento, cavi elettrici. Quella, al limite, è un’abitazione.

Una casa è molto di più, e allo stesso tempo molto di meno. Non è niente di fisico, per cominciare.

La casa è le persone che la abitano, le emozioni che le uniscono, il piacere di stare assieme.

Questo è qualcosa che nessun pavimento in marmo potrà mai dare, nessuna vasca idromassaggio. Ed è un fardello talmente leggero che lo si può spostare di luogo in luogo, rendendo allora sì, ogni posto la propria casa.

E ogni casa, un luogo piacevole dove stare.

Il signor Brauer è arrivato all’estrema sintesi di questo concetto, costruendo, lui sì, la casa fisicamente con i suoi ricordi e i suoi valori. E facendo ciò, nello stesso tempo eliminando i ricordi dalla sua memoria, perché in quel preciso momento li vincola, li blocca in un luogo e li rende intrasportabili e inconsultabili.

La sua storia è meravigliosamente narrata da Carlos María Domínguez, nel cortissimo ma non per questo meno bello “La casa di carta”.

La nostra vita è la somma dei ricordi che abbiamo. Se li blocchiamo in un luogo, che vita avremo mai?

Se ci pensate è così bello: se i nostri valori e i nostri affetti sono i muri e i tetti della nostra casa, allora ogni casa diventa un posto piacevole dove stare. In qualunque luogo del mondo.

E di luoghi, il mondo è pieno.

 

Con affetto

 

IK

 


Elvira e Paola, benvenute a casa.

httpv://www.youtube.com/watch?v=bUPRQDewJpA

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5 Replies to “La mia casa”

  1. bei quadri, ho volato tra quelle farfalle, ho sentito la puntura delle vespe e il frantumarsi della finestra, ma ciò che più mi ha colpito è questa frase: D’estate, ogni tanto le mie sorelle uscivano con pentole e mestoli a far un gran casino per cercare di coprire il suono del camioncino dei gelati.
    La casa di carta di Domínguez l’ho amato molto anch’io, un piccolo Borges? e oltre al significato del concetto di casa questo libretto mi ha fatto riflettere anche su un altro concetto, quello dell’amore per i libri ovviamente: in “La casa di carta” al centro c’è il libro come contenente, invece in “Farenheit 451” l’attenzione è posta sul contenuto.

    Questo tuo racconto mi fa pensare inoltre ad una poesia: La mia casa del poeta islandese Sigurdur Palsson

    Non manca quasi niente
    nella mia casa.
    Quasi niente
    Manca il comignolo
    Ci si abitua
    Mancano i muri
    e i quadri sui muri
    Pazienza

    Non manca molto
    nella mia casa
    Manca il comignolo
    Che per adesso non fuma
    Mancano i muri
    e le finestre
    e la porta

    Ma è accogliente, la mia casa
    Prego
    Accomodatevi
    Non abbiate paura
    Mangiamo qualcosa
    Spezziamo il pane, un goccio di vino
    Accendiamo il camino

    Guardiamo
    no, ammiriamo i quadri
    sui muri

    Prego
    entrate dalla porta
    o dalle finestre
    se non dai muri.

  2. Coinvolgenti sempre le tue narrazioni e…quanto hai ragione!La casa è..le persone che vi abitano,che vivono in armonia;non la cucina da ventimila euro,non la vasca con l’idromassaggio,non le ceramiche.La casa è un tetto fatto d’amore,un pavimento di complicità,pareti di sorrisi ed è tanto leggera,che puoi portarla dove vuoi.Grazie sempre Juan per le emozioni che regali.

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