Ella, Andrés e l’Oscuro

 

di Ella May

 
Regione oscura
 


Circa un anno fa abbiamo avuto il piacere di parlare con Andr
és a proposito del suo primo romanzo intitolato “La Cura”; potete trovare qui l’intervista precedente, in caso vi solleticasse la curiosità di risalire agli esordi.
Qualche tempo fa siamo tornati alla carica, per approfondire la “Regione Oscura” che questo giovane e raffinato scrittore ha saputo dipingere con una semplicità tale da superare l’onere della definizione.
Ci aspettavamo di trovarlo un po’ cambiato, in virtù del successo riscosso… Invece no.
È rimasto l’uomo riservato, gentile, disponibile e serio che avevamo conosciuto. Una gradita conferma.
Il suo secondo romanzo, intitolato appunto “Regione Oscura”, edito da Fandango Libri, racconta vicende quanto mai attuali e lo fa con una delicatezza crudele che graffia pagina dopo pagina; eppure lo si legge facilmente, sostenuti da una scrittura chirurgica scorrevole come una lama di rasoio.
Con questa storia Andrés ci trascina, senza scossoni e senza via di scampo, nell’oscurità immobile e vischiosa di una dimensione umana e sociale che troppo spesso ci troviamo a frequentare in veste di attori inconsapevoli.

 

1) Ciao Andrés, bentornato nello spazio di LetterMagazine. Grazie per aver accettato di sottoporti, di nuovo, alla tortura (speriamo indolore) delle nostre domande. Da curiosi quali siamo, ti chiediamo subito di aggiornarci sulla tua vita privata: cos’è cambiato per te nel quotidiano, ora che sei a tutti gli effetti uno scrittore abituale?

– Ciao Ella, bentrovata. Guarda, a sorpresa ti rispondo che non è cambiato nulla. Vivo ancora a Parigi, faccio ancora lo stesso lavoro e sono ancora “allergico” ai social networks e compagnia bella.

 

2) Ho capito, anche stavolta avremo a disposizione poche foto per corredare il pezzo. Pazienza. Però ho saputo che hai tenuto una lezione speciale alla Holden, la prestigiosa scuola fondata nientemeno che da Alessandro Baricco. Com’è stato fare il professore per un giorno? Come ti hanno accolto i ragazzi?Scuola Holden

– È stata un’esperienza particolare. Non ero solo, in cattedra con me c’era Emiliano Poddi, scrittore e insegnante di ruolo della scuola Holden. Parlare di fronte a una platea di studenti è diverso dal presentare un libro a un pubblico di lettori; mi hanno rivolto molte domande sulle tecniche di scrittura che ho usato nei miei romanzi, indagando a fondo le mie scelte stilistiche. Ovviamente non ho svelato loro tutti i trucchi, se così si può dire… Ma sicuramente è stato interessante sperimentare la loro curiosità di futuri scrittori.

 

3) Veniamo a noi per occuparci di “Regione Oscura” e partiamo proprio dal titolo: ce lo spieghi con parole tue?

– In effetti nel libro non esiste una spiegazione esplicita del titolo, hai ragione. Sai che anche la casa editrice mi aveva chiesto di inserire un paragrafo per chiarirne il significato? In realtà c’è un punto in cui il senso di regione oscura diventa palpabile… Là dove la giornata di lavoro viene descritta come l’ingresso in una stanza chiusa e buia, in cui si segue il flusso delle cose senza aprire gli occhi. L’intero romanzo cerca appunto di dare un nome a questo complesso sentimento, perché il mio scopo non era definirlo ma raccontarlo. A volerlo comunque chiarificare, direi che la regione oscura di cui parlo è la ripetitività intrinseca della giornata di lavoro, o della vita stessa… Un’immagine metaforica che ho scelto per disegnare il concetto. L’opposto non è necessariamente una regione di luce; secondo me una soluzione al problema potrebbe essere il seguire se stessi, con gli occhi ben aperti. Però questa è la mia chiave di lettura e non è detto che debba coincidere con l’opinione del lettore. Ognuno è libero di interpretarlo come crede.

 

4) La trama si svolge in una regione non identificata, esattamente come nel tuo primo romanzo. I personaggi parlano in inglese tra di loro ma non si sa se quella sia o meno la lingua madre del protagonista che si trova lì in trasferta. Come mai questa perenne vaghezza geografica?

– Per motivi simili a quelli che ti spiegai per “La Cura”: non specificare le coordinate geografiche dell’ambientazione concede un respiro più ampio alla storia, liberandola da confini oggettivi che implicano riferimenti sociali e culturali non voluti. Non pensare che io utilizzi sempre questa tecnica, anche se in effetti è comune a entrambi i romanzi; diciamo che tendo a eliminare ciò che non serve, per conservare soltanto gli elementi essenziali alla narrazione. A volte sono i confini geografici, a volte sono i nomi, ma può essere anche altro.

 

5) Come ambientazione sociale hai scelto una multinazionale, scenario in cui le persone sono identificate da ruoli e numeri, come ingranaggi di un meccanismo tanto più grande e articolato di quanto possa apparire in superficie. È una dimensione che ti tocca direttamente?

– No, non ho sperimentato personalmente quel tipo di multinazionale, anche se conosco bene il tipo di meccanismo che la fa funzionare. Volevo raccontare una situazione a stretto contatto con la produzione, però senza nominarla mai. Quella del romanzo non è una multinazionale di servizi, in cui il prodotto è qualcosa di intangibile; qui si tratta di un’azienda che realizza oggetti concreti, fisici, sebbene il nome di questi oggetti non venga mai specificato. La fabbrica in questione sta chiudendo e il prodotto non c’è, le linee di produzione sono ferme, vuote, disabitate. Credo che l’assenza di un prodotto materiale sia molto più efficace come immagine rispetto all’assenza di un servizio. E non è un caso, perché la storia di “Regione Oscura” è ispirata a fatti di cronaca realmente accaduti.

 

Andrés6) In cosa ti somiglia il protagonista e in cosa invece è diverso da te?

– Mi somiglia molto poco. In comune abbiamo il sentimento del lavoro e nei primi due paragrafi del libro c’è abbastanza di me, questo sì; però il personaggio in sé e per sé è diverso da me. Parto dai primi paragrafi dove racchiudo ciò che mi è noto per arrivare a comprendere lui, per scoprirlo via via che scrivo. L’autobiografia non mi interessa perché è storia già vissuta, sono più attratto da ciò che ancora non conosco, da ciò che va capito. Attraverso l’invenzione e la narrazione vado in cerca di sentimenti che sono altro da me, è la mia strada per cercare altre verità, attraverso nuove esperienze.

 

7) All’inizio della storia il protagonista spiega che i nomi utilizzati sono falsati per impedire il riconoscimento delle persone coinvolte; anche il nome dell’azienda viene taciuto. Comunque ogni personaggio viene identificato da un nome proprio, tranne il protagonista stesso. Perché questo strano gioco di finzione nella finzione, dal momento che i fatti narrati sono comunque frutto della tua fantasia?

– In parte questo stratagemma mi ha permesso di far apparire come vera una storia inventata, ma soprattutto è il concetto stesso di nome che ho voluto approfondire. Oggi i nomi, le marche, hanno un ruolo preponderante e condizionano più di quanto si creda il nostro quotidiano. Pensa al semplice fatto che digitando un qualsiasi nome in un qualsiasi motore di ricerca si possono ottenere infinite informazioni su cose, persone, avvenimenti. Ho voluto giocare con questo fenomeno, ironizzandoci sopra per smarcarmi dal suo meccanismo.

 

8) Parlando di tecniche narrative… Sei passato da un libro scritto in terza persona a un libro tutto in prima persona: perché?

– In realtà io non ci vedo una grossa differenza, a livello di scrittura. Lo scrittore sceglie semplicemente il punto di vista attraverso cui raccontare la storia, cerca la voce del personaggio principale, perché alla fine è attraverso i suoi occhi che vengono osservati i fatti narrati. Per quanto riguarda il primo romanzo, credo si debba parlare di una “doppia prima persona” più che di una terza persona, perché i punti di vista dei due protagonisti sono quasi equiparabili. In questo romanzo invece il personaggio chiave è palesemente uno solo e l’uso della prima persona serve anche a evidenziarne il carattere chiuso e solitario.

 

9) In “Regione Oscura” il tema del contrasto è quasi un fil rouge che percorre, in modo più o meno scoperto, l’intera vicenda; tra tutti il più lampante è senza dubbio il contrasto dei colori. Il candore della neve contro l’oscurità della notte, il bianco asettico dei mobili e degli arredi contro il nero lucido dell’asfalto… e così via. In mezzo a questi due estremi c’è il rosso: il rosso del vino, del sangue, del cappotto di Miriam. Che ruolo hanno i colori nella tua scrittura?

– I colori sono immagini per il lettore; a volte sono sfuocate, altre volte sono forti e fantasmagoriche. Lasciano un segno importante, contano più dei singoli dettagli. Il contrasto tra i colori è una delle mie tecniche preferite per far risaltare i personaggi; offre un colpo d’occhio immediato, semplice e quindi più difficile da analizzare. È una scelta ragionata, come in pittura: si mettono i colori in relazione l’uno con l’altro per dare loro un senso. Rispetto al primo romanzo, qui i contrasti sono ancora più netti, dato che sono scomparsi il blu e il grigio; infatti in questa storia ciò che il protagonista si trova davanti è molto chiaro, soltanto lui non riesce a vederlo.

 

10) Nel tuo primo libro c’era una nave scura ferma in porto, assimilata a una balena spiaggiata. Nel tuo secondo romanzo c’è un capannone chiaro simile a un’immobile balena bianca: è una coincidenza?

– Non ci avevo fatto caso. Evidentemente si tratta di un’immagine ben salda del mio immaginario. Ho frequentato spesso capannoni e zone industriali: sono imponenti, sono preclusi al pubblico perché privati. Alla sera sembrano vuoti e spenti, invece nelle loro pance si lavora e vi succedono cose. Il contrasto tra il silenzio esterno e il rumore folle della produzione che urla al loro interno ha un che di mostruoso, un po’ come la figura della balena.

 

11) La routine, gabbia dorata e comoda dentro cui rischiano di spegnersi sogni, desideri, e forse anche talenti: salvezza o dannazione?

– Se si ha un obiettivo da raggiungere, la routine è il passo che segue il passo, il percorso da superare per arrivare a destinazione; anche l’atto di camminare è ripetitivo. Ma il protagonista di “Regione Oscura” non sa dove sta andando e se la routine non ha un senso preciso allora diventa un problema. È una cosa negativa quando si accetta come normale il lavorare solo per loAndrés Beltrami stipendio, facendo cose che non ci va di fare, che non ci piacciono e che vanno contro quello che siamo. Dovrebbe essere inammissibile. Ormai sembra perfino che non abbia più senso nemmeno studiare, perché tanto non si trova mai il lavoro che si vorrebbe. Non si dovrebbe piuttosto pensare a come migliorare il mondo? Lo so, è un discorso idealista che trova poco spazio nella quotidianità attuale ma credo che ce ne sia bisogno. Dare per scontate le ingiustizie è una discesa agli inferi.

 

12) Tra i personaggi di questa storia, qual è quello che ti piace di meno e quello che ti piace di più?

– La verità è che li amo un po’ tutti, perché imparo a capirli mentre ne seguo le vicende, le vivo con loro, ne soffro con loro. Non faccio il tifo per l’uno o per l’altro come magari può fare il lettore. Ovviamente trovo più simpatici i personaggi simili a me, quindi il protagonista non è di sicuro tra i miei preferiti: è un calcolatore, pensa soprattutto ai propri interessi… Non ho grande stima di lui.

 

13) Rispetto al tuo primo libro in cui il personaggio principale era femminile, qui le donne hanno, se mi consenti, un ruolo quasi di contorno. Sì, c’è Sara al centro del triangolo amoroso, ma questo intreccio è solo il paravento dietro cui si celano i veri motivi del suicidio di Daniel, scintilla che innesca l’intera vicenda. Come mai ti sei traslato al maschile?

– È vero, questo romanzo è incentrato su figure maschili, ma è Miriam che guida il protagonista tra i meandri dell’inferno e non è un caso che sia una donna. L’unica figura totalmente positiva è affidata proprio ad una donna, anche se è una “presenza in assenza” perché non la si vede mai fino alla fine e la si sente soltanto parlare al telefono. Quando ho iniziato a scrivere “Regione Oscura” non sapevo quasi nulla di come si sarebbe svolta la storia, però sapevo che doveva finire così, con Miriam. E non è cosa di poca importanza.

 

14) Il suicidio brutale di Daniel, compiuto in una stanza degli uffici, è il terremoto da cui si dipanano le trame della vicenda: alla fine il protagonista arriva a sentirsene direttamente (ma inconsapevolmente) responsabile. Ritieni possibile per il singolo percepire davvero il ruolo che può avere in uno scenario vasto e contorto come quello delle multinazionali? E cosa può fare il singolo contro i meccanismi incrollabili delle logiche aziendali?

– Sì, credo che sia possibile se non altro prendere coscienza della situazione e del ruolo che in essa si ricopre. Piuttosto direi che si trovano scuse per non esserne consapevoli, così come fa il protagonista, egoista dall’inizio alla fine. Come ti ho detto prima, la storia del libro si ispira a una serie di fatti realmente accaduti. Anzi, ti dirò che proprio mentre scrivevo il romanzo si è verificato un evento molto simile a quello che ho raccontato; tale concomitanza mi ha reso difficile terminarne la stesura, perché mi ha portato a chiedermi chi sono mai io per poter scrivere di situazioni così difficili. Ma la consapevolezza non può e non deve mancare, altrimenti ci si ritrova davvero prigionieri di una regione oscura.

 

15) Altro tema costante del libro è la solitudine: c’è la solitudine fredda del protagonista, ma anche quella sofferta di Miriam, di Sara, degli operai che si muovono come fantasmi in una fabbrica dismessa. C’è quella dorata del direttore e quella invisibile della receptionist. Però c’è anche il lato positivo della solitudine, incarnato dall’uomo anziano ospite dello stesso albergo del protagonista, che racconta la sua rinascita dopo la vedovanza. Che rapporto hai tu con la solitudine?

– Buonissimo. A me piace la solitudine, ne ho bisogno. Credo che ogni scrittore debba avere un buon rapporto con la solitudine, perché si è soli durante la scrittura. Io ci sto bene, da solo. Quello della solitudine è a tutti gli effetti un vero e proprio “sotto-tema”, affrontato coscientemente e non finitoci dentro per caso; la dimensione che ho tratteggiato nel romanzo è una regione oscura anche perché ci viviamo dentro abbandonati a noi stessi ed è questa oscurità che, in qualche modo, declina tutto in senso tragico, perfino negli aspetti positivi. La solitudine ricercata, ad esempio, ha una valenza positiva, come succede là dove il protagonista si rifugia sulla collina, lontano da tutto e da tutti, ma si veste comunque di negativo se consideriamo che siamo anelli di una catena incapaci di comunicare tra loro, meccanismi appunto, incastrati in un ingranaggio contorto.

 

16) Il tuo è un libro cupo, scorrevole e facile da leggere ma denso di un’atmosfera opprimente. L’unica nota di leggerezza, anticipata qua e là nella storia, si ha nel finale. Si può dire che “Regione Oscura” si chiude con un sorriso?

– In un certo senso, sì. La presa di coscienza è una conquista fondamentale, ancor più del cambiamento che ne può conseguire, perché il cambiamento si porta dietro altri problemi, altri conflitti… Implica altre scelte da fare, e via così. Mentre l’epifania, intesa appunto come rivelazione, è di per se stessa un sorriso, perché significa comprensione; prendere coscienza ci porta verso un sano distacco ironico e ci aiuta a dare il giusto peso ad ogni cosa, ci consente di creare gerarchie di valori che sono essenziali per non perdere la strada.

 

Noi ringraziamo di cuore Andrés Beltrami per essersi prestato a soddisfare le nostre molte curiosità sul suo lavoro. Se posso permettermi un suggerimento… Leggetelo, perché lui è uno di quei talenti troppo difficili da raccontare e quasi impossibili da definire, ma sono sicura che non rimarrete indifferenti al sapore sottile e deciso delle sue parole.

 

 

http://andresbeltrami.com/home.php

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