Interno di un disagio in famiglia di camorra

L’opera prima di Maria Luisa Nuvoletta, in esso ci viene offerto un prezioso spaccato dall’interno di una famiglia di Camorra. Un grido di impotenza e dolore.

legami d'amorelegami d'amoreSin dalla nascita Barbara e Vito Cortese vivono a Firenze, in una famiglia di commercianti di biancheria. L’alluvione del 4 novembre del 1966 distrugge la loro ordinaria esistenza di adolescenti. Il fango, in poche ore, seppellisce la città, e distrugge anche l’attività economica della famiglia Cortese costringendola  a lasciare la città toscana per andare a Napoli, città di origine del padre, Armando Cortese. Questi, che aveva eletto per sé e famiglia Firenze a propria città, rinuncia per sempre a ricostruirsi un futuro  insieme  ai fiorentini, la rinascita sarà lontana dall’Arno. Armando, infatti, ha accettato l’invito dei parenti a ritornare nell’antico e sicuro alveo parentale: ha rinunciato ad ogni speranza di vita lontana dai legami di sangue della famiglia di origine. Da quel momento per i figli inizia un percorso che li metterà di fronte alla reale fisionomia di quella famiglia. Scoprono lentamente che i Cortese sono una famiglia di “camorra”, che vive e rinnova se stessa dentro codici culturali troppo diversi e spesso violentemente contrastanti con quelli assorbiti a Firenze. Saranno chiamati lentamente ad essere come i loro parenti: gli uomini destinati a mostrare forza e ferocia all’esterno e diffidente affettività all’interno della famiglia e le donne confinate in casa ad educare i figli maschi ad essere a loro volta cattivi e violenti, e le figlie femmine a desiderare di sposare uomini spietati.

Il romanzo è la narrazione del cammino confuso dei protagonisti. Essi infatti, si troveranno davanti ad una scelta non richiesta, che vede per loro una sola possibilità: accettare i ruoli che per loro hanno deciso i parenti fin dalla nascita. Avere nelle vene il  sangue dei Cortese, vuol dire imparare a sentire e ad accettare il fluido denso e corrosivo che si nutre del sangue versato dei nemici; una  corda bagnata nel sangue  altrui da stringere intorno al proprio collo. I ragazzi proveranno a difendersi, a dissentire: Barbara si rifugerà nel sogno del ritorno a Firenze e Vito, nel miraggio di vivere liberamente la propria sessualità. Quest’ultimo sarà protagonista di una fuga disperata  verso la campagna fiorentina. Fuggono dal padre mostro che cerca di cooptarli, in tutti i modi, allo stile di vita letale.

Fuggono da un padre che amano. L’appartenenza allo stesso ceppo genetico impone l’accettazione di “quello”stile di vita e la rinuncia ad esso, o peggio  la fuga da esso, è tradimento. Tutti devono  fare fronte comune di fronte agli assalti del mondo, vissuto sempre come nemico, non è accettabile la diserzione. Tutti insieme a mangiare, a vivere e a morire. I nostri protagonisti, manifesteranno a più riprese la necessità di una vita diversa secondo quella morale assorbita fin da bambini tra le vie di Firenze. Ma è proprio Firenze che si allontana sempre di più; l’ethos dei Cortese è troppo forte e minaccia pesantemente, anche nell’immaginario, le intime aspirazioni dei ragazzi; annulla sogni e speranze in cambio di una presunta sicurezza collettiva, esistenziale ed economica.

Che fare? Barbara non accetta di fare proprio il potere delle donne di famiglia che sta nel pilotare gli uomini, usando le armi del cibo, della cura, e della subalternità, per poi seguirli in tutte le loro scelte; Vito con disgusto vede per sé il profilarsi di un sentiero da uomo di camorra che forgia nella  violenza e nei soprusi sul prossimo la sua coscienza di uomo di rispetto, tutto questo però è così lontano da ogni suo respiro. Cercano di difendere la propria individualità di donna emancipata e di ragazzo omosessuale, invano. L’agitazione dei ragazzi sarà avvertita dal capogruppo parentale come una minaccia per l’esistenza “rispettabile “di tutto il nucleo.

Messi alla prova, si riveleranno inadeguati e perciò pericolosi, definitivamente. La famiglia non può più tollerare questo suo punto di debolezza pena lo scherno, il disprezzo, la sconfitta e la morte. La famiglia è esposta all’offesa dell’avversario e del nemico: bisogna correre ai ripari e riaffermare la potenza di chi della morte si serve con spietatezza, di chi non perdona il tradimento, mai e senza alcuna eccezione. Anche il loro stesso padre si troverà in gravi difficoltà di fronte al gruppo che accusa i suoi figli di inaffidabilità. Barbara e Vito vivono tutto il dramma internamente al gruppo parentale, non sono in grado di uscire da quei legami di sangue anche perché amano senza riserve il padre. Non ne razionalizzano la mostruosità, in loro la disubbidienza al gruppo non diventa presa di coscienza e motivo di azione per un distacco netto e motivato. Non hanno maturato il necessario senso di sé che porta alla separazione. Non lo concepiscono. Non arrivano a distinguere tra obbligo verso se stessi e verso i legami familiari. Si auto segregano nel ruolo di figli, vittime di un legame d’amore, un infido legame d’amore.

Tenteranno di muoversi costantemente ai margini della parentela, dissentendo ma mai contrapponendosi, non cercheranno appoggi all’esterno. Cercheranno per se stessi una pace che non tradisce: un compromesso impossibile. Metteranno solo a rischio la loro esistenza. Non chiederanno mai aiuto, sostegno, ascolto, fuori dal gruppo familiare. Non affideranno mai all’esterno le loro pene, le loro paure, le loro denunce. Per essi né lo Stato, né altra Istituzione può comprendere il loro disagio. Fuori dalla famiglia non intravedono, e nemmeno  provano  mai a cercare, qualcuno capace di accogliere il loro disagio filiale, qualcuno capace di difenderli come figli. Sono solo fatti di famiglia. Sembra che dicano:”Né con i parenti né con nessun altro”. “Il sangue è sempre sangue”.

Tentano di mettere in atto una distanza fisica, così come aveva fatto il padre anni prima, prima del rientro nella gabbia di sangue a causa dell’Arno. Una fuga. Una disperata fuga per tornare a Firenze è il loro pensiero fisso. Non ce la fanno a realizzare di avere un padre mostro, che li ha prima generati sì  per esser liberi lontano da Napoli ma poi li ha traditi, sacrificati sull’altare della carne e del sangue della famiglia. Su di lui non hanno dubbi. Ma è oramai tardi. Il legame di sangue si stringe, oramai sono diventati carcassa agli occhi dei familiari.

E dentro la loro carcassa non c’è  più il sangue e la carne dei Cortese che li protegge. Se non ci fosse stata l’alluvione tutta la famiglia di Barbara e Vito sarebbe ancora nel negozio di Firenze. I ragazzi non realizzano che è stata  la scelta personale del padre a condannarli e non l’alluvione dell’Arno. Non c’è fatalità ma scelta.  Non è l’Arno ad essere avverso a loro, irrazionale e mostruoso nei confronti della famiglia Cortese. Non è l’Arno che costringe la famiglia di Armando Cortese a rifugiarsi nei legami di sangue.

Non è l’Arno ad avere paura della vita. Non è l’Arno a ritenere di aver bisogno della forza e del benessere parentale, del sangue per sopravvivere. I due fratelli si ritroveranno abbracciati in una casa nelle campagne fiorentine, diroccata come la loro bella famiglia (ancora distrutta come anni prima) ad annusarsi tra di loro, e a riconoscere l’un l’altra l’odore del padre. Sono troppo ingenui? O, loro malgrado, sono sempre stati in quei legami? Anche a Firenze? La scelta che li salverebbe dall’ira famiglia non verrà mai messa in essere. La scelta della totale separazione che li avrebbe resi diversi dagli altri Cortese, che li avrebbe resi  fiorentini, sarà invece messa in atto, per loro, da Sonia, ragazza adottata dai genitori si Barbara e Vito, Armando e Giovanna Cortese in concomitanza dell’alluvione.

Sonia diventa figlia e sorella Cortese, cresce circondata da affetto e premure e seguirà e amerà la sua nuova famiglia. Unico  gratuito e autentico dono fatto da  un Cortese ad un essere umano. Con la famiglia adottiva Sonia ha un sincero e gratuito scambio d’amore: un legame d’amore, filiale e fraterno, che non segue le logiche del sangue ma che è capace di indignarsi, di rifiutare e di ribellarsi. Sonia metterà in atto la scelta che Barbara e Vito non sono stati in grado di fare.

 


 

 

Legami d’amore è il romanzo di esordio di Maria Rosa Nuvoletta. In esso ci viene offerto un prezioso spaccato dall’interno di una famiglia di Camorra. Un grido di impotenza e dolore. Conosco parte della genesi di questa storia e so dell’urgenza che aveva l’autrice di metterla in una pagina scritta da condividere con il lettore. So del valore documentale di questo racconto. Il romanzo è una preziosa testimonianza, affidata alla narrativa, che porta il lettore  in un intimo di famiglia di camorra, quella di terra, che forse non esiste più così forte e fiera della propria spietatezza. I fatti narrati si riferiscono a un epoca di poco anteriore agli inizi della rivoluzione del narcotraffico che muterà famiglie “contadine e commercianti” in famiglie “d’imprenditori” globali. Ma è pur sempre una camorra coriacea, inflessibile che probabilmente resisterà, interrata e apparentemente surclassata, anche dopo il declino di quella imprenditrice oggi trionfante, per dare vita a una nuova era di soprusi e violenza. Mi piace sintetizzare la famiglia che ci presenta l’autrice come una tribù fondata sul sangue, sul cibo e su di una ferocia legata da un ipertrofico bisogno di rispetto. Questa famiglia camorrista ha fame disperata di rispetto, di quel rispetto che si compiace della paura fatta provare al prossimo, che nutre così il proprio sentirsi vitale e dominante e che, chiedendo atti di apprezzamento sociale e parole di sudditanza, stabilisce per gli altri una vita fatta di angoscia strisciante. La loro pretesa di rispetto e vanità  e ferocia. Il loro rispetto che essi reclamano è una tronfia coercizione al favoreggiamento più o meno  esercitato. Essi ci vogliono tutti complici, tutti legati: o per silenzio o per rispetto. Questa famiglia dona, elargisce, offre qualcosa, anche posti in famiglia “come se fosse un figlio” solo per avere eterna  e incondizionata riconoscenza. Nel romanzo quest’atteggiando di impiego vantaggioso del dono è esplicato dal caso di Tommaso che nel libro viene apprezzato per “l’affetto e la fedeltà incondizionata” che mette a disposizione della famiglia dopo aver ricevuto un lavoro, nel negozio di biancheria dei Cortese, che gli salverà l’esistenza Gli verrà richiesta la restituzione del dono quando di lui si avrà disperato bisogno.  Non si terrà mai conto di metterlo in pericolo di vita, perché la sua vita, dal momento che ha accettato il regalo, non è più sua, appartiene alla famiglia Cortese. E lui sarà riconoscente. Questa famiglia nutre tutti, sazia, rimpinza, ingozza quanti hanno la “fortuna” di sedersi al suo tavolo. Quel cibo gustoso, abbondante e generosamente condito, è il cibo dell’appartenenza al gruppo, del riconoscimento di un’ appartenenza a un ceppo dominante, è il dono che legittima all’esistenza parentale per chi accetta di sedersi alla loro tavola. Una condivisione terribile, primitiva, simbolica, di sangue, è il sapore dell’animale cacciato e divorato insieme per la sopravivenza, ingurgitato insieme da tutto il branco. È la vita che la tribù dona all’individuo in cambio del legame. L’autrice ce ne offre un “gustoso” e terribile bozzetto in occasione della cena di natale:

la stanza puzzava di capitone e baccalà.

Le donne erano indaffarate a portare a tavola vassoi di frittura che gli uomini consumavano subito, untuosi e cosparsi di grasso lucido dalla bocca al mento, senza la creanza di attendere che tutti fossero seduti a tavola.

Le donne cucinavano.

Gli uomini mangiavano”.

 

Il sangue è il più antico segno di appartenenza e di riconoscimento e ha la funzione specifica di apportare ossigeno e sostanze nutritive ai componenti del gruppo e in questa, come altre famiglie camorriste, il suo odore è molto forte e riconoscibile. Si è dentro o si è fuori per la qualità del sangue che si ha  Ma non solo, si è dentro o si è fuori se si è versato  il sangue dei nemici, che va sparso a terra attraverso esecuzione, prima che loro possano farlo a uno di loro; versare il sangue altrui per conservare il proprio e dei propri cari. Un atto di “legittima certificazione” di supremazia sulla vita altrui. Meglio loro che noi. E comunque sempre prima loro.

Una bestialità. Da questo racconto si fa strada il convincimento che gli uomini di camorra, le donne che se li sposano, le madri che li partoriscono, i figli che ne ripercorrono il destino, sentano coattivamente di vivere sotto un costante assedio. Qualcosa che non controllano, ma che avvertono con tutti e cinque sensi come esiziale e che temono come un bambino teme la propria ombra.  Vedono questa forza inquietante dappertutto, soprattutto in quelli non appartenenti al loro legami di sangue che si “agitano” troppo intorno a loro.

Cercano disperatamente di esercitare un controllo su questa forza, sfuggente e immonda, plasmando le proprie coscienze, con l’aiuto delle donne, alla forza e alla ferocia. Paradossalmente la cercano, la invocano, la sfidano. Stanno asserragliati gli uni sugli altri, legati e sospettosi gli uni degli altri. Sono ossessivamente stanziali, sempre nello stesso perimetro geografico, abitato dagli avi che in precedenza hanno liberato il territorio dalla forza maligna che li assedia, con le loro lotte sanguinose e le loro conquiste violente. Non possono lasciare il loro territorio come il vampiro non può lasciare la notte. Strada per strada, casa per casa, tutto viene controllato a vista, notte e giorno, contro ogni evenienza perché il male si incarna nel nemico e sta sempre a cercarti. Chi dei familiari si allontana viene richiamato appena se ne presenta l’occasione, perché, lì, fuori dal perimetro familiare è in costante pericolo, la sua disfatta potrebbe aprire un varco nel muro spesso della difesa familiare.

È la  morte,  forza forestiera e spietata, il nemico  più ossessivamente temuto. La morte non viene mai dall’interno, se non per tradimento, viene sempre dal di fuori. I componenti della famiglia l’avvertono. Lei aspetta sull’uscio, in attesa di ogni piccola incrinatura nelle difese, di ogni spiraglio, pronta a  saziarsi  di uno di loro. E’ così infettiva che basta solo un solo piccolo tradimento per farla divenire epidemia e dilagare. Se qualcuno tradisce, tutta la famiglia è in pericolo. Ma questa sconfesserà il traditore, lo disconoscerà, lo rinnegherà, lo abbandonerà a se stesso, lo trasformerà in carogna di animale ancor prima che lo stesso tradimento possa compiersi del tutto.

Gli dovrà togliere tutto, in special modo il sangue e la carne dal corpo. Se la famiglia è unita, la morte non farà  niente di tutto ciò, nessuno sarà da lei preso. Questi uomini e queste donne hanno una fottuta e violenta paura di morire nascosta dentro la pretesa del rispetto e della riconoscenza. Comprenderanno mai che la morte è un destino comune a tutti  e che si affronta insieme a tutti gli altri e non contro gli altri?

stop alla camorra

Latest posts by (Collaborazione esterna) (see all)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *