La parola alla Difesa

Cosa ci vuole per definirsi scrittori? Avere scritto qualcosa, direte. Un racconto? Beh, forse no… diciamocelo, un racconto è poco più dei temi che si scriveva a scuola. Ci vuole un romanzo. Almeno 300 cartelle fitte fitte.

Ma scritto forse ancora non basta. Bisogna che sia messo su carta. Stampato. Impaginato.

Insomma, ci vuole un codice ISBN. La fatica deve essere pubblicata, il libro diventare una realtà.

Allora, solo allora ci si potrà definire scrittori. Come King, Allende, Baricco.

O no?

Voglio dire, basta veramente pubblicare per sentirsi al livello di Stephen King? Tutti quelli che hanno pubblicato un libro sono scrittori?

Voglio precisare subito che come riferimento ho messo tre scrittori che non sono, secondo me, tra i migliori in assoluto. Tre bravi, bravissimi scrittori, ma che messi in competizione con altri nomi scompaiono. Penso a King contro Dürrenmatt: incomparabili.

In questo magazine abbiamo già affrontato questo tema, con il bell’articolo di Alessandro Greco sulle pubblicazioni a pagamento.

I commenti dei lettori, per lo più uniformi, tendono a incolpare le Case Editrici “che normalmente non capiscono niente della grandezza che si trovano davanti e quindi costringono tantissimi bravi scrittori ad autoprodursi”.

Per questo ho deciso di dare la parola alla difesa: oggi intervistiamo un editore, Guido Farneti della casa editrice Azimut

 

Guido Farneti, Editore. Cosa ti ha spinto a fare questa professione, che gli “scrittori” considerano a livello morale una tacca più in alto di Bigazzi ma comunque molto più basso dei gerenti della Gestapo?

Oderint, dum metuant.

Mi piace spesso dire che una volta scrivevo, e che in seguito ho scelto di fare l’editore per dare voce a qualcuno più bravo di me.
Ma forse è solo falsa modestia. In realtà fare l’editore è vivere un continuo delirio di onnipotenza. Noi diamo la vita: a libri, a storie, a personaggi e persone. E spesso diamo e ri-diamo vita anche a scrittori.
Siamo demiurghi, in un certo senso, e non solamente editoriale.
L’aspetto fondamentale è l’etica con cui ci si fa editori. perché mettere i piedi in testa alla Gestapo è sublime, e anche giusto, ma suscita dubbi sulla propria moralità: questo lo odio. perché il vero editore è come il vero scrittore, non riesce a fare nulla d’altro che lo appaghi allo stesso modo.

 

Devo dire la verità? Se veramente l’unica cosa che ti appaga è fare l’editore, non vorrei essere tua moglie. L’editore che dà la vita: questa è una bella immagine. Il problema è che ci sono editori che a volte danno la vita a creature sbagliate. Come fai a scegliere chi pubblicare?

L’editore dà la vita. L’editoria, come il sesso? Bè, ti dirò. In effetti capita e mi capita che il piacere nel creare un libro sia un piacere fisico, anzi, carnale. Se fossi mia moglie, che ancora non ho, cercherei solo di farmi piacere i libri. Sempre, dalla mattina alla sera. O comunque di inventarmi qualcosa che ci abbia a che fare. L’editore non è un lavoro, l’editore è un habitus. Qualcosa che ti fa muovere il cervello anche mentre dormi.

Come i figli, che ti tengono sveglio. I figli bravi, e le pecore nere.
Ormai ho un certo numero di figli. Ma non sono loro a deludermi, mai. E’ il genitore con cui l’ho creato, a farlo, a volte.
Io non pubblico semplicemente libri. Io pubblico persone, questa è la mia filosofia. 
Nei libri ci credo, i libri sono così come li crei, e se sbaglio -a crearli-, continuo a crederci lo stesso.
Le persone cambiano. Come i partner. Ci si sceglie, si crea. Poi, capita che ci si lasci. E’ la vita. Anche con dolore, o delusione.
Ma ciò che si è creato rimane, e non lo rinnegherò mai.
Comunque, scelgo le persone. Mi infatuo. Mi invaghisco. Mi innamoro.
Il libro verrà di conseguenza.

 

Scusami, ma questa la devo capire meglio: io ho sempre pensato che a un editore si manda il manoscritto che si vuole pubblicare, ma se tu ti innamori delle persone, cosa ti si deve spedire, la biografia e un book fotografico?

Ti confesso che la biografia per Azimut è sempre molto importante. Il book fotografico, invece, lo richiedo solo quando si tratta di scrittrici. Mi pare il minimo. Alda Merini diceva che il poeta è sempre, per sua natura, bello anche esteticamente. Io dico che se una scrittrice è bella, esteticamente, l’editore si sente più a suo agio nel pubblicarla.

A parte ciò, ho una piccola presunzione. Quella, dopo 14 anni di lavoro nell’editoria, di riuscire a capire e conoscere un po’ della persona-scrittore attraverso il personaggio-scrittore.
O meglio: mi innamoro, e decido di portare avanti il discorso, solo con quelle persone che riesco a svelare -e che riescono a svelarmi un pò del loro mondo da ciò che scrivono.
E, una volta stabilita questa corrispondenza d’amorosi sensi, allora mi piace farmi i fatti dei miei futuri scrittori.

 

Ok, al limite ci ritorniamo dopo. Mi preme di più capire alcune problematiche reali dell’editoria. Leggendo commenti sparsi, ho l’impressione che la maggior parte degli scrittori pensi all’Editore come a una entità fantastica che si nutre di aria (i più fortunati, aria fritta). Per questo motivo presumo si possano permettere di mandare indietro le loro formidabili e incomparabili produzioni. Ci confermi che vi nutrite di aria? perché se così non fosse, dovrei giungere alla conclusione che pubblicate chi scrive meglio, o ha più possibilità di vendita. Insomma, si premia la qualità. È possibile questo?

Vedi, InkKiller, parliamoci chiaro: Azimut non avrà mai la possibilità di pubblicare un libro che venda centomila copie. E non perché non siamo in grado di scovare libri belli e/o commerciali. Ma perché Azimut (e come noi altri colleghi bravi) è una di quelle bestioline carine e simpatiche a tutti, ma che è bene stiano al posto loro senza allargarsi. Prima di tutto perché non ne hanno le possibilità.

Noi siamo come il sottobosco che dà vita e corpo e carattere al Chianti: siamo come quelle mentuccia lì, quella che gli intenditori ben conoscono.
E, preso atto di questo, allora tanto vale cercare di creare una bella isola Azimutiana, dove i rapporti personali vengono prima di tutto, anche del libro stesso. E con questa sinergia di forze, solo con questa, si può provare a diventare non solo mentuccia, ma vero e proprio tralcio di vite di Chianti.

Sì, alcuni editori si nutrono di aria, condita con passione.
Anzi, non soddisfatti, questa aria di cui si nutrono la pagano pure cara. Io faccio un altro lavoro, oltre all’editore. E come me, tutti quelli che collaborano con Azimut.
Forse che non potremmo vivere di sola editoria? Forse sì. Con qualche miscuglio, un pizzico di furberia, una spruzzata di paraventismo. Ma, se Dio vuole, ancora, e non so per quanto, possiamo permetterci di non scendere a compromessi. E di scegliere solo ciò che ci piace, ciò in cui crediamo. Ciò di cui, come dicevo sopra, ci innamoriamo.
Che non sempre o non necessariamente corrisponde a ciò che più ha qualità, o ciò che riteniamo più possa vendere.
Ovviamente, sono parametri che teniamo in considerazione. Ma non sono tutto. 
In fondo, parafrasando il conte Valentino Bompiani: sono io che ci metto la faccia e i soldi, sarò libero di pubblicare quello che voglio e come lo voglio?

 

Sono sempre più confuso. Ricapitoliamo: l’editoria si divide in due categorie: I Grandi, che scelgono chi pubblicare tra tutti i nomi a disposizione, e che quindi cercano di pubblicare chi vende, e I Piccoli che invece cercano di fare solo pubblicazioni di qualità o di lanciare gli scrittori (che poi inesorabilmente passeranno a una Grande quando hanno un certo seguito). Corretto?

Io mi imbatto in case editrici di una certa dimensione che pubblicano cose di straordinariao qualità: Dürrenmatt lo pubblica Feltrinelli, Glauser Sellerio (d’accordo, Sellerio è medio piccola), Perissinotto e Carofiglio sono con Rizzoli (passando attraverso Sellerio, rampa di lancio).

Insomma, non mi sembra che le grandi case cerchino solo “il bestseller”: direi che possono permettersi il bestseller o il libro del comico di turno per far cassa e il gusto di scoprire o portare al pubblico anche dei bei gioiellini.

Le Piccole invece sono sempre piene di sorprese, questo sì! A volte ottime, altre meno. Credo dipenda dal gusto di chi pubblica (la faccia) e di chi legge. Una piccola casa ha la sua identità e quindi va verso un certo pubblico.

Tuttavia ce ne sono molte di case editrici e dunque un ventaglio di scelte non indifferente. Allora mi chiedo nuovamente: come mai molti, moltissimi “scrittori” devono affidare le loro opere, fondamentali per la società, a editori a pagamento? Il livello culturale di TUTTI gli editori in Italia è così basso da non capirli o esiste una ragione diversa?

Non è proprio corretto quanto scrivi.

Ma credo, sperando di non andare fuori tema, che dobbiamo partire da un dato di fatto che purtroppo in tanti, troppi, trascurano.
I grandi, così come i piccoli, editori sono imprenditori. Vale a dire che gestiscono delle società. Vale a dire che hanno dei bilanci. E vale a dire che questi bilanci a fine anno devono essere in positivo.
Pena: la chiusura e game over, che non è bello.
E così entrambi devono venderli, i libri. 
O meglio, entrambi devono trovare l’”argent de poche” per andare avanti.
Pubblicando libri, cercando finanziamenti, escogitando furberie, o facendo doppi lavori.
E perciò, è naturale che i grandi cerchino di accaparrarsi gli scrittori più conosciuti, anzi, quelli più letti. (che non sempre sono in identità).
Per, come dici al meglio, fare cassa. E permettersi di poter pubblicare anche gioiellini quali quelli che hai citato.

Quindi sì, non mi sognerei mai di negare che i grandi cerchino, oltre alle vendite, anche la qualità! Grazie a Dio in Italia esistono molti editori grandi che non trascurano la bellezza.

C’è però una piccola sfumatura, da non trascurare.
Se Durrenmatt lo pubblica Feltrinelli, è Durrenmatt. Se lo pubblicassi io? O, al contrario: se io, nel mio catalogo, avessi un Durrenmatt, avrei davvero un Durrenmatt o un pazzo qualsiasi?

I piccoli hanno dunque un problema diverso. Che credo di aver spiegato. Hanno meno mezzi, sia culturali, che economici, per imporre i loro scrittori. Poi, che questo non sempre accada presso i grandi… beh, è nei giochi. Ma ti posso assicurare che molto più frequentemente accade l’altro fenomeno, e cioè che un Juan José da Silva pubblicato da Azimut rimanga solo Juan José da Silva, letto da 25/30 lettori (ndr: grazie per la stima!).

Di case editrici ce ne sono tante, troppe. Forse Azimut stessa, che è giovanissima, fa pure parte di queste “troppe”. Non lo nego.
E come mai molti scrittori devono rivolgersi agli editori a pagamento, quindi? Per via di ciò che ho scritto sopra. Del fatto che un’editrice è una società. Che deve produrre quindi utili. E che, per quanto un piccolo editore amerebbe pubblicare, magari, dieci scrittori “senza paracadute” all’anno… guardando alle vendite e al proprio bilancio decide che non può permettersi di pubblicarne più di uno, o due. perché sicuramente gli altri 8 farebbero bene a dedicarsi ad altre arti, ma anche perché, se fossero 10 Durrenmatt… non riuscirebbero a imporne più di uno, o due.
Oltre tutto, credo sia inutile che io stia a lagnarmi con la solfa della crisi, del libro-oggetto voluttuario che viene “tagliato” dalle necessità familiari, e via dicendo.
Semplicemente, è così. È sotto gli occhi di tutti, inutile ripeterlo.

Con questo cosa voglio dire: quella che tu probabilmente riterrai un’eresia, o una bestialità, e che per spiegarla servirebbero altre 400 righe, forse. E cioè, che io non sono, per principio, contro l’editoria a pagamento. L’ho anche sperimentata personalmente, in gioventù, e lo rifarei pure, se avessi ancora mire da scrittore.
L’importante è scindere, e qui 400 righe nemmeno basterebbero, l’editoria a pagamento (in cui il pagamento è un farsi partecipe del meccanismo editoriale, per via di quanto detto prima sulle risorse limitate) dalla “stamperia” (dove l’editore non è altro che un passacarte: dallo scrittore al tipografo, e di nuovo allo scrittore).

E, provocazione per provocazione: non credi, InkKiller, che oggi tutti vogliano fare gli scrittori perché scrivere è forse una delle pochissime attività in cui non ci sono costi? Voglio dire. Se io volessi fare il musicista, e non fossi Mozart, avrei bisogno di uno strumento. Avrei bisogno di un maestro. Avrei bisogno di una lunghissima serie di lezioni. avrei bisogno di una sala prove. E così via… avrei bisogno di molto denaro, anche solo per provare ad entrare nel meccanismo. Senza garanzie. 
O no?

Almeno, pubblicando un libro con un buon editore a pagamento, un risultato lo avrei: un libro che, non foss’altro, da 25 persone come minimo verrebbe letto.
E se tra questi ci fosse un talentuoso scout di Feltrinelli…..

 

Be’ Guido, hai sicuramente aperto nuove vedute e nuovi orizzonti. Hai certo ragione quando dici che essere scrittori è un sogno oggi, grazie alla nuova tecnologia, possibile perché quasi senza costi. La stessa tecnologia permette però allo “scrittori” di farsi conoscere molto bene nel web, di crearsi un seguito. Con questo poi è facile trovare un editore.

Io ho un dubbio: che chi riesce a pubblicare SOLO e UNICAMENTE a pagamento forse, alla fine, in fondo in fondo, magari, semplicemente NON SA SCRIVERE.

Se qualcuno ha mire di successo e non riesce a farsi seguire da nessun editore, piccolo, grande, medio che non sia a pagamento, allora forse non ha le qualità giuste. Ma questo, si sa, è solo un mio pensiero.

 

Con Affetto

IK

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2 Replies to “La parola alla Difesa”

  1. Caro JJDS (il tuo acronimo ha un che di religioso…), io ritengo che non si debba mai ricorrere aun editore a pagamento, non tanto per ragioni di stile o di dignità (Proust e Moravia autopubblicarono i loro primi scritti), ma perché troppe volte ho visto autori paganti e libri non distribuiti, non presenti nel mondo, fosse pure il piccolo mondo locale (ci sono editori piccoli e seri che riescono a distribuire solo nella loro regione, ma distribuiscono, e gli autori sanno di essere visibili solo localmente, ma c'è onestà intellettuale e chiarezza). L'editore, del resto è un imprenditore, deve portare a casa un bilancio, ma deve assumersi il rischio d'impresa, come chi produce macchine, fermo restando che con i piccoli e seri editori anche l'autore deve riuscire ad autopromuoversi, e oggi il web aiuta molto. Sul fatto che tutti scrivano, oggi, va anche bene, purché chi scriva abbia come obiettivo la bellezza da raggiungere con il testo e la felicità del fare, non la ricchezza o la fama (almeno non come obiettivi primari).
    Ciao.

    1. Massimo, pienamente d'accordo con te! Ribadisco: per me chi riesce SOLO (non una volta, ma sempre SOLO) a farsi pubblicare da editori a pagamento, ha sbagliato strada nella vita.

      Grazie per il commento!!!

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