La vendetta della gatta Marforia

– racconto e illustrazioni di Mauro Cristofani –

 

Di quella storia non si volle parlar più in casa mia ma una voce che ho dentro me la racconta giorno e notte solo io posso sentirla, è ossessionante mi perseguita mi spacca in due la mente ma guai se un giorno tacesse. E so che mi sta cercando. Ne sento il soffio l’alitare il rantolo, maledetto prima o poi verrai.

Era il primogenito dei vicini, gente miserabile che oltre alle ingiurie della sorte aveva dovuto sopportare anche un figliolo come lui. È passato del tempo ma ricordo tutto come fosse ieri. Vandro fantasma più succoso del vero fatti carne e sangue, fai di me quel che devi fare.

A quell’epoca lui sedic’anni io quasi nove tutt’e due senza amici, lui schivato con sospetto da qualsiasi comitiva io selvatico sfuggente i compagni. Una sorte bizzarra incrociò le nostre due vite.

Vandro violento. Passatempi preferiti: prendere a calci i gatti lanciarli sul muro come fossero palloni farli rotolare giù dai pendii legare alla coda dei cani un filo con barattolo in modo che l’animale ruotando su se stesso cerchi di strapparselo sbavando dalla rabbia.

Gli animali gli fornivano sempre nuove idee di tortura. Come quando chiuse la gallinella viva tanto amata da sua madre nella pentola piena di brodo bollente.

C’era però un gattaccio che gli sfuggiva sempre, muso sporco pancia vuota sguardo duro di chi è scampato tante volte a lotte selvagge. Non si faceva acchiappare e ciò lo eccitava. Quando riuscì ad averlo fra le mani prima gli torse il collo due o tre volte badando di non farlo soffocare poi gl’inchiodò la coda al tronco d’un albero mettendo una ciotola piena di mangiare dove non poteva arrivare con la bocca. Col passare del tempo gli sforzi della povera bestia si fecero sempre più deboli, ognuno martoriato dagli strattoni dolorosi procurati dalla coda ferita e sanguinante, mentre Vandro eccitato cominciava furiosamente a masturbarsi.

Per poi giacere a terra soddisfatto, sguardo vitreo di belva acquietata finalmente sazia.

Imprigionato nelle proprie nefandezze non respirava mai una boccata d’aria pulita. E pretendeva che io assistessi alle bravate, veder l’orrore nei miei occhi gli aumentava il godimento. Io fingevo di sfuggirgli ma aspettavo che m’obbligasse con la forza, il diavolo segreto ch’era in me voleva che appagassi le mie curiosità.

A Vandro piacevano i cadaveri. Un giorno mi disse:

-È morto il fattore di Solmonte, andiamo a vederlo.

Io di morti avevo visto solo mio cugino. Steso nella bara con gli occhi semichiusi e tutto vestito a festa m’era sembrato bello.

Arrivammo alla casa del morto, sulla soglia esitai ma Vandro mi tirò per un braccio. Penombra, odori dolciastri. Donne chine sui rosari uomini appoggiati ai muri bisbiglianti fra di loro, tutti parvero ignorarci. Io non riuscivo a levare gli occhi dal vecchio stecchito e bianco che sembrava finto. Fazzoletto passato sotto il mento e annodato sulla testa due monete sulle palpebre per tenerle chiuse era una statua di gesso messa lì per far paura. Vandro esperto in cadaveri mi spiegò che il fattore era spirato strabuzzando gli occhi e con la bocca spalancata e che il fazzoletto e le monete servivano a tener chiusi sia gli occhi che la bocca.

Improvviso movimento nella camera ardente, arriva una matta che si getta sul morto gridando Marito mio! Marito mio! Le donne alzano il capo dai rosari gli uomini cercano di toglier dalla bara l’invasata ma quella sembra averci affondato l’unghie tanto c’è aggrappata. A farle lasciare la presa ci riesce una piccolina, scende dal braccio della madre con una mano le tira appena l’orlo dello scialle e quella se ne va.

Vandro in prima fila voglioso d’un’altra scena colpisce la bara col ginocchio facendo cadere le monete e gli occhi del morto si spalancano. Grida d’orrore dei presenti fuggi fuggi generale, piegato su se stesso Vandro ride a crepapelle, io scappo a gambe levate.

Mi giurai di non seguirlo più, ma durò poco. Quando mi ritrovò chiese beffardo:

-Ehi perché sei sparito?

Io risposi:

-Cose varie.

Invece in cuor mio avevo sperato d’incontrarlo. Andò subito al sodo con l’ultima trovata, la Peniarda, una vedova ricca e pettoruta che aveva la nomea di pagare i ragazzetti per far sesso. A sentir Vandro era cotta e stracotta e voleva divertirsi con lui. Sapevo che Vandro ci sapeva fare con le donne, se ne faceva tante sia giovani che vecchie. Andava anche coi maschi se ci stavano, a lui bastava far lavorare l’animalone sempre a testa dritta che aveva fra le gambe. Ogni tanto si tirava giù i calzoni e me lo mostrava sghignazzando:

-Vedi è bello grande e grosso e io gli voglio togliere tutte le soddisfazioni!

Però con la vedova mirava al colpaccio perciò voleva far le cose di molto, ma di molto per bene.

Il venerdì la donna era solita andare al camposanto a portare i fiori sulla tomba del marito.

Vandro mi fece nascondere dietro un cespuglio dicendo:

-Ora guarda come si fa.

Quando la Peniarda spuntò dalla curva le si parò davanti toccandosi la patta, lei lo guardò sprezzante piegò in giù gli angoli della bocca poi esclamò:

-Ecco un altro che ha sentito l’odore dei miei soldi!

Vandro non s’arrese e cercò di provocarla con gesti ancor più osceni e secondo lui irresistibili, la vedova invece diventò una furia e si mise a gridare con quanto fiato aveva in gola:

-Io vado con chi mi pare e con te non ci vengo brutto maiale lercio e schifoso io non m’insudicio con quelli come te!

Poi rivolta all’intorno perché la sentisse il vicinato:

-Mi fate tutti schifo io non ho bisogno di nessuno sto bene da sola con la mia Marforia!

Poi inculita se n’andò su due gambette rinsecchite che parevano reggere a fatica il corposo volume soprastante.

Sbucai dal cespuglio sbellicandomi dalle risate. Vandro imbestialito bofonchiò:

-Vecchiaccia maledetta troia che non sei altro ci penso io a sistemarti la gattaccia!

Per la povera gatta Marforia prevedevo giorni di dolore.

Mi trascinò a forza nella nuova impresa.

Appostati nei pressi del palazzo della Peniarda, vediamo la micia camminare sul muro di cinta occhi pigramente socchiusi coda al vento incedere indolente e molle. Quando è a tiro Vandro l’agguanta e la mette dentro un sacco, poi s’avvia per un viottolo che non conosco facendomi cenno di seguirlo.

Arriviamo a una baracca, rifugio segreto.

Apre la porta sgangherata, entriamo. Tira fuori dal sacco la gatta miagolante la mette su un tavolaccio afferra un coltello e con un colpo netto le taglia la coda. Io urlo, lui guarda compiaciuto con occhi da matto prima me poi la povera Marforia rimasta a bocca spalancata e i peli ritti come spilli. Cerco di tamponare con un fazzoletto il sangue che esce a fiotti ma Vandro mi spinge via rimette la gatta nel sacco e ordina:

-Riportala al palazzo.

Se accetto sono suo complice, ma non posso dirgli di no.

Lasciai la povera bestia dov’era stata presa, muta e barcollante.

Vandro s’accorse che dopo quella vigliaccata volevo davvero allontanarmi da lui. Allora mi disse:

-Oggi ti porto dalla Genziana.

Era una puttana che riceveva in casa.

Io balbettai:

-Ma… sono piccolo.

Lui ridacchiò: Non aver paura, tu guardi e basta. Così impari per quando anche tu ce l’avrai in tiro.

All’entrar da quella porta comincio a tremare, un po’ per l’emozione nuova un po’ per il timore d’esser visto da qualcuno della mia famiglia.

La Genziana è un donnone mezzo uomo e mezzo donna, capelli lunghi giallastri e truccata come a carnevale. Si sdilinquisce appena ci vede ma Vandro taglia corto:

-Facciamo vedere a questo pivellino come si fa!

Lei mi guarda appena tutta presa a brancicarlo vogliosa poi si spogliano e comincia lo spettacolo.

Quel che vidi e che sentii non lo scorderò mai, perché mai avrei immaginato che due persone insieme potessero fare tante cose di sesso.

Mi sembrò di diventare grande in un sol colpo, e quando fui davanti allo specchio cercai di vedere se quell’esperienza m’aveva lasciato un segno sulla faccia.

Tutto stava diventando troppo pericoloso, bisognava rompere con Vandro e a mente calma pensai a come potessi fare. Evitai le strade frequentate da lui e cercai conforto nella vita di famiglia, ma poi mi consolavo nell’immaginare che mi stesse cercando.

Come una saetta un giorno si sparse la notizia: la Peniarda s’era ammazzata.

Paese in subbuglio, chi diceva che la causa era stata la troppa solitudine chi perché la vita senza un uomo porta alla tomba chi perché la vedova voleva raggiungere il marito morto. Però i meglio informati sapevano che la causa di tutto era la malasorte toccata alla sua adorata micia e che prima di farla finita la donna aveva fatto testamento lasciando proprio a Marforia palazzo e patrimonio, nominando il notaio curatore responsabile dell’animale e unico amministratore dei suoi averi.

Marforia era però sparita dal palazzo, e nessuno l’aveva vista più.

Il giorno del funerale anch’io mi misi in fila fra i visitatori nella camera ardente. La morta era nella bara col suo abito da sposa il velo bianco i nastri fra i capelli le collane e i braccialetti, sembrava una bambina vecchia messa lì per la festa. Fra le sue mani irrigidite spiccava un cameo d’oro e brillanti con l’effige della gatta, si diceva che da solo valesse milioni.

Tutto preso a fissare il cadavere non m’ero accorto che Vandro era dietro di me. Mi sibilò all’orecchio:

-Quasi quasi la Peniarda è più arrapante ora che quand’era viva.

Cercai d’allontanarmi ma lui mi venne dietro e una volta fuori mi sbarrò la strada.

Dissi fingendo indifferenza:

-Che vuoi?

Mi prese per un braccio mi svincolai corsi via, mi raggiunse dicendo minaccioso:

-Se tuo padre sapesse quel che abbiamo combinato insieme!…

A vedermi spaventato rise beffardo:

-Non dirò nulla scemo, allora amici?

Non vidi vie di fuga, mi porse la mano e gliela strinsi.

Però non finiva lì, aveva bisogno di me per fare una certa cosa.

Mi guardò con sguardo diavolesco e chiese:

-Hai visto che bendiddio c’aveva addosso la Peniarda? Nemmeno i vermi riusciranno a mangiare tutta quella roba!

Non riuscivo a parlare, ero in un incubo. Ma Vandro proseguì implacabile:

-La tomba verrà chiusa fra tre giorni, da stanotte la Peniarda sarà a bara aperta nella cappella del camposanto. Ha voluto così perché aveva paura d’essere sotterrata ancora viva…ah ah!

Vedendomi imbambolato mi scosse due o tre volte quasi gridando:

-Quella c’ha fatto un gran favore ora è lì con tutte le sue cosine luccicanti e non potrà più dirmi di no, non bisogna far attendere una signora!

Occhi spiritati denti scuri grandi labbra umidicce capelli spettinati dritti sulla testa lo vedevo chiaramente, era un mostro.

Implacabile mi ordina:

-Quando in casa tua tutti dormono salti dalla finestra. Il becchino lo conosco è sempre sbronzo e la notte soffia come un mantice, gli altri inquilini del cimitero non si sveglieranno di certo!

Era anche pazzo, come avevo fatto a non accorgermene prima.

Aggiunse soltanto:

-Ti aspetto qui a mezzanotte.

A quell’ora lo raggiungo e lo seguo fino al cimitero.

Il cigolìo del cancello mi fa balzare il cuore in gola, inciampo nelle lapidi e sbatto nelle croci di marmo, occhi spalancati nel buio orecchi tesi a qualsiasi rumore.

Il becchino ronfa in una stanza accanto, entriamo nella cappelletta.

Ecco la Peniarda che giace nella bara fra corone di fiori. I ceri sono spenti, il chiarore che viene dall’unica finestra basta a far brillare gli ori della morta. Mi par di vederle un’espressione diversa da quella del giorno prima, le palpebre un po’ meno serrate le labbra atteggiate a una smorfia e nelle mani un tremito…Su quelle mani Vandro si tuffa avidamente sfilando dalle dita ogni anello e dai polsi ogni bracciale, un po’ li getta nella borsa che io tengo aperta un po’ se li infila nelle tasche dei calzoni rantolando di piacere. Solleva la testa della morta per sfilar le collane ma ecco la finestra squarciarsi all’improvviso e fra una cascata di vetri infranti un felino dalla coda mozza si lancia su Vandro e gli si artiglia al collo affondandoci i denti con ferocia!

Schizzi di sangue m’imbrattano m’accecano, butto la borsa scappo via saltando di tomba in tomba mentre dietro di me sento gli urli terribili di Vandro maciullato dalla gatta Marforia.

Becchino che dà l’allarme il giorno dopo, notizia che si sparge in un lampo: cimitero violato, morta depredata.

Vandro sparito.

Poco tempo dopo la mia famiglia si trasferì in altro paese. Di quella storia non se ne parlò mai più, ma una voce che ho dentro me la racconta ogni giorno. Solo io posso sentirla, riprovando le stesse angosce emozioni e paure di quei giorni lontani. E guai se tacesse…

So che lui mi sta cercando, prima o poi verrà.

Io sono qui, e t’aspetto.

 

Si ringrazia Micaela Lazzari per l’editing.

 

Latest posts by (Collaborazione esterna) (see all)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *