Lassù qualcuno ci guarda

Gatti tra le stelleQuando la Madre emise il suono acuto e prolungato che richiamava le Allieve nel cortile della scuola, a Beatrix venne un male: era arrivato il momento che temeva da mesi, l’assegnazione della sede per il semestre di scambio interculturale. Ognuna di loro doveva passare quel periodo in una scuola scelta dalla Preside per sviluppare le attitudini in cui si era mostrata più carente. Il motto della scuola era “Pazienza, costanza e perseveranza” e lei sapeva di eccellere in queste doti; poteva rimanere immobile per ore ad aspettare la preda, quasi senza respirare, se le sfuggiva non si perdeva d’animo e si preparava per una nuova caccia, ogni giorno si allenava con impegno nel salto e nell’agguato e il suo morso era letale, per non parlare delle unghie, le più affilate e veloci di tutta la classe. Però… c’era un però. Sapeva di non eccellere in una virtù che, pur non comparendo nel motto della veneranda istituzione, era molto apprezzata dalle Madri, specialmente da quelle più anziane. Beatrix non era un modello di temperanza, e non c’era rissa nelle bettole dei quartieri bassi che non la vedesse lanciata come una furia a tagliare gole e bere il sangue degli avversari con enorme piacere. Le Madri l’avevano richiamata più volte, lodavano le sue capacità di cacciatrice e le sue doti di difesa, anzi, nel suo caso meglio dire di attacco, ma era ancora minorenne e soprattutto non poteva sgozzare impunemente chiunque incrociava la sua strada e la guardava male. Per questo motivo, Beatrix si aspettava una destinazione terribile per quel semestre di scambio.

La Preside chiamò tutte le allieve in ordine di voto di condotta. Il suo era il più basso, fu chiamata per ultima e la destinazione non le venne comunicata in pubblico, ma in sala professori. Era un gran brutto segno e le amiche le strofinarono il muso e i baffi in segno di solidarietà e di incoraggiamento. Rientrò a scuola con la coda fra le gambe e si acciambellò sul cuscino che la Preside le aveva indicato. L’anziana e venerabile Madre la guardò a lungo e sospirò. “Beatrix, cara, ne abbiamo parlato mille volte. Hai tante capacità ma devi imparare a controllare la tua ferocia. Questi sei mesi sono la tua ultima occasione, se fallisci verrai espulsa.” La giovane allieva istintivamente soffiò, provocando uno sguardo di rimprovero da parte della Madre. “Ecco, vedi, è proprio questo che voglio dire. Dovrai imparare a mantenere la calma e i nervi saldi. So che per te è difficile ma ce la puoi fare, anzi, ce la devi fare, se vuoi tornare fra noi. Trascorrerai il semestre sul pianeta Terra”.

gatto esiliatoAlla ferale notizia Beatrix provò il desiderio di mugolare come un cucciolo, ma il suo orgoglio la trattenne. Lo scambio col pianeta Terra era il più temuto, perché in quel buco di culo dell’universo la razza dominante era costituita da bipedi puzzolenti che non tenevano in alcuna considerazione non solo i Felini, la Razza più perfetta che mai fosse stata creata, ma nemmeno le femmine della loro stessa specie. Un semestre scolastico corrispondeva a quattro anni terrestri e Beatrix si sentì morire al pensiero di trascorrere tutto quel tempo nella fogna della Galassia, senza un amico, senza un mezzo di trasporto per raggiungere gli altri al Ristorante al Termine dell’Universo, senza… insomma, senza niente. La Madre percepì tutto il suo sconforto e cercò di farle coraggio dicendole che per mitigare la pena l’avrebbero mandata in un luogo e in un tempo il più possibile propizi. Cazzo, pensava Beatrix, cosa ci poteva essere di propizio in un pianeta dove per secoli avevano bruciato le donne e i gatti… La Preside la rassicurò, sarebbe stata inviata in un’epoca in cui le donne e i gatti venivano trattati bene, oddio, bene dal punto di vista terrestre, ma la sua prova era proprio quella, mostrare di essere in grado di mantenere il controllo in un ambiente ostile. La congedò con una serie di fusa amorevoli e la vide talmente affranta che le leccò la testa. “Piccola, dovevi pensarci prima. Da quando sei un cucciolo cerchiamo di farti capire che devi controllare l’aggressività; questa volta o ce la fai o passi il resto della tua vita da sola nella Taiga. Sei una mina vagante. Tieni, in questa busta ci sono i documenti per la tua destinazione, e ricordati bene che sulla Terra l’omicidio è punito con l’ergastolo. Non arrivo a sperare che tu trascorra quattro anni terrestri senza sgozzare nessuno, ma datti una regolata, non farti beccare, perché non ti ci vedo a scontare un ergastolo nelle prigioni terrestri”.

cat fightCon la busta in mano e le orecchie basse, Beatrix si congedò e tornò alla Tana dalle amiche. Loro erano state più fortunate, anzi, qualcuna era euforica, si erano beccate i pianeti più divertenti, quella stronza di Cleox andava addirittura su un magnifico asteroide dove non c’era altro da fare che cacciare tutto il giorno, dormire al sole e amoreggiare. Va bene, se lo era meritato, quella smorfiosa era abilissima a provocare le risse e farle scatenare da qualcun altro, e quel qualcun altro, purtroppo, era quasi sempre lei, Beatrix, la campionessa di note sul registro. Stava pensando di ritirarsi nella sua cuccia con la coda fra le gambe quando le venne una luminosa idea. Peggio di così… Ormai era stata punita nel modo più duro e tanto valeva prendersi l’ultima soddisfazione. Inarcò la schiena, sfoderò denti e unghie e saltò alla gola di quella fighettina, e se una Madre non fosse stata svelta a portargliela via da sotto l’avrebbe sgozzata. Poi si rassettò la pelliccia e andò a ubriacarsi nelle peggiori bettole, quella notte avrebbe fatto scorrere sangue a fiumi.

Il mattino dopo si trovò con le altre sul pullman che le avrebbe condotte alle rispettive destinazioni. Aveva fatto appena in tempo a preparare la borsa con le poche cose che era loro concesso portarsi nei pianeti di scambio, esibiva ancora un occhio semichiuso e un pezzo di orecchio scorticato, ma si era tanto divertita. La sua fermata, naturalmente, era l’ultima, e dovette ingoiare bile amara a vedere le altre Allieve scendere trionfalmente nei pianeti-vacanza ai quali erano state destinate. E a lei era capitata la Caienna, diavolo! Il pullman la lasciò in una città terrestre fatta di mattoni rossi, con due torri vecchie e storte e una grande piazza nel centro. L’autista la salutò con una serie di fusa speciali, vedere una piccolina abbandonata per sei mesi in quel pianeta primitivo, selvaggio e ostile spezzava il cuore anche a lui, ma le Madri avevano il potere assoluto sull’educazione dei cuccioli e se quella ragazza era stata destinata al pianeta peggiore dell’universo, doveva averne combinate delle grosse.

BolognaBeatrix scese alla fermata e cercò un angolo buio in cui prendere forma, doveva trasformarsi da creatura perfetta a schifoso bipede. Trovò un portone aperto e una scala che scendeva in una cantina puzzolente, mamma mia cosa ci tengono qua dentro, i morti? Si concentrò, respirò a lungo e diventò la creatura che avrebbe dovuto fingere di essere per quattro lunghi anni terrestri. Dopo la trasformazione era così stanca e depressa che si rannicchiò dentro a un vecchio armadio a muro per riflettere e pianificare il da farsi, e si addormentò. Si svegliò col buio, affamatissima, e il suo primo istinto fu quello di andare a caccia di topi, quelle cantine dovevano esserne piene, poi si accorse di non essere più attrezzata per procurarsi il cibo. Cazzo, è vero, lo aveva studiato in Storia delle Specie, gli umani non avevano artigli e nemmeno denti degni di questo nome. Si guardò le mani, sembravano quelle di una rana. Di unghie manco l’ombra, e che schifo, nemmeno un pelo… “Pazienza, costanza e perseveranza” si disse, e aprì i documenti che le avevano consegnato a scuola. Quella città si chiamava Bologna e l’anno del loro calendario era il 1977. Lei si chiamava Beatrice e doveva prendere alloggio in una casa del centro storico, insieme con altre studentesse umane. Per un po’ sperò di morire, poi si drizzò sulle zampe posteriori, che i bipedi chiamavano gambe, e si lisciò la pelliccia anche se non l’aveva più. Coraggio, facciamogliela vedere, si disse, ne usciremo vincitrici.

La prima tappa fu un negozio dove vendevano la carne. Con i soldini che le erano stati consegnati per le prime spese comprò tre etti di macinato e se lo mangiò di gusto seduta sui gradini della chiesa affacciata su quella piazza enorme. Neanche a dirlo, aveva commesso subito un passo falso: intorno a lei c’erano diversi giovani umani, maschi e femmine, che la guardavano stupefatti. Loro non mangiavano la carne cruda, prima la mettevano sul fuoco… Prese atto che invece di dedicare l’ultima notte ad azzuffarsi, avrebbe fatto meglio a ripassare un po’ di usi e costumi terrestri, ma ormai era andata, doveva imparare sul campo. Sulla cartina che le era stata consegnata individuò la tana in cui le avevano procurato l’alloggio e si avviò con passo mesto, cercando di stare il più possibile nel buio. Via Saragozza n. 76, ecco il portone. Lo aprì e salì un’interminabile serie di rampe di scale, la cuccia era all’ultimo piano. Bello, avrebbe avuto accesso ai tetti, ma fare tutti quegli scalini con la muscolatura difettosa degli umani era un tormento. Oh basta lamentarsi, si disse, da domani alleneremo questo corpo assurdo, cominceremo con mezz’ora di corsa e poi troveremo una palestra, e poi… Mentre si faceva i suoi programmi nella testa era arrivata all’ultimo piano; aveva le chiavi ma per educazione suonò il campanello, senza accorgersi che era notte fonda, e infatti la ragazza umana che le aprì la fulminò con due occhi porcini dietro le lenti spesse. “E tu chi sei? Cosa vuoi a quest’ora?“. Beatrice si presentò e si beccò la prima di una lunga serie di sgridate, si era dimenticata che gli umani dormono di notte e stanno svegli di giorno. E due! Non era giornata, proprio no. La coinquilina le fece vedere la sua cuccia, nella stessa camera con un’altra grassona che dormiva russando e scorreggiando, ritmicamente, e se ne andò brontolando. Siamo a posto, si disse Beatrice, benvenuta agli Inferi.

famiglia AddamsPassò la notte a studiare il voluminoso manuale di istruzioni che le era stato fornito. Per fortuna al buio ci vedeva ancora bene, l’unico problema era il suo olfatto sensibilissimo che amplificava a dismisura le flatulenze emesse dalla cicciona, per non parlare del suo super udito e del mal di testa provocato da cotanto russare. Cercò di concentrarsi sul libro di testo e per cominciare si preoccupò dei mezzi di sostentamento. I pochi spiccioli che le avevano dato sarebbero bastati per una settimana, non di più, e dopo? Al capitolo “Vitto e alloggio” Beatrice trovò un’indicazione che le fece venir voglia di andarci da sola, in esilio nella Taiga. I mezzi di sostentamento le sarebbero stati forniti settimana per settimana da una famiglia umana che lei doveva trattare come se fossero stati i suoi genitori. Questo concetto le era estraneo, nel suo mondo i cuccioli non sanno chi è il loro padre e vengono cresciuti tutti insieme dalle Madri fino al raggiungimento dell’età adulta, invece in questo pianeta primitivo vigeva una società patriarcale. Ogni famiglia aveva un padre che prendeva tutte le decisioni sugli altri componenti della famiglia e lei avrebbe dovuto elemosinare di che vivere da un terrestre di sesso maschile. No, era troppo. Fino all’alba meditò di usare il Gomitolo Magico per una delle tre chiamate d’emergenza che poteva fare alla scuola e chiedere l’esilio, poi crollò addormentata.

Fu svegliata da un ronzio che proveniva dalla sala comune. Si alzò incuriosita e notò che in quella casa abitavano un sacco di ragazze, almeno una quindicina,  e che tutte stavano in piedi a testa bassa, con una collanina in mano, a mormorare parole che lei non capiva. Ne approfittò per fare la sua prima pulizia mattutina da umana, chiedendosi come facevano tutte quelle ragazze con un unico bagno. La toelettatura fu lunga e laboriosa, non era ancora abituata a lavare la pelle nuda con l’acqua, le faceva anche un po’ schifo, e quando uscì trovò tutte le altre in fila, con lo spazzolino da denti in mano, che la rimproveravano perché facevano tardi a lezione per colpa sua. Decisamente non era aria, meglio sgattaiolare fuori e cercare qualcosa da mangiare. Sotto casa trovò un negozio dove vendevano il latte, si chiamava “Latteria”, e volle provare la maniera indigena di prepararlo, quello che loro chiamavano “Cappuccino col cornetto”. Lo trovò delizioso, la prima cosa buona da quando il pullman l’aveva lasciata in quella valle di lacrime. Incoraggiata, andò a cercare la facoltà a cui le Madri l’avevano iscritta, trovò la sua aula e si preparò per ascoltare le lezioni. Intorno a lei erano seduti tanti giovani umani che la salutarono cordialmente anche se non l’avevano mai vista, e il suo umore risalì di un altro piccolo gradino. Al termine delle lezioni, i ragazzi la invitarono a pranzo in mensa, e Beatrice si preparò allo scontro con la gastronomia terrestre.

felino con spaghettiAnche in quel caso l’esperimento andò bene. Per mangiare bisognava avere tanta pazienza, occorreva almeno un’ora di appostamento, ma i cacciatori erano educati e stavano in fila e quando arrivò il suo turno si meravigliò perché la preda non era da catturare, gliela porgevano già cotta in un vassoio. Diavolo, che organizzazione! L’unica pecca, se vogliamo, era che la carne a lei piaceva cruda, ma non si può avere tutto dalla vita. Oltre alla carne le avevano dato anche un piatto contenente una matassa di fili gialli cosparsi di un sugo rosso e Beatrice, che non aveva paura di niente, li divorò trovandoli buonissimi. Il suo manuale parlava di questo cibo chiamato “pastasciutta”, condito con una salsa di nome “ragù”, ma non si aspettava un gusto tanto squisito. Dopo pranzo fece due passi con gli altri ragazzi e uno di loro, un biondino con gli occhi azzurri e gli occhiali da miope, che si chiamava Dante, si offrì di accompagnarla a comprare i libri che le servivano. Passarono il pomeriggio in giro per i vicoli di quella città così vecchia e Dante, che era una fonte inesauribile di notizie, le raccontò la storia della città e la portò perfino in una chiesa ad ammirare una scultura che a suo dire era famosissima, il cosiddetto “Compianto sul Cristo morto”. Lei non aveva idea di cosa rappresentasse e del perché fosse tanto bello raffigurare una comitiva di umani che portava in giro un cadavere, ma per non far dispiacere al suo nuovo amico finse di divertirsi moltissimo. Beatrice avrebbe avuto voglia di salire in cima a quelle strane torri, ma Dante sosteneva che non si poteva fare prima della fine del corso di studi, altrimenti non ci si laureava più. Questo il manuale non lo diceva, ma era meglio assecondare le superstizioni degli  indigeni.

Arrivò la sera e Dante insistette per invitarla a mangiare a casa sua, in un appartamento che divideva con altri ragazzi molto più simpatici e allegri di quegli stoccafissi che abitavano con lei; divorò un altro piatto di quei cosi chiamati spaghetti, bevve il vino per la prima volta nella sua vita e si ubriacò vergognosamente. Nel suo pianeta avevano alcoolici, ma non erano così saporiti… Il povero Dante fu costretto a riaccompagnarla a casa e a metterla a letto, con grande scandalo e riprovazione delle compagne di appartamento per le quali vigeva la regola di non uscire la sera e di non far entrare in casa individui di sesso maschile. Il mattino dopo la cicciona che scorreggiava glielo fece notare con insistenza e le ricordò anche l’obbligo della “preghiera mattutina”. Beatrice non aveva la minima idea di cosa fosse una preghiera mattutina ma aveva fame e si fiondò in latteria a divorare cornetti col cappuccino.

colazioneFinita la prima settimana, fece un bilancio della sua esperienza e concluse che non era poi così male. A parte la sgradevole compagnia delle apprendiste megere con cui divideva l’appartamento, in quella città terrestre si trovava proprio bene. Aveva conosciuto tanti cuccioli umani della sua età e la loro compagnia era piacevole, il cibo era buono e il beveraggio ancora migliore. Purtroppo stava per affrontare un nuovo ostacolo, la spedizione presso la famiglia terrestre che la teneva sotto tutela e la doveva rifornire dei mezzi di sostentamento. Costoro abitavano in una cittadina di provincia che per una coincidenza quasi miracolosa era la stessa in cui viveva la famiglia del suo amico Dante, così la sera del venerdì presero insieme il treno, affollatissimo per i tanti ragazzi che come loro tornavano a casa per il fine settimana. Appena scesa in stazione, Beatrice capì che sarebbe stata dura. Era attesa dall’umano che aveva il compito di farle da “padre” su quel pianeta e lei era completamente impreparata all’incontro, perché nel suo pianeta erano solo le Madri che crescevano i cuccioli. Questo cosiddetto “padre” era un ometto acido e rancoroso che la accolse con una faccia truce e nel tragitto in macchina fino a casa non fece altro che rimproverarla perché lui l’aspettava al treno prima e perché lei non aveva mai telefonato durante la settimana precedente. Beatrice voleva replicare che era appena scesa dal pullman, però ebbe il presentimento che a scuola non gliela avessero raccontata tutta giusta. L’umano non sembrava consapevole di avere a che fare con una studentessa straniera in periodo di scambio, ma la trattava come se fosse la sua vera figlia, e la viva preoccupazione che le fece drizzare i peli del collo le consigliò di stare zitta.

Sperava di ricevere un’accoglienza più cordiale da parte della Madre umana, ma appena la vide capì che dalla padella era passata alla brace. Era la donna più tragica e depressa che avesse incontrato su quel pianeta fino a quel momento; non sembrava vecchissima, ma l’aspetto sciatto, i capelli e il viso sciupati, la piega amara della bocca e le parole sprezzanti con cui le diede il “benvenuto” la misero in allarme. Ecco perché le sue compagne di appartamento erano tanto cattive e acide: sapevano di doversi ridurre così, da grandi. Beatrice aveva letto nel manuale che in quel pianeta le donne venivano tenute in una condizione di sudditanza, ma a Bologna non le aveva viste così desolate, a parte, appunto, i mostriciattoli con cui abitava. Questa femmina della specie aveva ricevuto solo tegole in faccia dalla vita e in qualche modo, anche se l’aveva fatta studiare, non sopportava che la figlia sperasse in un futuro che lei non aveva potuto avere. Oltre tutto cucinava malissimo e il cibo che le presentò in tavola per lei era immangiabile, puzzava di acidità e di freddezza, così Beatrice si prese, nell’ordine, una serie di lavate di capo perché non voleva mangiare quello che lei le aveva preparato con dispendio di soldi e di tempo, non aveva telefonato, era arrivata in ritardo, era vestita in modo indecente, non era riconoscente per tutti i sacrifici che facevano per lei, e via discorrendo.

mammaL’apoteosi si verificò quando il suo amico Dante la venne a prendere per andare al cinema: il padre umano lo cacciò via in malo modo, minacciando di prenderlo a pugni, e poi inveì contro di lei con urla furibonde perché, a suo dire, quella era una casa per bene, non le era permesso frequentare i maschi della specie, nemmeno i cuccioli della sua età, e la sera una ragazza seria non poteva uscire se non era “fidanzata ufficialmente” con un bravo ragazzo approvato dai genitori, e naturalmente solo dopo aver conseguito la laurea. Non perse l’occasione poi di ricordarle che al primo voto sotto al 24 non le avrebbe più dato i soldi per vivere a Bologna e sarebbe dovuta tornare in casa da loro. La madre umana rincarò la dose inseguendola in camera sua per farle domande molto riservate e personali su quello che faceva a Bologna, sui “ragazzi” e sulla “verginità”.

Beatrice si ripromise di passare la notte a studiare gli appositi capitoli del manuale e quello che apprese non le piacque affatto. Le Madri l’avevano punita troppo duramente, esiliandola in un pianeta oscurantista e medioevale, in cui gli uomini comandavano sulle donne e sui cuccioli e a loro insindacabile giudizio potevano permettere o vietare quello che volevano. Leggendo tutti i capitoli apprese che c’erano parti del pianeta in cui le femmine della specie vivevano in condizioni ancora peggiori, non potevano studiare e neppure lavorare, erano imprigionate in casa e se in circostanze eccezionali avevano il permesso di uscire, dovevano avvolgersi in un lenzuolo che nascondeva il corpo e anche il volto. A quel punto lo “scambio scolastico” le apparve più chiaro, la disgraziata figlia di quella famiglia umana lo aveva organizzato  all’insaputa dei genitori e adesso si godeva i suoi quattro anni di libertà nel suo pianeta, a crogiolarsi al sole e a cacciare le lucertole. La conferma la ricevette dalla gatta di casa, che si rivelò l’organizzatrice del piano. Lei le confidò che quella povera ragazza non ne poteva più, gli uomini del pianeta erano degli stronzi e delle teste di cazzo ma lei era capitata ancora peggio con quella famiglia di spostati mentali, il padre era un violento geloso e la madre una larva annichilita da una vita di sopraffazione, così la saggia micetta l’aveva aiutata a scappare. La giovane umana non aveva nessuna intenzione di ritornare sul pianeta Terra, aveva già chiesto asilo alle Madri come profuga e perseguitata. Il pullman l’aveva caricata subito dopo aver abbandonato Beatrice al suo destino. La ragazza terrestre aveva chiesto alla sua amata gatta di seguirla, ma lei era un felino coscienzioso e non se la sentiva di abbandonare completamente allo sbaraglio la poveretta destinata allo scambio; sarebbe partita col pullman successivo. La Terra non era un paese per gatti.

pugnaliIl sabato e la domenica non finivano mai. Beatrice studiò tutto il manuale e poi si decise a prendere in mano anche i libri di testo, visto che il suo mantenimento era condizionato dai voti che avrebbe preso agli esami. Frugò nei cassetti della terrestre che le aveva giocato quel divertente scherzetto e trovò una splendida collezione di coltelli che comprendeva di tutto, dal kriss malese al gurka nepalese. C’era anche un magnifico pugnale dei Marines americani. Visto che la ragazza aveva chiesto asilo politico, quei coltelli non le sarebbero più serviti, nel suo pianeta si sarebbe dotata di artigli, quindi Beatrice infilò l’intera collezione nello zaino per supplire alle debolezze del suo corpo umano imperfetto. Finalmente arrivò la domenica sera e l’atteso momento di riprendere il treno per Bologna, ma i tutori gliela fecero penare fino alla fine, obbligandola a prendere su una serie di pentolini con quel cibo schifoso cucinato dalla madre umana e a promettere di telefonare in giorni e orari fissi. Beatrice provò a dire che in mensa si mangiava benissimo, ma la donna recitò una vera e propria tragedia e l’uomo uscì fuori dai gangheri. Lui bene che avrebbe avuto bisogno di imparare a “gestire la rabbia”, come dicevano le Madri nel suo pianeta… ma pareva che sulla Terra le donne dovessero rimanere sempre calme e sottomesse mentre gli uomini erano autorizzati a dar sfogo alla propria collera come meglio credevano, picchiando le femmine e i cuccioli e massacrandosi a vicenda in vari modi, che andavano dall’assassinio individuale allo sterminio di massa. L’arte della “temperanza” che le Madri l’avevano mandata ad apprendere in quel buco di culo della Galassia, ai maschi umani non era richiesta. Cazzo che culo, si disse. Infine completò l’opera con una meravigliosa mossa falsa: osò chiedere all’umano i soldi per due settimane, sostenendo che avrebbe risparmiato il tempo e la spesa di un viaggio in treno. Fu più o meno come quando lei e gli altri cuccioli, ancora piccoli e inesperti, si divertivano ad andare a fare arrabbiare i cani, li provocavano soffiando e quando loro li inseguivano a fauci spalancate si arrampicavano sugli alberi. Una volta furono troppo temerari, un suo pezzetto di coda rimase tra i denti dell’inseguitore e lei trascorse un giorno e una notte sull’albero perché non aveva più il coraggio di scendere. Il padre umano le volò addosso con la chiara intenzione di prenderla a botte, era due giorni che ne sentiva una voglia irresistibile, perché quella figlia diventava sempre più indisponente e irrispettosa. Istintivamente Beatrice reagì come il suo imprinting le suggeriva: si inarcò, soffiò e rivolse all’umano il suo sguardo più temibile e una smorfia che lo raggelò. L’umano rinfoderò i pugni in tasca e la accompagnò in stazione senza dire una parola, mentre Beatrice si chiedeva quale miracolo l’avesse salvata. Ancora non sapeva che i terrestri mantenevano un’istintiva paura ancestrale dei grandi felini, in particolare quell’umano lì, che odiava tutti gli animali e specialmente i gatti.

our generationSul treno Beatrice incontrò il suo amico Dante e apprese con sommo stupore che non si era meravigliato di essere stato cacciato quasi a calci e pugni da casa sua, anzi, pareva che in quella piccola città di provincia fosse normale, anche suo padre si comportava allo stesso modo con le sue sorelle. Arrivati a Bologna l’accompagnò a casa e promise di portarla al cinema durante la settimana. Beatrice non vedeva l’ora perché non aveva mai visto un film, nel suo pianeta non ne facevano, ma si guardò bene dal confidarlo a Dante, lui non doveva sapere la verità sulla sua provenienza, c’era il dovere del segreto. Per la prima volta arrivò a casa sufficientemente presto per incontrare le sue compagne di appartamento al gran completo, sedute intorno al tavolo della sala comune a leggere un libro chiamato “Vangelo”. Le chiesero di unirsi a loro ma lei proprio non aveva voglia di partecipare a una lettura collettiva, preferiva sistemare la collezione di coltelli e poi uscire dall’abbaino e stare seduta sui tetti a guardare la luna e a pensare. La settimana successiva passò in un baleno, andava a lezione, studiava, chiacchierava, divorava cappuccini e cornetti, andava al cinema con Dante e i suoi compagni di appartamento. Con il suo caro amico iniziò un interessante scambio culturale: lei gli insegnava a lanciare i coltelli e lui invece a suonare la chitarra, era molto bravo, aveva anche una bella voce e componeva canzoni che erano vere e proprie poesie. Purtroppo il tempo passa veloce quando ci si diverte e arrivò il tragico venerdì sera, il momento di tornare in quella squallida città di provincia per fare rifornimento di soldi e sorbirsi un fine settimana di lamentele e rimproveri. Ormai Beatrice aveva capito che le uniche armi di difesa erano il silenzio e la pazienza. Se la Madre Preside l’avesse potuta vedere in quei momenti, a ingoiare senza batter ciglio le offese e le parole sprezzanti che la sua famiglia umana teneva da parte per cinque giorni e poi le sputava in faccia con astio in quelle due giornate dedicate a guadagnarsi la sopravvivenza… avrebbe vinto subito il Premio Temperanza Intergalattico. Ma Beatrice non sapeva che la strada era ancora molto, molto in salita.

Una domenica sera ritornò nell’appartamento e trovò come al solito le compagne riunite intorno al tavolo. Quella volta non le chiesero di unirsi a loro, glielo ordinarono. C’era un clima da inquisizione, proprio come nei periodi in cui i terrestri bruciavano le donne e i gatti. Prese la parola la più brutta dell’appartamento, e in quanto a bruttezza lì c’era da fare una gara all’ultimo sangue. Nonostante la giovane età, quelle umane non avevano alcun tratto di bellezza e di grazia. Erano schifosamente grasse oppure piatte, secche e allampanate, tutte avevano la faccia devastata dai brufoli, i capelli poco puliti e cresciuti allo sbando come cespugli di ortica, e in casa portavano pigiami comprati, a suo parere, in un negozio di travestimenti per i film horror. Anche quando uscivano il loro abbigliamento non migliorava di molto, mentre a Beatrice piaceva curarsi ed essere carina, è noto che il felino ha una grande venerazione per il proprio aspetto. La portavoce del gruppo le disse senza mezzi termini che doveva andarsene, perché era un elemento di disturbo. Alla sua reazione di meraviglia, le altre le saltarono alla gola con un astio e una cattiveria che le ricordarono fin troppo bene la madre terrestre che la tormentava nei fine settimana. Capì che quello non era un appartamento normale, ma un covo affiliato a una specie di setta chiamata “Comunione e Liberazione”, una frangia di oltranzisti cattolici che stavano solo tra di loro e consideravano immorale e peccaminoso tutto ciò che non era in linea con le loro superstizioni. In effetti la quota di affitto mensile era molto bassa, e Beatrice capì il perché. La loro chiesa metteva a disposizione quegli appartamenti a un canone ridotto, ma erano riservati ai membri della confraternita, e lei, con tutta evidenza, non lo era. Quindi era pregata di raccogliere le sue cose e di andarsene subito, nel cuore della notte.

cielliniLa reazione di Beatrice montò come una marea e le venne l’impulso di sgozzarle una a una, poi si ricordò cosa le diceva la saggia gatta della casa dei genitori terrestri, se non imparava a tenere la furia sotto controllo correva il rischio di non andarsene mai più da quel pianeta di pazzi. Così tirò un gran sospiro per ritrovare il controllo di se stessa, ma dai suoi polmoni uscì il soffio di una leonessa e sul suo volto si dipinse quello sguardo e quella smorfia che raggelavano il sangue degli umani. Visto il momento di disorientamento, fece presente alle Squallide Cose Informi, come affettuosamente le chiamava con gli amici, che aveva pagato l’affitto per tutto il mese e aveva diritto di occupare il suo letto fino alla scadenza. Nel frattempo si sarebbe trovata un altro alloggio. Era solo una minaccia, perché fortunatamente il giorno dopo Dante e i suoi amici le offrirono un posto nel loro appartamento e lei traslocò armi e bagagli, armi soprattutto. La sua meravigliosa collezione di coltelli fu la prima cosa a essere messa in salvo dal nefasto influsso delle megere. Nell’appartamento di Dante i ragazzi le misero a disposizione uno stanzino che fino a quel momento era utilizzato come ripostiglio, ma dopo averlo ripulito ed essersi procurati una rete e un materasso la piccolissima camera diventò il rifugio che non aveva ancora trovato su quel pianeta delirante. Il letto teneva quasi tutto lo spazio, c’era solo una finestrina piccolissima a bocca di lupo, però Beatrice ricoprì di stuoie una parete e vi appese con cura i suoi adorati coltelli, che stava insegnando a usare a tutti i compagni di appartamento. La settimana trascorse meravigliosamente, tra lezioni di tiro e canzoni alla chitarra, e quando arrivò il venerdì Beatrice era di umore così lieto che comunicò il suo cambio di indirizzo ai genitori umani senza prima rifletterci bene.

La reazione del padre terrestre fu indescrivibile, esplose per la collera e la aggredì brutalmente perché aveva osato lasciare l’appartamento offerto così generosamente dal parroco per andare a vivere con dei maschi. Per fortuna anche nel suo corpo terrestre Beatrice aveva conservato un notevole scatto e riuscì a scappare in strada prima che quell’uomo la uccidesse. Si nascose in un giardinetto nei paraggi e tirò fuori il Gomitolo Magico per utilizzare una delle tre chiamate di emergenza che le erano concesse, poi ci pensò e convenne che era perfettamente in grado di cavarsela da sola. Aspettò la mezzanotte e rientrò nella casa degli umani passando dalla cantina, prelevò il suo zaino e qualche soldo trovato in un cassetto e chiamò la gatta per salutarla, non avrebbe mai più messo piede in quella casa. Sulla Terra era già maggiorenne e i suoi “tutori” non avrebbero potuto rivolgersi alle autorità per rinchiuderla. Avrebbe trovato un lavoro e si sarebbe mantenuta fino alla fine del periodo di “scambio scolastico”, di studiare non gliene importava un tubo, quello che lei era stata mandata a imparare nel buco del culo della galassia era il controllo della furia, non le masturbazioni mentali degli umani. La gatta decise di accompagnarla fino a un paese vicino, aveva saputo del passaggio di un pullman della scuola e neppure lei intendeva rimanere in quel pianeta dove la prendevano sempre a calci. Camminarono insieme per tutta la notte attraverso i campi, fino a un’altra cittadina di provincia in cui passava il treno per Bologna e dove stava per fermarsi anche il pullman del nuovo scaglione di studenti in scambio culturale, così colse l’occasione per consegnare all’autista una lettera indirizzata alla scuola, con il racconto delle peripezie che le era toccato affrontare e le sue vibrate proteste.

gattobusLa saggia gattina aveva ben consigliato Beatrice. Mentre prendeva il treno nel paese vicino, la famiglia umana aveva lanciato l’allarme atomico. Avevano fatto irruzione a casa del povero Dante, che naturalmente non sapeva nulla, poi erano andati alla polizia, che con sommo dispiacere si era dichiarata impossibilitata a intervenire in quanto la ragazza era maggiorenne; dal loro punto di vista i comunisti avevano introdotto leggi che autorizzavano le donne ad alzare la cresta e loro, con tanto rammarico, non erano più liberi di intervenire in soccorso di un padre di famiglia. Infine si erano messi a piantonare la stazione, certi che la sua prima mossa sarebbe stata tornare a Bologna. Infatti ci avevano azzeccato, ma lei era partita da un’altra stazione. La seconda mossa fu quella di lasciare l’appartamento di Dante, i due pazzi sarebbero arrivati a cercarla fin là, così andò in giro per la zona universitaria alla ricerca di annunci per camere in affitto. Almeno per un po’, si disse, finché non si fossero calmate le acque. Ne lesse a tonnellate, ma istintivamente non gliene piacque nessuno finché i suoi occhi non caddero su un foglietto scritto su cartoncino color avorio, con una bella calligrafia un po’ antiquata . “Signora giapponese affitta stanza singola a studentessa amante dei gatti”. Quello era il suo annuncio. Lo strappò e si precipitò in una cabina per telefonare. Era ancora presto ma la voce che le rispose era arzilla e cordiale, la signora le disse che la stanza era ancora libera, le diede l’indirizzo e la invitò a visitarla. Era in una posizione ottima nella zona universitaria e Beatrice temeva di sentirsi chiedere un affitto astronomico, ma per un mese aveva denaro a sufficienza, nel frattempo si sarebbe trovata un lavoro. Il palazzo era molto bello, con un cortile interno pieno di alberi e ornato da una fontana. Salì le scale e suonò il campanello. Le aprì una signora di una settantina d’anni, dai tratti orientali e dai capelli bianchi tagliati corti, che le rivolse un bel sorriso e la invitò a depositare il suo bagaglio, a togliersi le scarpe e ad accomodarsi in salotto per bere un tè.

gatti sul divanoEntrata nella sala, Beatrice si sentì rinascere. Il divano e le poltrone erano completamente ricoperte di gatti, di ogni colore e razza. “Spero che ti piacciano i gatti, mia cara, perché qui i padroni sono loro”. A quel punto Beatrice non ce la fece più a mantenere la sua dura scorza da guerriera, abbracciò l’anziana signora e scoppiò in lacrime. La donna la fece sedere sul divano accarezzandola affettuosamente e le offrì una tazza di tè. Col calore della bevanda nel suo cuore si sciolse anche il grumo di rabbia e di paura che lo incrostava da mesi e si trovò a raccontarle tutto, la fuga da casa, l’appartamento delle cielline maledette, la necessità di mantenersi da sola. La signora fu molto rassicurante, le offrì una stanza bella e luminosa a un prezzo ragionevole e telefonò a un amico che cercava una barista per la sua birreria. Poche ore dopo Beatrice aveva già un lavoro da iniziare la sera stessa e sedeva a tavola con la signora Kamuri per pranzare insieme a base di pesce crudo. Da tempo la giovane profuga non assaggiava un cibo così celestiale, e dopo aver diviso il piatto coi gatti e bevuto una birra dopo l’altra si assopì sul divano, circondata dalle fusa di quelle meravigliose creature. Dormì di un sonno profondo per tutto il pomeriggio, esausta dopo la lunga marcia notturna, e la signora Kamuri la svegliò solo quando si avvicinò l’ora di andare al lavoro. La birreria non era lontana, il proprietario era un signore gentile che le mostrò come si spillavano le bevande, non c’era il servizio ai tavoli perché i clienti pagavano e ritiravano i boccali al banco e lei doveva solo fare un giro nei momenti di calma, per ritirare i vuoti. La paga era discreta e l’orario perfetto, finalmente poteva dormire di giorno e stare sveglia di notte come era nella sua natura.

Il lunedì mattina raggiunse Dante all’università per aggiornarlo sulle ultime notizie e lo trovò sconvolto. I suoi “tutori” avevano fatto un putiferio, avevano fatto irruzione anche a casa degli altri ragazzi, i rispettivi genitori si erano infuriati perché “non stava bene” che una ragazza dormisse in un appartamento di maschietti e avevano improvvisato una spedizione collettiva per stanarla. Per fortuna lei se ne era andata e aveva portato via tutto, le dispiaceva solo di non aver potuto vedere le loro facce davanti a una parete tappezzata di coltelli. Invece la signora Kamuri aveva tanto ammirato la sua collezione, l’aveva aiutata a disporla con stile e le aveva regalato una katana, la magnifica spada giapponese che Beatrice desiderava tantissimo. Inoltre le aveva consigliato una palestra di arti marziali dove anche lei si allenava tutti i giorni; poteva frequentarla il pomeriggio, dopo il riposo e prima del lavoro. A Dante dispiacque molto di non avere più la sua cara amica a lezione con lui, ma comprese la sua necessità di doversi mantenere da sola e il suo completo disinteresse per le materie di studio. Si vedevano spesso, il pomeriggio oppure la notte tardi, quando lei finiva di lavorare; Dante si sedeva a un tavolo, ordinava una birra e aspettava che il locale chiudesse e lei avesse finito di pulire, poi uscivano e passeggiavano. Dopo un po’ il giovane cominciò a portare la chitarra e intratteneva i clienti con le sue canzoni, applaudite a tal punto che il proprietario non solo gli offriva la cena e le consumazioni, ma ogni tanto gli allungava qualche biglietto da dieci, perché si era sparsa la voce del biondino con gli occhiali che cantava nel suo locale e la clientela era raddoppiata. Quando si decise a comprare un pianoforte e Dante cominciò a suonarlo per accompagnare le sue canzoni, i clienti diventarono così numerosi che gli toccò aggiungere dei tavoli in più.

manifesto femministaLa vita non poteva scorrere con maggior dolcezza, pensava Beatrice. Il lavoro le piaceva, andava d’accordo con i clienti e col padrone, le mance erano laute perché la birra servita con le fusa sembrava più buona, la coabitazione con la signora Kamuri e i suoi gatti era talmente piacevole che si sentiva quasi a casa, e smise perfino di lanciare maledizioni alle Madri del suo pianeta che l’avevano relegata sulla Terra. Non frequentando più l’università, Beatrice non sapeva per quale motivo c’erano tanti cortei e manifestazioni, però le interessava tutto ciò che riguardava il femminismo e la liberazione della donna, riteneva che su quel cazzo di pianeta di merda ce ne fosse un gran bisogno. Sulla Terra l’otto marzo era la cosiddetta “festa delle donne”, una consuetudine a suo parere piuttosto ipocrita per giustificare gli altri 364 giorni in cui le prendevano a mazzate nei denti, e lei era curiosa di capire in cosa consistevano questi festeggiamenti. Dante le parlò di un raduno presso una villetta abbandonata che le donne volevano occupare per farne un rifugio e un punto di ritrovo. A Beatrice sembrò una splendida idea e manifestò il desiderio di partecipare. Dante fu felice di accompagnarla, ma quando la vide scendere con la katana in mano la supplicò di riportarla in casa. Beatrice non capiva il perché, se si voleva occupare qualcosa bisognava combattere, e non avendo più zanne e artigli aveva pensato bene di munirsi di una spada affilata che aveva imparato a usare benissimo, però Dante insisteva che non si poteva andare alle manifestazioni con la katana. Ci si dovette mettere in mezzo anche la signora Kamuri per spiegarle che non era consentito dalle leggi… Solo per rispetto verso di lei Beatrice smise di discutere, lasciò la katana e si accontentò di infilare in tasca, di nascosto, il solito coltello dei marines.

Davanti alla villetta c’erano una cinquantina di ragazze, della sua età e anche più giovani, che manifestavano completamente disarmate. Mentre Beatrice leggeva i volantini il suo sesto senso felino le diceva che sarebbe stato meglio aver preso su quella katana. Infatti non ci volle molto per l’irruzione delle camionette della polizia, dalle quali scese un commando di agenti che cominciarono a picchiare le donne coi manganelli, godendo in modo erotico di quel pestaggio. Erano carichi a palla, come i maschi della sua specie quando celebravano la Giornata della Zuffa. Però i maschi della sua specie si azzuffavano tra di loro, non si sognavano nemmeno di picchiare le Madri, né tanto meno i cuccioli, che le mamme proteggevano con ferocia, perché sarebbe stata la loro ultima azione prima di essere fatti a pezzi. Istintivamente tirò fuori dal fodero il coltello dei marines ma Dante la prese per mano e la costrinse a correre via con lui. L’ultima cosa che vide, mentre scappavano, fu un poliziotto che colpiva in pieno volto una ragazza di vent’anni col calcio del fucile, e quasi sentì dolore lei stessa per i denti che si frantumavano. Sconvolti, i due ragazzi si rifugiarono in una latteria e ci passarono tutto il pomeriggio. Per entrambi era la prima volta. Nel pianeta da cui proveniva Beatrice la polizia non c’era nemmeno, i felini sapevano benissimo come ci si comportava e come si mettevano in riga gli indisciplinati: lei ne era un fulgido esempio, esiliata in quel pianeta orribile per essere “rieducata”. Dante era un ragazzo timido e schivo, preferiva comporre le sue canzoni che andare a manifestare, e tanta violenza gratuita lo aveva terrorizzato. Rimase con la sua amica finché non arrivò il momento di accompagnarla al lavoro, trascorse tutta la sera da solo a un tavolo della birreria a leggere, cantò solo poche canzoni perché era troppo triste, e dopo la chiusura accompagnò Beatrice a casa. La signora Kamuri li stava aspettando sveglia, li fece accomodare in salotto in mezzo ai suoi adorati gatti e mentre serviva il tè parlarono della violenta aggressione a cui erano sfuggiti per un pelo. La signora li avvisò che non era stata una generica operazione di ordine pubblico, in città tirava una brutta aria. La polizia voleva alzare il livello dello scontro, voleva arrivare al morto, ai disordini di piazza, perché Bologna andava rimessa in riga, era un cattivo esempio. Una città in cui governava la sinistra, una città aperta, tollerante, coi servizi pubblici che funzionavano, in un periodo storico come quello, in cui tanti giovani avevano votato contro i partiti della destra, doveva essere spezzata e ricondotta al ruolo di metropoli sporca, cattiva, fredda e disumana come le altre.

i fori dei proiettiliDante e Beatrice non ci capivano molto, ma si fidavano della saggezza della signora Kamuri: visto che tanti gatti l’avevano eletta a umana di riferimento le sue parole non potevano essere il solito dar aria alla bocca tipico di quella specie. Passò qualche altro giorno e arrivò venerdì 11 marzo. La casa era ancora immersa nel sonno, perché Beatrice aveva lavorato fino a tardi e alla signora Kamuri, come ai gatti, piaceva dormire, quando il campanello esplose come una sirena. Veramente si erano sentite diverse sirene quella mattina, ma non ci avevano fatto caso. Alla porta c’era Dante in lacrime. “In via Mascarella hanno ucciso uno studente”. C’era stato qualche scontro a causa di un’assemblea di ciellini, alcuni studenti di medicina avevano cercato di entrare ma erano stati respinti violentemente dal “servizio d’ordine” di quei devoti soldati di Cristo. Beatrice si immaginò le sue ex compagne di appartamento che strillavano indignate e sperò che si fossero almeno spaventate un pochino, perché la notizia dell’assemblea si era sparsa in fretta e dopo poco sul posto c’era un folto gruppo di persone che contestava rumorosamente. I ciellini, famosi per il loro coraggio e la loro propensione alla democrazia e al dibattito, si erano barricati nell’aula come se fuori ci fossero state le schiere del demonio, e naturalmente il rettore dell’università aveva chiamato le forze dell’ordine, non fosse mai detto che ai militanti di una setta così piena di soldi fosse torto un capello. La Celere aveva garantito l’uscita dei ciellini in tutta sicurezza, protetti come cuccioli, ed era partita la prevedibile e violenta carica contro gli studenti “assedianti”. Naturalmente la reazione dei giovani era stata piuttosto sanguigna, come c’era da aspettarsi, gli scontri di piazza si erano estesi a tutta la zona universitaria e i carabinieri, sparando ad altezza d’uomo, avevano ucciso uno studente di vent’anni. Si diceva che l’assassino avesse addirittura appoggiato il braccio armato su un’auto parcheggiata per prendere meglio la mira. Ecco che cosa intendeva la signora Kamuri quando parlava dell’intenzione di innalzare il livello dello scontro… I ragazzi si sintonizzarono su Radio Alice, che trasmetteva la cronaca in diretta degli scontri. La notizia della morte dello studente si era diffusa e migliaia di persone erano affluite verso l’università; nel primo pomeriggio era partito un corteo spontaneo che era stato subito disperso con violente cariche, mentre una parte dei manifestanti si era diretta verso la stazione per occupare i binari.

I ragazzi sentivano le notizie in diretta attraverso la radio e Beatrice voleva assolutamente uscire per menare le mani. Dante era disperato, non poteva darle ordini perché la sua amica non ne accettava da nessuno, ma venne in suo soccorso la signora Kamuri, facendole capire che non aveva senso andare fuori a rompere vetrine e automobili di gente che non c’entrava niente, sarebbe stato meglio andare a incendiare le ville dei ricchi in collina… Poi si rimangiò subito le parole non appena la ragazza impugnò la katana e si mise a gridare “Allora cosa aspettiamo, si va?”. L’anziana giapponese impiegò tutta la sua pazienza per convincerla che una piccoletta armata di spada, sia pure affilata, non sarebbe arrivata da nessuna parte, però i due ragazzi erano appassionati di fotografia e non resistevano alla voglia di documentare gli scontri. Dante aveva già scattato diversi rullini durante la mattina e nel pomeriggio uscirono di nuovo a fotografare. Beatrice aveva l’agilità del felino e scattava come un lampo, proteggendosi dietro le macchine e i cassonetti, e ogni tanto si arrampicava sulle cabine telefoniche e sui pali della luce per inquadrare dall’alto. Dante non era così agile, ma era pur sempre un ragazzo di vent’anni, magro come un chiodo, e seguiva senza problemi i passi della sua amica. Verso sera nelle strade del centro arrivarono anche i carri armati, spettacolo che li impressionò profondamente. Vagarono in centro per ore, fotografando le vetrine rotte e le macchine bruciate, il muro coi segni dei proiettili che avevano ucciso il povero studente, un’allegra comitiva di ragazzi che usciva da un lussuoso ristorante con forme, prosciutti e perfino pentole e padelle, e si fermarono davanti a uno spettacolo che li lasciò senza parole. Sulle barricate improvvisate qualcuno aveva portato un pianoforte e un ragazzo suonava “Chicago”.

carriarmati a BolognaLo stavano ascoltando incantati quando Beatrice percepì il familiare senso di freddo sulla nuca e trascinò Dante a casa attraverso i vicoli, perché la polizia stava rastrellando il quartiere universitario e arrestava tutti quelli che gli capitavano tra le mani. A un certo punto si trovarono circondati, c’erano poliziotti da una parte e dall’altra della strada, ma riuscirono ad aprire un portone con un paio di spallate e si precipitarono su per le scale mentre i celerini li inseguivano. A Dante era sembrata una mossa molto stupida quella di scappare su per le scale, gli sembrava di cacciarsi in un vicolo cieco, ma non era così per la sua amica, che aprì l’abbaino sui tetti, lo aiutò a salire e lo guidò con un salto fino al cornicione opposto. Solo allora si fermarono nascosti dietro a un camino. Dante per la paura stava per vomitare, non riusciva a credere di aver fatto un salto del genere, avevano saltato come gatti… Anche i poliziotti erano arrivati sui tetti, ma avevano rischiato di cadere e di sfracellarsi sulla strada quattro piani più in basso, così se ne erano andati alla ricerca di prede più facili. I due ragazzi rimasero abbracciati dietro al camino per ore, tremando, Dante per la paura e Beatrice per la gioia di aver provato finalmente l’emozione del salto, che temeva di non essere più in grado di eseguire con quel debole corpo terrestre così imperfetto, ma il corso di arti marziali l’aveva aiutata a ritornare in forma. Sempre passando per i tetti si avvicinarono a casa della signora Kamuri e scesero soltanto quando furono sicuri che la via era sgombra. La signora li aspettava sveglia; era molto preoccupata, non aveva staccato l’orecchio da Radio Alice e quando li vide tornare tirò un bel respiro di sollievo, li costrinse a mangiare qualcosa e li mandò a dormire. Quella notte per Dante fu indimenticabile; la sua amica, di cui era perdutamente innamorato, gli dormiva accanto e ronfava come un gatto mentre lui, infagottato in un pigiama saltato fuori da chissà dove, non aveva il coraggio di muoversi e assaporava il suo profumo e il calore del suo corpo. Non avevano mai dormito insieme, non avevano mai fatto l’amore, non si erano nemmeno mai baciati, lei lo trattava come un fratello, ma Dante sentiva un’intimità col suo corpo che non aveva mai provato prima. Era come dormire con un gatto. Lei era completamente rilassata, raggomitolata su un fianco, profumava di pelliccia selvatica e faceva un suono identico alle fusa, così rilassante che si addormentò anche lui, sfinito.

Radio AliceIl giorno dopo c’era una manifestazione di studenti a Roma e anche là scoppiarono scontri. Stanchi di sentire le notizie solo per radio, uscirono di casa per andare in via del Pratello, sede di Alice, dove Dante conosceva uno dei redattori. Avevano bisogno di un po’ di contatto umano, di sentire che non erano soli al mondo. Per la prima volta anche Beatrice si sentiva partecipe delle vicende terrestri, aveva provato la violenza della famiglia e della polizia e i guasti del fanatismo religioso e desiderava vedere il volto di quelle persone che dalla radio li informavano di quello che succedeva. Purtroppo i due ragazzi non portarono fortuna ad Alice; erano ancora lì quando, la sera, la polizia fece irruzione nello studio, distrusse tutte le attrezzature e arrestò i presenti. Dal punto di vista di Beatrice la fuga era facilissima, c’era una finestra che dava sui tetti, ma l’impresa titanica fu portarsi dietro Dante. Il suo amico si era improvvisamente messo in testa che soffriva di vertigini e si era paralizzato su un cornicione, per sbloccarlo fu costretta a scuoterlo con violenza e guidarlo in un altro salto. Molti altri ragazzi non erano stati così fortunati da riuscire a scappare: la polizia li aveva portati in questura, pestati con violenza e trasferiti a San Giovanni in Monte per aver “diretto gli scontri” via radio. L’accusa era troppo stupida anche per una specie idiota come quella terrestre, ma ci volle del tempo perché i ragazzi fossero liberati e si prendesse atto che avevano semplicemente dato notizie in diretta. Non ci voleva molto a capirlo, bastava il banale buonsenso, ma di questa dote i terrestri sono poco dotati, e poi c’era la precisa strategia di “innalzare il livello dello scontro”. Gli studenti che avevano rubato una pentola dal ristorante si fecero diversi mesi di galera, mentre il carabiniere assassino e il suo comandante furono prosciolti da ogni accusa e il caso fu archiviato.

London Camden TownDi nuovo, passando da un tetto all’altro, Dante e Beatrice riuscirono a tornare a casa dalla signora Kamuri, però il ragazzo aveva paura, sapeva che la polizia voleva i nomi di altra gente da arrestare e temeva che a forza di botte qualcuno facesse anche il suo. Poiché la signora temeva la stessa cosa, la notte li mise su un treno per Londra, dove una sua amica li avrebbe ospitati finché le acque non si fossero calmate. I gatti approvavano, quindi era giusto così. Dante non avvisò neppure i suoi genitori, non si fidava di loro. Avevano i soldi che Beatrice aveva guadagnato al bar, due zaini, il passaporto e il coraggio dei vent’anni. La gloriosa collezione di coltelli rimase dov’era, non era proprio il momento di trasportarla attraverso la frontiera; la signora Kamuri promise di conservarla come una reliquia e in cambio diede loro un mucchietto di sterline che “casualmente” si era ritrovata in un cassetto. A Londra i due ragazzi lavorarono come baristi, rimasero ospiti dell’amica della signora Kamuri per un po’ e in seguito si stabilirono in una casa occupata. Non pensavano più a Bologna. Londra era esaltante, la musica era un’esplosione di novità e di creatività, insieme scrivevano canzoni e formarono anche un piccolo gruppo con altri ragazzi, con cui ogni tanto riuscivano a suonare in qualche pub. Il compenso era solo la birra gratis, ma per loro era già una soddisfazione. Quando arrivò l’autunno Beatrice propose a Dante di andare in India, due loro amici partivano con un furgoncino e cercavano una coppia per dividere le spese. Qualche risparmio l’avevano messo insieme e tutti dicevano che in India si viveva con poco.

stairway to heavenNessuno dei due tornò a Londra mai più. Viaggiarono per un paio d’anni da un paese all’altro finché approdarono in Australia senza il becco di un quattrino. A Darwin trovarono un lavoro da camerieri, poi si stabilirono a Port Douglas, nel Queensland, a fare i bagnini. Fu durante una gita a Sidney che incontrarono un amico di Bologna, e Dante seppe da lui di essere ricercato dalla polizia, non per i fatti del marzo 1977, ma perché risultava renitente alla leva. Il servizio militare… se ne era completamente dimenticato. Non aveva più dato esami, non aveva richiesto il rinvio per motivi di studio, e adesso in Italia lo aspettava il carcere. Beatrice invece era alle prese con un altro problema: il suo periodo di “scambio scolastico” stava per finire e di lì a poco sarebbe passato da Bologna il pullman che la doveva riportare a casa, nel suo pianeta. Ma come faceva ad abbandonare il suo Dante, esiliato come lei? Era il momento buono per tirare fuori il Gomitolo Magico. Non aveva mai chiamato la scuola e aveva ancora le sue tre possibilità. Si ritirò da sola in spiaggia, camminò a lungo e si decise a premere il tasto di contatto. Le rispose la Preside in persona, quale onore… La conversazione non fu così lunga e impegnativa come Beatrice temeva, perché la signora Kamuri aveva tenuto le Madri costantemente informate su tutto. Aveva sottovalutato la considerazione e l’affetto che nel suo pianeta nutrivano per i cuccioli: non l’avevano buttata allo sbaraglio in un mondo ostile, ma avevano affidato a una persona di loro fiducia il compito di proteggerla. A scuola erano davvero molto orgogliose di lei: non solo non aveva sgozzato nessuno, ma aveva mostrato autocontrollo e capacità di giudizio. Perché non tornava a casa col suo giovane amico? Il povero Dante era nei guai sulla Terra, gli stava per scadere il passaporto ed essendo ricercato non poteva andare al consolato a rinnovarlo, e un periodo di “scambio culturale” avrebbe fatto bene anche a lui. Poi se col tempo, in seguito, avesse desiderato tornare, era libero di farlo, e avrebbe potuto cantare sulla Terra la magnificenza del loro mondo, tanto a tutti sarebbe apparsa solo come un’opera di fantasia. Non avrebbero mai creduto che il suo canto potesse descrivere un mondo reale, però sarebbe stato apprezzato come grande poeta. A Beatrice sembrò un’ottima idea, tornò a casa e la espose al suo amico. Lui era talmente sconvolto dalla paura di finire in galera che non capiva niente di quello che lei gli raccontava e diceva solo di sì, perché si fidava di lei più che di se stesso. Quando arrivò il pullman che li doveva riportare al pianeta delle Madri, Dante era solo leggermente stupefatto e pensava che era arrivato anche per lui il momento di attraversare la selva oscura, che la diretta via era smarrita. Che cos’aveva da perdere oltre alla paura? Dall’Inferno erano usciti a “riveder le stelle” per il rotto della cuffia e dopo il suo purgatorio si sentiva “puro e disposto a salir a le stelle” con lei, la sua guida, la sua Beatrice, “l’amor che move il sole e le altre stelle”. Le stelle… Nel loro nome il Sommo Poeta chiudeva tutte e tre le sue cantiche, la strada era segnata.

 

 

 

 

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