Libiamo ne’ lieti calici

traviata

Il pomeriggio del 5 giugno il commissario Martino, visto che a quanto sembrava il giudice Impallomeni non era caduto nel suo sfunnapedi e visto pure che non ne poteva più del suo maledetto lavoro d’ufficio, decise, dopo essersi informato in commissariato sulla strada da fare, di recarsi da solo a Seminaro per cercare dopo settant’anni tracce di Daniele Mazzullo.

Mise un CD della Traviata e andò alla ricerca del tempo perduto della baronessina Alfonsa Teresa Maria Zancla di Linosa, età anni 17, settant’anni prima.

La strada tra le colline, che saliva e discendeva dolcemente, lo rapì col suo paesaggio pieno di saggezza, fondendosi con libiamo ne’ lieti calici, che gli riportò in mente un episodio di tanti anni prima.

Aveva ventidue anni, era a Ginostra, la parte scoscesa dell’isola di Stromboli. Con un amico, Giorgio, era stato invitato a cena da una coppia di amici che avevano casa molto in alto sulle pendici del vulcano.

Sotto di loro, mentre si inerpicavano, un tramonto sul mare più bello del mondo. Portavano una bottiglia di vino bianco ghiacciato… era il minimo che… e una radio a transistor accesa per assicurare un po’ di musica alla serata.

La bottiglia di vino era stata aperta e poi ritappata, non sia mai mancasse il cavaturaccioli… ad un tratto la radiolina cantò: libiamo ne’ lieti calici… Lui e Giorgio si guardarono negli occhi.

Era chiaramente un segno di quello che il Dio esigeva da loro! La bottiglia di vino bianco non arrivò mai a quella cena.

La bellezza della campagna rese più acre la sua delusione nell’arrivare alla frazione di Seminaro.

Brutte case ammucchiate dove sicuramente una volta c’era un grande agrumeto di cui restavano pochi alberi non curati, qualche villino pretenzioso in cui erano con assoluta certezza, secondo il commissario Martino, presenti i nani da giardino, un paio di negozietti con scritte rigorosamente in siculo-english.

Imboccò quello che una volta doveva essere stato un grande cancello, di cui restavano solo i pilastri e il contorto ferro battuto sovrastante con uno stemma ormai indecifrabile.

Arrivò presto ad un grande rudere: muri cadenti e quello che restava di un balcone con la ringhiera barocca in ferro.

Davanti al rudere, una baracca-casa che ricordava in peggio l’abitazione di Pasquale Gangemi.

Davanti alla baracca-casa, seduta su una sedia a cercare il fresco, che ancora a quell’ora non poteva arrivare, una vecchia che aveva di certo superato i settant’anni, col viso pieno di rughe da contadina esposta al sole d’estate o al gelo d’inverno. Nell’aria odore nauseante di galline.

Rispetto alla zona che aveva attraversato c’era un silenzio che rinfrancava.

Il commissario scese dalla macchina per parlarle, ma fu la vecchia ad iniziare:

“A voscenza gli serve qualche cosa?”

“Volevo sapere dove è la casa dei baroni Zancla?”

Chista è… era una volta… chistu è tutto quello che è restasto.” additando il rudere, “Ma io me la ricordo ancora quando era tutta sana e i baronetti ci venivano d’estate… padre, madre e figlia. Poi quando è morto il barone grande, il barone Goffredo, non ci sono venuti più.

E a poco a poco la casa se ne è calata… del resto pure la proprietà hanno venduta tanti anni fa. Era grande assai e se la comprò come terreno agricolo per un pezzo di pane quel porco di Salvatore Calano.” sputando per terra, “Prima terreno agricolo era, poi appena Calano se la comprò, diventò efficabile e ci costruirono tutte quelle case che voscenza po’ avvidere.

Solo la mia casa è la mia casa. Io a Calano mai gli ho voluto vendere.

La casa e il terreno attorno me li ha regalati la baronessa prima di vendere. E io non vendo. Non ho voluto vendere a quel porco di Calano prima che se andasse all’inferno e non voglio vendere ora a quel porco del figlio di Calano!

Io, Maria Mazzullo qua sono nata e qua voglio morire quando il Signoruzzo mi chiama.”

“Mazzullo? Lei è parente di Daniele Mazzullo?”

“Era mio fratello, ma lei voscenza come mai… come lo conosce a mio fratello…”

“Cosa è successo a suo fratello?”

“Mio fratello è sparito tanti anni fa. Io carusa ero. Un giorno c’era e poi il giorno dopo non c’era più e mai più l’ho visto.”

“E non l’avete cercato?”

“Cercato… Il barone grande, il barone Goffredo, ha risposto, quando mio padre gli ha detto che non si trovava più, che certamente emigrato era, per trovare un altro lavoro, che troppe cose per la testa aveva… cose che per la testa non doveva avere… e che forse era andato all’America… e che magari il contadino non lo voleva fare.

E qua se non facevi il contadino lavoro non ce ne era.”

“E voi gli avete creduto al barone? Non lo avete cercato? Non avete pensato che forse non era emigrato…”

Voscenza noi gli dovevamo credere! Daniele Mazzullo era sparito ma i Mazzullo che restavano, ancora quindici erano… e dovevano mangiare ogni giorno… di quel poco di pane e companatico che ci toccava a quei tempi, tutti… i vecchi come i bambini… gli uomini come le donne, avevano bisogno… e lavoro non se ne trovava se ci mandavano via.

Non si trovava perché il lavoro in tanti lo cercavano e noi certamente non lo trovavamo se il barone non voleva che lo trovavamo… così, voscenza, sì… gli abbiamo creduto perché gli volevamo credere…

Io me frate me lo ricordo ancora… aveva chiari i capelli come mio nonno e i suoi occhi… i suoi occhi… cielo erano…

Guidando sulla strada del ritorno, il commissario Martino era arrabbiato col mondo intero e non avendo la possibilità di prendersela con tutto il suddetto mondo decise di assecondare il suo stato d’animo prendendosela col libretto de LA TRAVIATA.

“E che cazzo! Possibile che quando lei lo scarica e lui si spara la frase: “Questa donna pagata io l’ho”, non ci sia nessuno che capisca la situazione e gli dica: “Guarda, Alfredo, grandissimo idiota che non sei altro, che lei ti sta lasciando perché glielo ha chiesto quello stronzo di tuo padre per fare sposare quella gattamorta di tua sorella.

Sì, proprio gattamorta! Altro che pura siccome un angelo!”

E poi quando tutti e due si mettono a cantare: “Parigi, o cara noi lasceremo…” e continuano per dieci minuti invece di fare le valigie.

Ti credo che lei ha avuto il tempo di morire di tisi!”


 

 

da LA DANZATRICE DI RAGUSA, inedito.

Immagine: rafal olbinski – la traviata

 

 

 

 

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Si ringrazia per l’editing Benedetta Volontè


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2 Replies to “Libiamo ne’ lieti calici”

  1. Questi racconti sono molto belli e mi piacerebbe acquistarli. E’ possibile?
    Ciao
    Maria

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