Opposti

di Lorenzo Federici

Quel sabato era iniziato come sempre. Sveglia alle otto, un’intera moka di caffè da quattro per colazione, Philip Morris, bagno, doccia bollente anche se era aprile, quindici minuti di macchina, redazione, accensione del PC, altro caffè, altra Philip Morris, saluti assonnati ai colleghi svegli presumibilmente da ore.

Aveva dato un’occhiata veloce alla posta elettronica del settore della cultura, controllato il calendario di conferenze stampa sulle agenzie e fatto un paio di telefonate ai collaboratori. Una banale mattinata al giornale, pensava, anche perché oggi ho solamente una pagina.

Cercò con lo sguardo il pacchetto giallo ocra delle sigarette sulla scrivania e lo trovò infilato chissà come sotto una pila di vecchie edizioni, fogli di appunti e inviti. Sfilò una Filter Kings e controllò quante ne aveva: quattro, gliene restavano solamente quattro. Poi scendo a comprarle, si disse mentre usciva sul pianerottolo per fumare in santa pace la sua terza sigaretta. Non erano nemmeno le 9.30, ma a lui poco importava.

– Dov’è Alessio? Alessio! il direttore urlava il suo nome.

La sigaretta, anche se consumata solo a metà, finì immediatamente a terra. Iniziò a correre fino alla porta dell’ufficio. Bussò due volte e aprì la porta.

– Sì, direttore? disse.

– Senti, possiamo fare un’intervista a Valerio Scattelli, il romanziere umbro che ha fatto successo con quel libricino idiota, come si chiama?

– Probabilmente, direttore.

– Probabilmente cosa Ale?

– No, Probabilmente è il titolo del romanzo, disse.

– Ah sì certo, rispose irritato il direttore, comunque c’è questa intervista da fare, anche perché è il nipote dell’editore e quindi è imperativo. Alle 11.30, ce la fai?

– Certo direttore, sorriso di circostanza, anche se non aveva la minima idea di cosa chiedere a un tizio comparso dal nulla che se ne era uscito con un romanzo da centinaia di migliaia di copie.

– Mi metto al lavoro e lo intervisto, e fece per uscire, Alessio, poi ritornò sui suoi passi.

– Dov’è che devo incontrarlo direttore?

– Caffè del Corso, in centro. Senti, continuò il direttore, non è che hai una sigaretta, che mia moglie me le butta nell’immondizia?

– Certamente, ed estrasse una Filter Kings dal pacchetto.

– Grazie, e ora vai a lavorare.

– Va bene, e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Tornò alla scrivania e richiamò i collaboratori per disdire i pezzi.

– Abbiamo poco spazio, fatemi delle brevine da mille e cento battute che mettiamo in pagina l’intervista a Valerio Scattelli.

– Ma chi il nipote dell’editore? chiese la voce dall’altro capo del telefono, lo sai che non l’ha scritto lui quel libro, vero Alessio?

– Ah no? rispose – e chi è l’autore, aggiunse.

– Questo non lo so, prova a chiederglielo tanto che ci sei.

– Va bene, ci si sente più tardi. Ciao.

 

Buttò giù la cornetta colorata di nero e rimase a fissare lo schermo del PC in balia di quel pensiero.

Ma come non l’ha scritto lui? Ma dai, si disse, ti pare che non è suo. Sai che fai Alessio, glielo chiedi e buona lì.

Aprì Google e cercò qualche notizia su Valerio Scattelli. Data di nascita, biografia, aneddoti, interviste precedenti. Quel motore di ricerca è l’angelo salvatore della sua generazione. Aveva le idee ancora più confuse di prima, e l’orologio avanzava inesorabile verso la temuta meta delle 11.30.

Il libro l’aveva letto, per la verità, e gli era anche piaciuto. Raccontava la storia di due ragazzi diversissimi che la vita aveva fatto incontrare in un contesto anomalo. Un festival artistico agostano in un paesello tipicamente centroitalico. Uno faceva il giornalista, lei, invece, l’ufficio stampa. Non un amore a prima vista, pensava Alessio mentre sistemava cartelline e appunti, ma una folgorazione. Poi i casi della vita avevano fatto il resto. Ripassava a memoria quelle pagine già lette, e più ci ragionava su più si accorgeva che il protagonista, Marco, lo rispecchiava e non poco.

Anche Alessio aveva iniziato come stagista in un giornale. Anima, energie e tanti mesi dopo era riuscito a emergere e a mettere, se non altro su carta, le basi per un futuro tanto agognato quanto faticoso.

Ore 11, l’orologio era spietato nella sua precisione. Devo andare, si disse, e prese chiavi, portafogli, registratore e Iphone. Aveva imparato un dettaglio importante nel fare le interviste: registrare, registrare tutto, anche in duplice copia. Così si rimediano le situazioni infuocate, pensava, e sorrise laconico della sua ignara intuizione. Quindici minuti di macchina dopo era in centro e passeggiava lungo Corso Vannucci. C’era gente, perché quella calda giornata d’aprile srotolava un cielo limpido di un azzurro pastello che ti invogliava a uscire e camminare, anche senza meta.

Raggiunse il Caffè del Corso, entrò e si sedette in un tavolino appartato.

Ore 11.20, era in netto anticipo. Cercò con lo sguardo il barista e da lontano, scandendo i movimenti delle labbra, chiese un caffè doppio. Il ragazzo al bancone sorrise e si mise ad armeggiare con tazzine e piattini. Alessio si alzò appena in tempo per intercettare la bevanda americana prima che toccasse la ceramica tondeggiante di colore bianco.

– Grazie, disse senza scomporsi, e ripose automaticamente la bustina di zucchero nel contenitore dorato. Pochi passi, equilibrio precario e la tazza fumante di caffè nero arrivò sana e salva al tavolo. Nell’attesa che si freddasse almeno un po’, Alessio controllò il registratore, la batteria dell’Iphone e l’elenco delle domande sul taccuino nero pieno zeppo di correzioni e numeri di telefono.

Una mano tesa di fronte al viso lo riportò tra noi.

– Tu devi essere Alessio, disse, quello che mi deve fare l’intervista, io sono Valerio Scattelli, ma tanto tu già lo sai.
Arrogante e pettinatissimo, realmente a proprio agio nei panni dell’uomo di successo.

L’aveva colto di sorpresa, ma non doveva farne mostra, Alessio.

– Già, disse, quando vuole possiamo cominciare.

– Posso offrirti qualcosa? ribatté lui.

– No grazie sono a posto, rispose.

– Cameriere un Campari e Martini con ghiaccio e arancia, veloce. Faccio per me allora, apostrofò l’intervistato.

Alessio accese il registratore e lo poggiò sul tavolino del bar. Aprì di nuovo il taccuino per dare un’occhiata alle domande da fare.

 

– Allora, da cosa nasce Probabilmente?

– Beh, rispose l’autore, avevo una storia da raccontare.

– Quindi è autobiografico?

– Non parla mica di me, ma dei due ragazzi che si incontrano.

– Di lei non c’è niente, quindi, alcun riferimento?

– No, direi di no. Anche perché sarebbe stupido condividere la mia vita con i lettori.

– Come scusi?

– Sì, perché l’importante è la storia.

– Veramente non mi ha risposto e quindi ci riprovo. Perché sarebbe stupido condividere la sua vita con i lettori?

– Perché non è questo che vogliono leggere. Il mercato chiede racconti romantici, un po’ struggenti. Ed io questo ho dato ai lettori: romanticismo a buon mercato.

 

Non riusciva a crederci Alessio.

Ma come, si disse, è uno scrittore e ha messo in piedi un libro in cui non crede.
– Lei è molto giovane e questo è il suo libro d’esordio. Chissà quanto tempo ci avrà messo per realizzarlo.

– Poco, a dire il vero. Al massimo un mesetto o giù di lì.

– Possiamo definirlo un instant-book?

– Assolutamente no, sapesse quanto è ragionato. Indagini di mercato, tre o quattro stesure. Alla fine ho scelto quella più simile a me.

– Ma come, in un mese ha fatto quattro stesure diverse tutto da solo? È stupefacente.

– Non prendermi in giro con queste domande, certo che non l’ho fatto da solo. Ho anch’io i miei collaboratori.

– Quindi c’è una torta da spartire.

 

Ora era veramente amareggiato, Alessio. Non credeva a quello che stava succedendo.

– Spegni il registratore, ordinò l’intervistato.

Il tono della voce ce l’aveva più alto e si sporgeva minaccioso verso il giornalista. A questo serviva l’Iphone. Spense il registratore.

– Beh, che c’è? disse.

– Senti bellimbusto, adesso ti dico una cosa che tanto non la scrivi così ti faccio contento.

– Sentiamo, disse Alessio.

– Sai come si fa un libro di successo? Devi costruire il personaggio, e cioè lo scrittore. Poi viene il romanzo.

– Pensavo il contrario, veramente.

– Magari chi scrive può anche essere il più anonimo dei passanti, ma se il risultato emoziona poco importa, spiegò l’intervistatore.

– Ma va là, disse l’altro.

– E come pretendi di vendere tante copie quante ne ho vendute io?
Ascoltami bene, perché questa è una lezione di vita. Io ho tre romanzieri che hanno lavorato per me, ma la faccia che fa vendere il libro è la mia. È la mia di storia che interessa i lettori, non quella scritta sulle pagine. Hai capito? Adesso fammi delle domande decenti, dato che sei un mio dipendente.

– E da quando sarei un suo dipendente? chiese Alessio.

– Mio nonno ti paga lo stipendio, quindi sei al mio servizio.

Ora il giornalista stringeva il pugno sotto il tavolo, in preda a un furore cieco venato di arcaica violenza. Voleva rovesciare il tavolo, afferrare il bohemien da quattro soldi per il bavero della giacca e condurlo fino alla porta a suon di pugni. Lasciarlo sull’uscio agonizzante, con la bocca impastata di sangue e bava, il naso distrutto e il viso completamente tumefatto.

Come si permetteva di trattarlo con quell’aria di superiorità, come se fosse l’ultimo dei lavavetri. Aveva faticato, Alessio, per ottenere quel lavoro che sognava da una vita. Aveva passato nottate intere sui libri per laurearsi, aveva scritto migliaia di articoli, seguito centinaia di conferenze stampa. Aveva perfino lavorato per due anni senza corte o giorni di riposo. Solo le pause obbligate dal calendario, nulla più. Ora, nonostante il ribollire della rabbia e la follia omicida che si era impadronita di lui, doveva conservarlo. E per farlo doveva, volente o nolente, scendere a patti con il diavolo, e soprattutto non cedere a se stesso.

– Va bene, disse tra i denti. Ora riaccendo il registratore e continuiamo l’intervista, se è d’accordo.

Nel pronunciare quelle parole abbassò lo sguardo fissando la superficie liscia del tavolino. Non per timore reverenziale o timidezza, ma per evitare di vedere la sua immagine riflessa nelle pupille dell’altro. Si detestava, ma a volte l’orgoglio andava dimenticato. E così sciorinò una serie di prevedibilissime domande che funzionò da splendida sorgente per il susseguirsi di esattissime, quanto innocue, risposte. Una transazione precisa, puntuale, senza vittime né colluttazioni.

Pagò il caffè doppio e uscì in maniera precipitosa dal bar, attraversò la porta per fuggire da quel paio d’ore senza senso apparente, lasciando Scattelli seduto comodamente a rimirarsi la vittoria. Fuori l’attendeva lo stesso cielo color pastello, la stessa gente a passeggio e un sole caldo che languido presagiva mesi d’afa di lì a venire.

Inforcò gli occhiali da sole e puntò dritto alla macchina. Si ritrovò dopo una decina di minuti a parcheggiare di fronte alla redazione. Aprì lo sportello e lasciò cadere la sigaretta inconsapevolmente accesa pochi minuti prima. Salì le scale animato dalla ferrea volontà di distruggere quel tizio dall’aria spocchiosa e dal portafogli pieno di banconote altrui.

Sedia, tastiera, login, sistema editoriale, pagina della cultura. Era identica a come l’aveva lasciata, disegnata appositamente per quell’intervista. Ora giocherellava con l’Iphone, elettronico custode d’incendiarie rivelazioni. Sudava freddo, laringe chiusa, mascella serrata. Fissò le dita muoversi da sole, ritmico e cadenzato corollario di equanimi pressioni tra tasti e barra spaziatrice.

Quella domenica era iniziata come sempre. Sveglia alle 10, un’intera moka di caffè da quattro per colazione, Philip Morris, bagno, doccia bollente anche se era aprile, quindici minuti di macchina, redazione, accensione del PC, altro caffè, altra Philip Morris, saluti assonnati ai colleghi svegli presumibilmente da ore. Tutto come d’abitudine, identico a tutte le altre domeniche mattina degli ultimi quattro anni, compreso il suo prestito al settore sportivo del giornale. Non gli riusciva tanto bene, ma voleva migliorare. Non c’è medicina migliore che il provare, gli ripeteva sempre suo padre. Amen, sogghignò, e aprì il sistema editoriale.

L’arrivo del direttore lo riportò alla realtà.

– Alessio vieni da me tra dieci minuti, così mi spieghi che cazzo hai combinato.

Nient’altro che questa frase. Secca, precisa, tagliente. Una quindicina di parole pesanti come piombo.
Cercò il pacchetto di sigarette e uscì sulla scala antincendio. Il tabacco sfrigolò nell’incontro con la fiamma dell’accendino. Era nervoso ora, Alessio, odiava non capirne il perché. Terminò la Philip Morris in balia dell’ansia e rientrò chiudendosi la porta alle spalle. Lentamente raggiunse l’ufficio del direttore, l’uscio aperto, e quell’uomo dalla stazza mastodontica seduto tra una montagna di giornali, intento a parlare, con insolita voce mansueta, al cellulare.

Con un singolo gesto della mano lo invitò a entrare, ma non a sedersi.

– Certamente, diceva alla voce di là del telefono – sì certo, mi sembra il minimo, ha ragione, come vuole, sì, sì.

Concluse la chiamata con reverenziali saluti. Nemmeno il tempo di pensare.

– Mi dici che cazzo hai combinato Ale?

– Io, veramente, direttore…

– Non sei stupido, quindi la faccio breve. Hai quattro giorni da contratto per trovarti la casa e trasferirti.

– Direttore, veramente non capisco.

– Ah no? rispose l’uomo mastodontico alzandosi dalla sedia, allora te lo spiego. Stamattina indovina che cosa mi sveglia. Te lo dico io, una telefonata di Scattelli in persona. Mi dice “Com’è che si chiama quel ragazzo che ha intervistato mio nipote?”, Alessio, gli rispondo e lui conclude “Bene, allora è tempo di promuoverlo. Mandiamolo a Grosseto”.

– Ma direttore, provò a chiedere Alessio e fu interrotto all’istante.

– Sai che cosa sei adesso? Vice capo servizio in Maremma, e gli tese la mano. Complimenti Alessio.

Strinse quella mano incredulo. Era fatta, ora aveva la tanto agognata gloria e il successo, sì, la ribalta. Il prezzo poco importava, la deontologia è una convinzione superata, soprattutto se non porta frutti.

 

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