Pim occhigialli ovvero La rivincita della Trippona

– racconto e illustrazioni di Mauro Cristofani –

 

Poiché nel crescere s’accorse di non esser come i suoi compagni, sfuggire ai loro sguardi sospettosi e chiudersi nella sua stanza era per Pim conquistare la salvezza. Anche se una volta lì dentro, al vedersi nello specchio ragazzetto striminzito con occhi gialli di gatto si faceva quasi paura.

Pim era un senza famiglia. Il riccone Nigo diceva d’essergli parente e per averlo cresciuto e sfamato pretendeva riconoscenza ogni momento. In realtà aveva accolto Pim per sentire un’altr’anima muoversi nel suo casone vuoto, sperando che quella proprietà costosa in forma di ragazzo si sarebbe un giorno rivelata redditizia. Anche il paese era mezzo suo, per lui lavoravano più di trecento contadini ma fra loro non contava neanche un amico.

Pim l’ubbidiva di malavoglia, non gli voleva bene. Da lui una volta sola aveva avuto una specie di gesto affettuoso, e ne era rimasto quasi impaurito. Una cosa buona però Nigo l’aveva, non faceva caso ai suoi occhi di gatto.

Del gatto Pim aveva anche le abitudini segrete, istinti voglie e la felinità rapace. Cacciava i topi e li sbranava divorandoli con ingordigia, finché non vedeva spuntarsi lunghi baffi. Faceva le sue cacce in soffitta fra cataste di roba putrefatta, e quando si sentiva la pancia ben gonfia ronfava finalmente sazio. A digestione fatta i baffi gli sparivano, ma nei suoi occhi di gatto continuavano a saettare giallognole scintille.

Era ingordo anche di pesce ma Nigo non lo faceva mai cucinare alla donnastra che di giorno gli faceva la serva e la notte gli calmava le smanie sessuali. Così Pim andava a rimediar frattaglie dalla Mary, soprannominata la Trippona. Tenutaria dell’unica trattoria del paese, Mary era detestata dalle mogli che imputavano al suo locale le assenze serali dei mariti, ma lei se ne infischiava allegramente e alla chiusura del locale restava sempre qualcuno a cui sgonfiare la patta dei calzoni. Di uomini ne aveva avuti tanti e tante volte era rimasta incinta, ma non aveva mai voluto partorire figli del marito di un’altra. Era uno spirito libero, convinta che dopo il transito fra le sue lenzuola ogni uomo sarebbe stato insopportabile. Quindi se li sorbissero pure le loro mogli, il meglio di quei maschioni lei se l’era già goduto.

Il suo affetto materno lo riversava su Pim. Con lui passava il tempo a ridere scherzare, ma anche a discorrere delle cose profonde della vita.

Se fra i coetanei maschi schernire Pim era d’obbligo, fra le compagne strisciava la curiosità morbosa di scrutar da vicino i suoi occhi di gatto. Per loro Pim non provava il minimo interesse, ma sgallettava un po’ per non far scoprire la sua natura attratta solo dai gatti. In paese ce n’era tanti e con loro scorrazzava di giorno fra i campi in cerca d’insetti e di bestiole, di notte nelle chiaviche a far man bassa di topi. Allora il rumore del ciancicar di carni triturate risuonava negli antri delle grandi abbuffate e Pim rientrava all’alba con ronzíi nella testa e vomitando.

In un giorno luminoso incontrò Alabina, gatta dagli occhi cinerini e pelo setoso che lo corteggiò agitando la bandiera festosa della coda bianca. Pim capì subito che era ladra e bastarda, ma se ne innamorò e non volle far caso al suo afror di fogna. Da gatta esperta e navigata, gli fece conoscere sconosciuti piaceri e quando gli leccava avidamente le narici il godimento pareva un’estasi infinita.

Durante l’estate Nigo s’ammalò e in breve fu alla fine. Implorò di non morire solo e Pim lo accudì fino all’ultimo, in fondo l’aveva sfamato e gli aveva dato un tetto. Dopo il funerale si fece avanti un notaio che lesse il testamento, Pim era erede di tutto. Una postilla imponeva che gli fosse consegnata “la chiave dello scrigno verde”, ma fu poi dimenticata in un cassetto.

La notizia che Pim dagli occhi gialli era diventato ricco fece il giro del paese ma l’unica che ne gioì fu Mary. Però quegli stessi che prima lo trattavano da reprobo ora gli si scappellavano davanti.

Via dal trambusto, la gatta Alabina restò appartata negli angoli remoti del casone e quando fu il momento giusto per rientrare in scena si presentò con un topo cacciato fresco fresco. Lo porse all’amico esultando con un Miaoooo! così acuto da far tintinnare il lampadario di cristallo.

Le orge ebbero inizio e per Pim e Alabina furono momenti di splendore. Poi sopravvenne la nostalgia delle antiche avventure e tornarono alle eccitanti cacce notturne, giù nei budelli sotterranei del paese. Prima di divorarle infilzavano le vittime con ferri appuntiti, e vederle agonizzare lentamente sollecitava il loro appetito.

Un giorno Pim si ricordò dello scrigno verde menzionato nel testamento, allora ritrovò la chiave e l’aprì. Dentro c’era un foglietto con la scritta

Un gesto eroico ti farà rivivere la tua natura

Tutta la notte si rigirò in testa quella frase. La sua vera natura era quella felina o quella umana e quale gesto avrebbe dovuto compiere per svelare il mistero? All’alba s’addormentò sfinito e col cervello in fiamme, quegli enigmi erano davvero fuori della sua portata.

Piano piano si staccò da Alabina. Lenta moriva la stagione delle brume e coi primi voli di rondini il freddo s’addolciva, dalla terra urgevano i germogli. Pim s’era chiuso nel casone, rammollito da pensieri assillanti e svuotato d’ogni voglia.

Rimasti senza controllo i contadini trascurarono i poderi e i paesani ci dettero dentro con le supposizioni più cattive.

Mary lo trovò ridotto a pelle e ossa. Saputa la ragione dei suoi mali sentenziò:

-Sono certa che quella frase sibillina non è altro che una stravagante cattiveria di Nigo. Pace all’anima di quel vecchiaccio, ma perdonalo perché t’ha lasciato ricco e torna subito alla vita e all’allegria!

Pim seguì i consigli della Mary. Fece ingoiare un po’ di polvere ai maligni paesani, cacciò i mezzadri che durante la sua assenza s’eran dati all’ozio e ne assunse altri dalle campagne confinanti, e poiché un padrone deve avere un servitore assunse Druno, un ragazzetto ladro ma a suo modo fedele.

Con Alabina andava a gonfie vele, cacce notturne e scorribande ripresero a ritmo serrato. Contenta d’averlo riportato in vita la Trippona diventava sempre più ciarliera, raccontandogli perfino ciò che aveva fatto intimamente con l’ultimo suo ganzo. Chiacchierava e lavorava lavorava e chiacchierava muovendo il corpo grasso fra le pentole e i fornelli, via via tracannando un boccale di buon vino.

Pim aveva una gran voglia di vuotare il sacco con lei, svelare il segreto che lì fermo alla gola rischiava di strozzarlo.

Le sue visite alla trattoria divennero sempre più frequenti e le mogli invidiose sparsero dicerìe del tipo “fra quei due corron cose sporche” oppure “la Mary non è solo l’accalappiatrice dei nostri uomini ma anche una sudiciona che s’approfitta d’un ragazzetto idiota”. Così, per loro tornaconto, d’un tratto Pim era divenuto ingenua vittima.

Ignara della tempesta che si stava scatenando, Mary vide svuotarsi in breve tempo la trattoria e dapprima non capì il voltafaccia dei clienti. Vedendola depressa e scoraggiata, Pim le teneva compagnia fino a tarda notte e ciò naturalmente rafforzò le voci maligne.

Quelli ch’eran stati gli avventori più entusiasti del locale esitavano a credere che davvero Mary se la facesse con uno steccolino spelacchiato che pareva senz’ossa, sapendo che a letto si portava sempre maschioni nerboruti che la fottevano già con un’occhiata. Però poi dovettero cedere all’aggressività verbale delle mogli, che finalmente cantarono vittoria. Le più scatenate non eran tanto quelle che avevano sopportato nel letto mariti svuotati d’ogni voglia, quanto le cuciniere accanite che sapevano le pietanze di Mary preferite da sempre ai loro piatti. Infine il velenoso lavorìo dette i suoi frutti e la Trippona fu per tutti la mantide insaziabile che in mancanza di meglio si stava spolpando un tenero uccellino, un’avida mignotta che tentava d’intortarselo per mettere le mani sulla sua fortuna.

Nella trattoria più deserta che mai quel giorno Mary cercava di non perder l’ottimismo. Pim seguitava a consigliarla di vendere tutto e trasferirsi nel suo casone grande e vuoto, per aver con sé l’unica persona amica e la cuciniera più impagabile.

In piazza si facevano i falò, spettri di fiamme rossastre rischiaravano il crepuscolo. Un gruppo invasato capeggiato dalle mogli si eccitò gridando “alla trattoria! alla trattoria!”.

Mary stava stappando una bottiglia per far l’ennesimo brindisi con Pim quando sentì l’avvicinarsi del frastuono. Non ci fu neppure il tempo di pensare, gli scalmanati sfondarono la porta irruppero nel locale appiccicarono il fuoco e poi scapparono vigliaccamente. L’edificio avvampò e divenne un rogo, Mary vide crollare tutto ciò che possedeva e che era stato tutta la sua vita. Pim la obbligò a uscir da quell’inferno, come un automa lei lo seguì ma poi tornò dentro tentando di salvar qualcosa. Le macerie ardenti la respinsero bruciacchiandole le vesti e le carni e Mary cadde a terra svenuta. Con fatica immensa Pim corse a soccorrerla riuscendo a trascinarla sulla strada, poi anche i suoi occhi gialli di gatto si velarono e precipitò nel nulla.

Quando rinvenne, Mary era china su di lui. Sorrideva stringendogli le mani, gli doveva la vita ma mai si seppe chi li condusse a casa e li curò.

Un tempo indefinito passò da quel momento, sospeso su flutti di memoria. Infine Pim si risvegliò trovandosi soffice e leggero, con Alabina che si divertiva a intrecciar la coda con la sua… La coda! Allora guardò nello specchio e vide due micioni amorosi così stretti l’un l’altro da sembrare un corpo solo.

Sopraggiunse Mary con un vassoio colmo di golosità, topolini cicciosi preparati con una speciale ricetta creata apposta da lei per festeggiare.

Ed ecco che fu spiegato il senso della frase scritta da Nigo con saggezza sorprendente: Pim aveva salvato Mary dalle fiamme e il gesto eroico gli aveva ridato la sua vera natura di gatto, tale e quale com’era stato nella sua vita precedente.

Ma l’ozio ben pasciuto e le comodità portarono alla noia, così Pim e Alabina se la svignarono in cerca di nuove avventure, e non tornarono più. Mary non ne fu sorpresa, erano due bestie e le bestie non possono sacrificarsi a vivere da umani.

Cominciò la leggenda, c’era chi diceva d’averli visti volteggiare sulle tegole del casone, o sul campanile della chiesa e persino sulle nuvole, ma nessuno seppe mai la verità. Di notte risuonava spesso un miagolìo così acuto che sembrava venir dalle profondità abissali della terra, e in effetti veniva proprio di laggiù.

Le foglie nel canneto

non cambiano colore

le grasse cuciniere

non mutano l’ardore

 

Mary la Trippona restò così la sola proprietaria d’ogni avere dell’amico Pim, e a modo suo ne fece buon uso. Ma non sapendo fare la signora, sfaccendava per non perder l’abitudine e cucinava per i mendicanti.

La trattoria le mancava, e le mancavano soprattutto gli avventori.

Un giorno che vide uno di loro passare sotto casa, dalla finestra lo invitò e quello non si fece pregare. Fu una rimpatriata formidabile a cui ne seguirono altre, finché tutti i vecchi clienti della trattoria la sera tornarono dalla Trippona a far bisboccia. Se li ripassò tutti a uno a uno, e a nulla valsero le proteste delle mogli.

Il suo corpo molle tornò a essere palestra per ogni esibizione e poiché molti di loro erano anche i suoi mezzadri, spesso dal suo letto passavano direttamente ai poderi in una vitale girandola di cibo di sesso e d’operosità. Però non raccontò mai a nessuno la vera storia di Pim, nemmeno quando li sentiva galoppare su di sé. Era un segreto che si sarebbe portato nella tomba.

Passò il tempo, Mary aveva sempre meno forze e morivano poco alla volta i suoi compagni d’avventura. Gli sfaccendati giovincelli del paese s’aspettavano prima o poi la chiamata, e lei scelse quelli che le riempivan gli occhi maggiormente. Cominciò così una stagione tutta nuova, Mary si ringalluzzì e parve ringiovanire. Il giorno i ragazzi badavano ai suoi campi e a turno poi restavano la notte, tutti d’amore e d’accordo. Le proteste delle fidanzate rimpiazzarono quelle delle loro madri, e fra gelosie e arrabbiature tutto procedette secondo le vecchie abitudini.

Mary la Trippona campò quasi cent’anni, e si godette la vita fino all’ultima goccia.

 

Si ringrazia Micaela Lazzari per l’editing.

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