Il circolo odioso del trauma

 

Nel vasto e variegato catalogo degli orrori che si sono consumati all’ombra del Vesuvio, i comportamenti violenti sembrano, ormai, divenuti opzioni regolarizzate in una mutua e inesorabile accettazione culturale generalizzata per larghi settori sociali, economici e culturali del napoletano. Napoli sembra essere un esempio della civiltà del trauma in cui, sembra, stiamo vivendo.

La vita di fasce non trascurabili di napoletani sembra essere un continuo confrontarsi con diversi vissuti da trauma che arrivano poi a motivare scelte sociali e atteggiamenti psicologici. Un continuum che va dall’accettazione più meno passiva ad esibizione di aggressività.

Il trauma di questa città non è rintracciabile direttamente ma sempre nelle conseguenze che produce la sua difficile gestione e fa pensare che il nocciolo si trovi nel legame non facile con ciò che è materno, amorevole, protettivo, premuroso, sollecito, tenero. Ma qui sarebbe lungo parlarne. Il vissuto traumatico mal governato produce frustrazione e finisce per costruire personalità aggressive, violente, capaci di gestire il rapporto con il prossimo esibendo la prepotenza come cifra della propria personalità.

Accade poi che si interiorizzino comportamenti che si ritengono contrari alle proprie convinzioni a causa dell’impatto della violenza sulla psiche, talmente dirompente da non essere amministrabile se non con la resa più o meno incondizionata. Si cerca di trovare, di discernere, di determinare rapporti logici e di formulare giudizi giustificativi del comportamento violento pur di evitarne le conseguenze psicologiche insopportabili.

Spesso i comportamenti sociali esteriorizzati delle persone risultano essere accondiscendenti, giustificativi al limite della connivenza con i comportamenti violenti e arroganti per pura logica di conservazione di sé e delle proprie cose, ipotizzando se stessi come l’unica cosa che vale la pena salvare. Questa posizione produce inevitabilmente comportamenti antisociali generalizzati che arrivano fino a negare l’esistenza di una comunità di persone con gli stessi diritti e doveri rispetto al dovere di cura e di sollecitudine.

Comportamenti che portano a giustificare più o meno indirettamente le ragioni del carnefice a discapito di quelle della vittima “poverino lui che ci capitato certe cose però le deve sapere” credendo di potersi salvare da soli appoggiandosi al carnefice. Un esempio? Dare i soldi al parcheggiatore abusivo.

I riflessi di questo circolo vizioso sui livelli economici e culturali non sono difficili da immaginare. Limitandoci qui a quello culturale, come non vedere una propensione alla giustificazione del camorrista buono in buona parte del filone musicale neomelodico, o come non evidenziare a livello teatrale il filone della Sceneggiata e sue varianti, con qualche significativo esempio nel teatro alto.

In questi filoni culturali viene riproposto un odioso teorema secondo cui tutto ciò che difende l’onore o contribuisce a portare il pane a casa è giustificabile e al fine legittimo, chi non concede o ostacola il necessario per vivere, o offende l’onore, sta dalla parte sbagliata. In quest’ottica è chiaro che dicotomie come legale/illegale o violenza/mitezza vengono coniugate in maniera superficiale se non in modo del tutto irrilevante. Chi vive a Napoli ha quotidianamente esperienze di questo tipo di circolo odioso che prende le persone come in un gorgo e fa ritenere “normale” l’anomalo.

Gestire il trauma richiede una volontà attiva perché non è un comportamento preteso come atteggiamento di fondo in larghe fasce sociali.

Anzi uno spazio collettivo è occupato ormai da troppo tempo da una sottocultura oggi molto potente che vive del disturbo del trauma.

In esso uno spazio psicologico e sociale rilevante è quello occupato dai clan della camorra, che con le loro guerre e i loro affari hanno provocato centinaia e centinaia di morti. Un moloch che sembra autoalimentarsi fagocitando troppe biografie che hanno la ventura di nascere in certi quartieri di queste terre, in certe famiglie di questa comunità, accuditi da certi genitori, educati dalle insufficienti forze delle agenzie preposte.

Napoli è una città dai troppi volti, si è detto tante volte, in tanti convegni, in tanti libri, senza distinzioni sociali né geografiche, dalle strade eleganti che danno sui vicoli emarginati, dai quartieri dei ricchi e dai rioni dei poveracci, dai palazzi della politica e dalle stanze del potere. Un continuum circolare di rimandi liquidi impalpabili ma dirompenti.

Mi chiedo se Napoli non sia un esempio estremo di contemporaneità in cui il bisogno del singolo, il bene dell’individuo, è la misura di tutto.

Nascere, crescere e vivere a Napoli e provincia significa troppo spesso trovarsi a scegliere senza libertà su quale binario far correre la propria biografia, e lo si fa scegliendo di volta in volta e in base alle offerte migliori.

Impegnare la propria coscienza su quello legale, e su quello che implica l’accudimento reciproco, risulta essere troppo rigido per soddisfare i propri fluidi bisogni/desideri e soprattutto per calmare le proprie incontenibili paure. È più utile una continua fuga da un trauma all’altro, da un binario all’altro, sorvolando le contraddizioni; e senza quasi accorgersene si interiorizzano stili di vita che fanno di ognuno un essere armato contro l’altro.

Roberto Iannucci

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2 Replies to “Il circolo odioso del trauma”

  1. Questa è una lettura. Vera. In modo molto più spiccio, ho sempre ritenuto che l'uomo deve sentirsi protetto : quando non lo fanno il quartiere,il comune, la regione,lo stato, le istituzioni si consacra l'organizzazione malavitosa che, ormai da decenni sdoganata dal ruolo di protezione "paterna"- vedi antichi ruoli della camorra- oggi agisce come "istituzione" unica sul territorio. Territorio che cinquant'anni e più di governi, che hanno puntualmente ignorato i princìpi del welfare,hanno semplicemente ceduto alla malavita per necessità di voto. Oggi stato e camorra proteggono solo se stessi ed i cittadini faticano a proteggersi da loro…

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