Appunti di scrittura creativa (n. 9)

Il lettore che cosa vuole da un libro? Tu che cosa pensi? Non pensare a un lettore generico, ma a ciò che senti tu, poiché prima ancora di essere uno scrittore (o scrittrice) o aspirante tale, sei sicuramente un lettore o quanto meno dovresti esserlo.

Allora, cosa vuoi da un libro? Probabilmente risponderai che vuoi delle emozioni, qualcosa che ti prenda e non ti lasci andar via, qualcosa di cui vuoi sapere come va a finire, che ti fa battere il cuore oppure spaventare, intrigare, sorprendere o incuriosire. Quello che è certo, è che non vuoi una storia banale.

In fin dei conti la letteratura è un buon modo per sperimentare cose altresì impossibili, provare a mettersi nei panni di chi conduce una vita molto diversa dalla nostra: un assassino, ad esempio, un detective, uno scienziato, un extraterrestre o una modella. Oppure possiamo aver voglia di ritrovare qualcosa che ci è appartenuto, come l’adolescenza o l’innamoramento, la delusione d’amore o l’avventura.

Quello che sicuramente non vogliamo è che ci venga raccontata una storia ordinaria, senza colpi di scena, senza conflitti di alcun genere; il motivo è che quando leggiamo un racconto in un libro, abbiamo voglia di credere.

Ho davanti a me “La fattoria degli animali” di G. Orwell. Devo leggere l’ultima pagina, ieri notte ci stavo provando, ma sono crollato. In fin dei conti erano le quattro del mattino e solo un paio d’ore prima avevo rischiato di morire: un’automobile non si è fermata al rosso e mi è piombata addosso. Per fortuna me la sono cavata solo con qualche contusione. Volevo leggere le ultime pagine del racconto di Orwell, ma la stanchezza è stata più forte della volontà, il fatto è che credevo e credo tutt’ora che quell’ultima pagina celi qualcosa, anzi ora sapete che cosa faccio? Apro il libro e mi tolgo il pensiero.

È vero ciò che ho scritto? Ci avete creduto? Forse sì o forse no; in ogni caso siete disposti a farlo, condividete questa innocua finzione, non vi turba e lo fate ogni qual volta iniziate a leggere un libro: siete disposti a credere. È un po’ quello che accade con i film, sapete benissimo che si tratta di finzione, che ci sono delle telecamere, degli effetti prodotti da un computer, che nessuno verrà ucciso davvero, che si tratta di attori su un set cinematografico. Eppure soffrite se il protagonista è nei guai, avete paura se la storia parla di mostri che scoperchiano tombe, piangete se si parla di sentimenti forti. Avete scelto di credere.

Attenzione però, siamo disposti a credere, ma non a lasciarci fregare, niente trucchi da quattro soldi come disse Geoffrey Wolff a un gruppo di aspiranti scrittori.

Quando si scrive di qualcuno o qualcosa, è necessario conoscere tutto dell’universo in cui vive o esiste l’oggetto della nostra scrittura. Ad esempio: «L’inverno aveva dipinto di grigio quel giovedì pomeriggio, Luca guardò l’orologio: erano le 15.35 e Laura era già una buona mezzora in ritardo, ma lui l’avrebbe aspettata anche per tutta la vita, se solo fosse stato necessario.»

Chiediamoci: «Sì, ma che mestiere faceva il tipo? E la tipa? E che giorno era che si sono visti? E come mai il giovedì alle tre del pomeriggio tutti e due erano liberi dal lavoro? E lui com’era vestito? E porta i calzini lunghi o corti? E come ci è andato all’appuntamento, in automobile o in tram? E quale tram ha preso? E i biglietti ce li aveva in tasca o ha dovuto comperarli? E così via. Attacco delle pezze spaventose. Questa mia ossessione per i cosiddetti particolari (ma a me non sembra un particolare, sapere di che cosa campa, che cosa fa per otto ore al giorno, un personaggio) fa sì che io abbia la fama di quello che ci ha la fissazione del realismo.» (da “Farsi credere”, Giulio Mozzi).

Un sabato mattina, come di solito, ero in libreria perso tra gli scaffali, ipnotizzato da migliaia di titoli. Prendevo un libro, ne posavo un altro, sfogliavo pagine a caso nella speranza di trovare qualcosa che mi rapisse all’istante.

Lo trovai in uno degli incipit più folgoranti che ricordi:

«Per fortuna era solo un sogno. Non era nuda. E le sue gambe non erano legate a quel lettino ginecologico antidiluviano, mentre il passo metteva in ordine gli strumenti su un carrello arrugginito. Poi si voltò e sulle prime non riconobbe cosa teneva nella mano incrostata di sangue. Appena lo vide, volle chiudere gli occhi ma non ci riuscì.

«Non poteva distogliere lo sguardo dal saldatore incandescente che si avvicinava lentamente al suo corpo. Lo sconosciuto con il viso ustionato le aveva sollevato le palpebre fissandole alle orbite con una spara chiodi ad aria compressa. Pensò che non avrebbe mai provato un dolore più grande nel poco tempo che le restava da vivere. Tuttavia, quando il saldatore sparì dal suo campo visivo e avvertì un calore sempre più intenso tra le gambe, si rese conto che il supplizio delle ultime ore era stato solo un assaggio.

«Poi, nell’istante in cui credette di sentire l’odore della carne bruciata, ogni cosa diventò evanescente. […] Grazie a Dio era solo un sogno, pensò. Aprì gli occhi. E non capì.[…]»

La donna poi si ritrova circondata da poliziotti, lei è cosciente, ma gli agenti la credono forse morta, forse in coma, lei prova a parlare ma non le riesce. Nella mano stringe un biglietto, è un indovinello.

Venti minuti dopo ero sulla mia bella poltrona a leggere con accanimento il libro; la storia prometteva bene, ci stavo credendo.

Cinquanta pagine più avanti avevo però capito che c’era il trucco, l’autore stava usando degli stratagemmi ed io li stavo vedendo, guardavo il matrix del libro ed è come se nella scena clou di un film s’intravede il microfono o si vede una telecamera riflessa in uno specchio: non credi più. L’autore del romanzo cerca di tenerti incollato provando a creare continui stati emotivi e di tensione, ma alla lunga stanca. Architetta una trama a tavolino, prevedendo ogni passo e finisce per farlo prevedere anche al lettore. Fine del libro.

(Se volete leggere una bell’analisi di questo libro, vi consiglio quella di Tinos Andronicus che trovate a pagina 3 di questa discussione: Lab. di lettura comune “Il ladro di anime”).

Se voglio essere creduto devo essere credibile. Semplice tautologia. Tuttavia non devo mostrare di esserlo a tutti i costi, altrimenti il lettore s’insospettisce. Se so che la donna che sto conquistando ama la sincerità, non devo cercare di essere sincero in ogni modo, se ne accorgerebbe e inizierebbe a sospettare che tutto questo mio modo di essere non è altro che un’impalcatura. Nella seduzione non vince chi mostra tutta la merce, ma chi lascia immaginare tutta la merce che ha a disposizione.

Scrivere per essere letti ha a che fare con la seduzione e l’amore, ha a che fare con la fascinazione, la magia che lega il lettore alle pagine del libro. La seduzione presuppone un lento svelamento dei fatti, presuppone voglia di sapere, desiderio di credere e riempire le zone d’ombra dell’altro (in questo caso il libro) con la propria immaginazione. Ecco perché è necessario non svelarsi subito, non far comprendere immediatamente. Di contro non bisogna cadere nella tentazione d’imbrogliare il lettore, fornendo indizi, cose o situazioni che non hanno nulla a che fare con ciò che poi accadrà. Non bisogna abusare della pazienza del lettore o della sua voglia di credere in ciò che sta leggendo.

Questo vuol dire che bisogna tenere bene sotto controllo ciò che si sta scrivendo: i luoghi, i tempi, la cronologia degli eventi, la credibilità di ciò che accade. In questo modo si evita che il lettore smetta di leggere ed esclami: “Ma dai! Questa cosa non è possibile!” oppure “Uno così non reagirebbe mai in questo modo!”.

La narrazione, gli eventi, i personaggi con i loro caratteri, il loro mestiere, le loro eventuali ambizioni o desideri, tutto deve passare attraverso le fitte maglie della coerenza.

È la coerenza rispetto a ciò che si sta proponendo che rende credibile ciò che poi si leggerà.

Se la storia che state raccontando è inventata, come accade nella maggior parte delle volte, vuol dire che state raccontando una bugia. Ogni scrittore in fondo è un bugiardo. Non racconta quasi mai la verità, ma solo perché la Verità non esiste mai davvero o, quanto meno, non è qualcosa di concreto e unico. Per questo motivo una cosa si racconta e un’altra no; ma se bisogna raccontare anche solo una bugia, bisogna farlo con il massimo dell’onestà e senza barare con il lettore. Questo vuol dire essere credibili, ma non basta. C’è un altro aspetto da tenere presente: se raccontate una bugia, dovete saperla lunga, non dovete mai cadere in contraddizione, dovete avere memoria del flusso narrativo, dei suoi eventi, delle parole dette dai personaggi, di ciò che hanno fatto, della coerenza delle loro azioni con le caratteristiche della loro personalità, del lavoro che fanno, delle passioni che hanno, dovete conoscere il loro passato, le loro aspettative per il futuro, ricordare con precisione le relazioni che hanno avuto con gli altri personaggi della vostra storia. In altre parole non vi devono sfuggire i particolari.

Se il vostro personaggio è un esperto di automobili, non potete dire al lettore che la sua auto sta cacciando fumo bianco perché ha appena rotto l’alternatore. Se il vostro personaggio è un esperto d’auto, dovete esserlo anche voi o provare a diventarlo. Se la vostra storia è ambientata in un monastero del medioevo, dovete sapere tutto dei monasteri nel medioevo: come erano fatti, quali erano i componenti di arredo, come si mangiava, cosa si cucinava, a che ora ci si svegliava, quali erano le mansioni e via discorrendo.

Dovete sapere tutto della scena che state descrivendo, anche se alla fine non scriverete di tutto.

Se il vostro personaggio è seduto sul letto e improvvisamente gli squilla il telefono, dovete sapere precisamente cose tipo: che ora è? che tempo c’è fuori? la stanza ha una finestra o un balcone? Entra la luce o no? Il tizio è solo? Ha la radio o la televisione accesa? Che suoneria ha? Ha la vibrazione? È scalzo? È nudo? È vestito? A terra ha la moquette? Il parquet? Le maioliche? È allegro? Nervoso? Ansioso? Assonnato? Ben sveglio?

Non c’è bisogno che al lettore forniate tutte queste informazioni, ma è bene che voi sappiate tutto ciò, perché tutto ciò può condizionare alcune delle azioni che il vostro personaggio farà o non farà. Nel possibile dovete avere chiari tutti i punti di vista della scena e quindi sceglierne uno, magari il meno ovvio. Questo vuol dire saperla lunga, questo vuol dire saper raccontare una bugia che sappia di verità.

Alla prossima.

 


 

 

Riassunto degli appunti precedenti:

  • Si scrive per raccontare qualcosa.
  • Questo qualcosa deve valere la pena di essere raccontato e poi letto.
  • Evitiamo, ad esempio, le pesantezze stilistiche o i sermoni.
  • Scegliamo un linguaggio immediato, quotidiano e diretto.
  • Impariamo a scrivere tutti i giorni.
  • Scegliamo con attenzione: il luogo, il periodo storico, un personaggio principale, un’idea forte come filo conduttore del nostro romanzo.
  • Caratterizziamo con chiarezza i personaggi principali.
  • Riduciamo al minimo i dialoghi e manteniamoli variegati nello stile.
  • Cerchiamo di essere quanto più veri nella finzione: la verità emotiva.
  • Il lettore vuole leggere di un “conflitto” e vedere come va a finire.
  • Pensate ai dettagli dell’universo che state costruendo.
  • Curate il vostro linguaggio, le parole sono tutto quello che abbiamo.
  • L’incipit è il primo battito del nostro racconto e deve immediatamente sedurre il lettore.
  • Diffidate dalle trame bel congegnate, a meno che non stiate scrivendo un giallo, date margine alla storia di svilupparsi da sola.
  • Le migliori storie nascono da “situazioni” e le situazioni si sviluppano da un “se”: e se un cane idrofobo bloccasse tizio in casa sua?
Massimo Petrucci
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