Appunti di scrittura creativa (n. 4)

Scrittura creativa

Come negli sceneggiati di una volta, ecco il riassunto delle puntate precedenti:

  • Si scrive per raccontare qualcosa.
  • Questo qualcosa deve valere la pena di essere raccontato e poi letto.
  • Evitiamo, ad esempio, le pesantezze stilistiche o i sermoni.
  • Scegliamo un linguaggio immediato, quotidiano e diretto.
  • Impariamo a scrivere tutti i giorni.

Ci siamo? Proseguiamo.

I più credono che uno scrittore abbia nella mente tutto il racconto con chiarezza, punto per punto. È pura fantasia, probabilmente ha un che di vero se si sta progettando un giallo, ma per gli altri tipi di romanzo o racconti, le cose vanno diversamente.

Roberto Cotroneo parla di svelamento di sé ovvero che la scrittura è un processo attraverso il quale raccontiamo di noi (svelandoci) agli altri; contemporaneamente, tale processo ci porta a comprendere anche nuovi aspetti di noi stessi. Da questa doppia interazione (o svelamento) prende forma la trama narrativa, la quale, a un certo punto della storia, può anche decidere per direzioni inaspettate.

Umberto Eco, raccontando di come gli fosse venuta l’idea de “Il nome della rosa”, disse semplicemente: “Avevo voglia di avvelenare un monaco” (Postilla su “Alfabeta” n. 49 del giugno 1983). Questo è tutto ciò con il quale il semiologo ha approcciato uno dei più grandi romanzi contemporanei italiani. Sicuramente Umberto Eco non si è seduto al computer e si è messo a scrivere dal nulla, non lui che è un perfezionista, tanto è vero che nel romanzo ci sono dettagli che rasentano la maniacalità. Tuttavia l’idea iniziale si sintetizza in un concetto molto semplice, in una frase.

Questa è una cosa a cui dobbiamo prestare attenzione: è un aspetto molto importante riuscire a sintetizzare in una frase l’idea di base del nostro romanzo o racconto, perché vuol dire che almeno abbiamo chiara la base fondante del nostro lavoro. V’invito a sintetizzare il vostro romanzo o racconto, sul quale state lavorando, in una frase. Se ci riuscite, allora siete partiti con il piede giusto.

Stephen King, a chi gli chiede come nascono i suoi romanzi, spiega che parte sempre da una domanda: “Che cosa accadrebbe se un grosso sanbernardo diventasse idrofobo e si mettesse ad attaccare le persone per strada?”, “Cosa accadrebbe se mentre fai sesso legato al letto, il tuo partner muore?” e via con altre domande.

Si parte da un’idea semplice e poi ci si lascia andare, sviluppando la storia pagina dopo pagina. Le uniche cose che bisogna fissare sono: il luogo, il periodo storico, un personaggio principale, un’idea forte come filo conduttore.

Nel corso della scrittura può capitare che ci si accorga che la storia sta prendendo pieghe che non abbiamo valutato, pensato o immaginato. Continuate! A un certo punto la “vera” storia si svelerà prima di tutto a voi e poi al lettore. Ricordate il “fuori tema” degli incontri precedenti? È il momento di seguirlo, perché potrebbe portarvi verso una storia che sorprenderà prima di tutto voi stessi e, di conseguenza, i vostri lettori.

Facciamo un esempio: vogliamo scrivere una storia di certi ragazzini che rimangono da soli su un’isola deserta dopo un naufragio. Qual è il luogo? Un’isola deserta, immaginiamola in un luogo caldo. Il tempo? È quello moderno: accade ora.

Ora possiamo chiederci perché ci siano tutti ‘sti ragazzini salvi e invece siano morti tutti gli adulti. Allora immaginiamo che erano in gita con la scuola, oppure che appartenevano a un college. Tristemente, durante il naufragio, hanno perso la vita il professore, che li accompagnava, e i pochi membri dell’equipaggio. Ecco, ora abbiamo avuto ciò che volevamo: dei ragazzini, da soli, su un’isola deserta. (Vi ricorda qualcosa?)

Avete un’idea, un posto, il tempo e i personaggi. Già da questi elementi potete partire con la stesura del vostro romanzo o racconto. Negli incontri precedenti abbiamo detto che oltre al genio, ci vuole la tecnica, vediamo allora alcuni aspetti puramente tecnici.

I personaggi – A volte si leggono storie dove i personaggi restano fumosi, poco identificati, che si dimenticano facilmente, perfino mentre si sta leggendo. Il motivo è che l’autore ha prestato poca attenzione alla loro caratterizzazione. È chiaro che non possiamo pretendere di caratterizzare approfonditamente tutti i personaggi della storia, ma almeno quelli principali dobbiamo tratteggiarli nel modo più efficace possibile. Non è soltanto una questione stilistica, poiché un personaggio ben delineato, con un carattere definito, con una certa fisicità, inizierà anche a “muoversi” nella storia in modo “autonomo”.

Sapere che il personaggio X è un tipo collerico, che perde subito la pazienza, ci aiuterà nel momento in cui dobbiamo farlo interagire con l’universo che stiamo creando. Cosa accade se rimane bloccato nel traffico? Se in fila all’ufficio postale gli passano avanti, come reagirà? Se Y è un personaggio con una psicologia complicata, problematica, che cosa gli succederà se ha un appuntamento importante? Che viso avrà? Che pensieri farà? Che reazioni potrà avere se non si è accorto di aver appena superato uno che era prima di lui in fila all’ufficio postale e che gli sta ringhiando contro?

Se il personaggio K ha una deformazione alla gamba destra per cui è costretto a zoppicare, che cosa accadrà se improvvisamente l’ufficio postale va a fuoco? E se Y lo vuole aiutare? Se X resta bloccato sotto il peso di K che gli è caduto addosso? Come reagiranno i vari personaggi? Come si muoveranno?

Se a chiamare aiuto è X, quale sarà il suo modo di parlare? E se invece a chiedere aiuto è Y? Cambierà certamente il modo con il quale chiederà aiuto. Ecco che la narrazione si dipinge di diversi colori, si vivacizza, diventa più vera. Non c’è cosa più noiosa che leggere di personaggi tutti più o meno simili, tutti con lo stesso modo di parlare, tutti con lo stesso slang.

È bene caratterizzare i propri personaggi, iniziando da quello principale: il protagonista.

I dialoghi – Sono una cosa difficile, ridurli al minimo è un buon modo di lavorare, almeno all’inizio. Tanto per cominciare c’è una regola mai scritta che suona più o meno così: se sono troppo veri, non funzionano. Sembra un controsenso vero? Eppure se sbobinate una conversazione e poi la mettete per iscritto, a chi la leggerà sembrerà strana. Purtroppo siamo abituati ai ritmi e allo stile cinematografico, siamo “addomesticati” a sentire o leggere un certo modo di dialogare.

È chiaro che bisogna trovare il giusto equilibrio tra la realtà e la finzione. Diversamente si finisce nella noia o nel grottesco.

Prendete una fiction qualsiasi, italiana o straniera, e analizzatene i dialoghi. Avete mai parlato così? Sentite gente per strada parlare sempre in quel modo? Con quei ritmi? Probabilmente no, non per tutto, almeno.

Qualche esempio – immaginate di aver attraversato una guerra, visto morire gente, amato e sofferto. La donna che amavate, che fino a quel momento proprio non vi filava di striscio, comprende di amarvi, che siete ciò che lei cercava e vi chiede, con occhi lucidi di passione: “Che cosa farai domani?” e voi, alzando un sopracciglio rispondete: “Francamente, mia cara, me ne infischio!”. Vi prego, ditemi, è verosimile? Eppure non si sa se a essere più famosa è la frase o il film (Via col vento).

Sentite questa, tratta da “A perfect world”:

Red Garnet: Li avete circondati?
Sceriffo: Li teniamo stretti come nella fica di una ranocchia.
Sally: Immagino che parli per esperienza personale.

Difficilmente ascolteremmo uno scambio simile nella realtà, però nella fiction funziona, a chi ascolta non sembra una cosa irreale. Però non dobbiamo esagerare, dobbiamo sempre considerare con attenzione ciò che sta accadendo attorno ai personaggi.

Gli stili di dialogo che normalmente s’incontrano nella lettura sono:

  • Brevi e veloci
  • Rari
  • Molto lunghi e con ampie riflessioni
  • Variegato nella lingua
  • Omogeneo e poco diversificato nello stile espressivo

Se proprio non possono essere rari, meglio che siano brevi e veloci, altrimenti è auspicabile che i vostri dialoghi siano almeno variegati. In uno stile variegato, il commissario parlerà in un modo, il malvivente in un altro, il modo di parlare di un professore universitario sarà diverso dal modo di parlare di un suo studente.  Sarà ancora diverso quando lo studente parlerà con la sua ragazza. In fin dei conti lo facciamo anche noi nella vita reale: adattiamo il nostro modo di parlare secondo il nostro interlocutore. Eppure in molti romanzi si legge di gente che parla sempre e comunque allo stesso modo. Noioso.

Un altro aspetto importante è il contesto: i dialoghi mutano non solo da persona a persona, ma anche da contesto a contesto.

Non è raro leggere qualcosa del tipo:

“Ciao Marzio”
“Ciao Osvaldo”
“Come va?”
“Bene”
“Noti qualcosa?”
“Sì, c’è il terremoto”
“Davvero? Credo che dovremmo scappare via, amico mio”
“Ti riferisci al probabile crollo di questo vecchio edificio?”
“Certamente. Io inizio a scappare, mi segui?”
“Ti seguo e ti supero, amico mio!”

Se stiamo scrivendo una cosa comica, allora va bene, ma se stiamo scrivendo di “realtà quotidiana” allora siamo fuori strada. Nel mio esempio ho esasperato il concetto, ma non è raro leggere di gente ferita a morte, che prima di passare a miglior vita, ci lascia un sermone di due pagine!

Immaginate che il vostro personaggio stia scappando insieme alla ragazza. Li stanno inseguendo e vogliono ucciderli.

Lei: “Ci inseguono! Che cosa possiamo fare?”
Lui: “Dobbiamo seminarli se vogliamo salva la vita, credo che sia meglio entrare in questo palazzo!”
Lei: “Sì hai ragione, qui non ci troveranno”

È verosimile? I due stanno scappando, sono spaventati, magari hanno il fiatone. Non è normale che possano dire frasi così lunghe e lucide, forse sarebbe più veritiero qualcosa di simile:

Lei: “Ci inseguono!”
Lui: “Entra qui!”

Non c’è neanche bisogno che lei risponda “sì”, si capisce che lo seguirà.

Siate veri nella finzione. È necessario che la scena sia verosimile se vogliamo che il lettore creda in ciò che legge. Altrimenti è come vedere le telecamere durante una scena di un film di paura: si perde tutto il pathos!

Ogni scrittore è in fondo un bugiardo, non racconta quasi mai la verità, ma se bisogna raccontare anche solo una bugia, bisogna farlo con il massimo dell’onestà, senza barare con il lettore, così da essere credibili. Quello che bisogna fare, come dice Zafon, è cercare la “verità emotiva” ovvero la sincerità all’interno della finzione. La verità emotiva non è una qualità morale, è una tecnica, è mestiere.

Se avete commenti, avrò piacere di leggerli.

Alla prossima settimana.

Massimo Petrucci
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2 Replies to “Appunti di scrittura creativa (n. 4)”

  1. Seguo con molto interesse, ma con ritmo discontinuo. Non riesco a darmi una disciplina, ma è un difetto che cercherò di correggere. Così, oggi ho recuperato un po' di lezioni arretrate e preso appunti. Le tue note sono chiare e facilmente assimilabili, e le tue sintesi sono preziose. Ti linko al mio blog, così avrò un motivo in più per fare una capatina qui ogni lunedì.

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