di Beatrice Nefertiti
Mi presento. Mi chiamo Merlino, e sono l’ultimo gatto libero del quartiere. Sono un ronin, un samurai senza padrone, un guerriero errante. Una volta eravamo in tanti, vivevamo in questo vecchio mercato dove gli ambulanti non ci negavano mai un po’ di cibo e il rifugio non mancava tra le vecchie case con le ampie cantine. Poi abbiamo cominciato a sparire. Tutti. Le vecchie case e le ampie cantine sono state “ristrutturate”, abbattute, rifatte, suddivise in locali così piccoli da ospitare soltanto persone sole, poi sono rimaste vuote, sprangate. Nessuno ci è andato a vivere. Gli ambulanti invecchiano e lasciano l’attività, che non regge la concorrenza con gli iper-super-mega centri commerciali dove vendono la verdura radioattiva, ma alla gente piace così. E noi gatti stiamo sparendo, uno dopo l’altro. Qualcuno è stato avvelenato, qualcuno mangiato, qualcuno investito da una di quelle stupide auto che hanno fretta anche nei vicoli stretti di una vecchia città. Così anche noi ci stiamo estinguendo, come tutto ciò che profuma di bello, di libertà e di indipendenza.
Ma io sono ancora vivo. E mi godo la vita. La mattina saluto il nuovo giorno con un bello sbadiglio e una stirata regolamentare, mi toeletto, e penso alla colazione. C’è un banco del pesce dove mi conoscono e non mi negano mai una carezza e una sardina. Dopo colazione ho tante cose da fare: prima di tutto una bella pisciata sulla vetrina della parrucchiera, che se la tira tanto ma non sa di essere anche lei in via di estinzione. Poi un giro tra i banchi, qualcuno deve pur ispezionare la merce. Infine una bella rissa con Filippo, il gatto del mercato. Poi uno spuntino, un riposino, un giretto… Quando si ha tanto da fare le giornate volano.
Ma ve l’ho detto, io sono un guerriero errante, e come tale devo dedicarmi anche alle imprese disperate. Così ho deciso di adottare un’umana. Povera donna, mi faceva pena. Tutte le mattine la vedevo uscire di casa, sempre più afflitta, gobba, rattrappita, con la faccia di quelli che vanno all’ospedale. Però non capivo, di solito gli umani all’ospedale ci vanno in ambulanza, conosco bene quei mostri urlanti dalle ruote voraci, invece questa donna si dirigeva a piedi tutte le mattine verso il centro. Non ci sono ospedali in centro. Voi lo capite, dovevo fare qualcosa per lei, il mio animo di samurai me lo imponeva.
Ho cominciato ad aspettarla al mattino all’angolo della strada. L’ho studiata, è una donna triste, emana odore di solitudine, ma ancora non puzza di acidità, non è del tutto morta dentro, e in genere a questo tipo di umani piacciono i gatti. Mi sono permesso un po’ di familiarità, un meorwww sommesso, una strizzatina d’occhi, e l’ho vista sorridere. Ho notato che la mattina mi cercava con lo sguardo, e quando mi vedeva diventava più allegra. Dopo un po’ di tempo, sono arrivato addirittura a permetterle di accarezzarmi sulla testa, un immenso onore concesso da un fiero gatto samurai a un membro della razza umana così imperfetta, e lei ha apprezzato, mi ha ringraziato con uno di quei versetti che gli umani rivolgono a noi felini, sul tipo delle nostre fusa.
Sono diventato amico di questa donna di mezza età, così triste e dimessa, ho cominciato ad aspettarla anche quando tornava a casa, e un giorno l’ho vista addirittura piangere per la felicità quando mi ha scorto sulla finestra dell’angolo. Ho capito che le serve un gatto samurai, è il nostro compito, proteggere e consolare… Noi gatti siamo abitudinari, ma anche questa umana lo è, tutti i giorni fa le stesse cose. Io l’aspetto al mattino e l’accompagno per un po’ di strada, so a che ora rientra e la scorto fino a casa, non si sa mai che brutti incontri si possono fare. L’ho accompagnata anche dalla parrucchiera, perché non mi fido: ci ho tenuto a ispezionare personalmente il negozio, e annusare ogni angolo per essere certo che non ci fossero pericoli. Una sera li ho anche accompagnati in pizzeria, lei e suo marito. Anche lui è un uomo buono, come lei un po’ triste, taciturno e molto miope: potevo forse lasciarli attraversare la piazza da soli? Li ho anche aspettati fuori dalla pizzeria e riaccompagnati a casa, ci sono umani che hanno bisogno di una tutela da parte di un felino saggio e avveduto.
Una mattina mi sono svegliato con un fiero proposito, dovevo capire perché quella donna triste e dimessa ogni mattina si avviava verso il centro della città con la faccia del condannato a morte. Lei me lo ha detto, “Merlino, vado a lavorare” ma io sono un gatto, non so cosa significa. Ogni giorno la parrucchiera lava e taglia capelli, gli ambulanti vendono la loro merce sui banchi, il barista fa il caffè, il falegname ripara i mobili vecchi… Non lo so se questo si chiama “lavorare” ma non hanno una faccia così derelitta. Dunque mi sono chiesto: dove va questa donna per essere così afflitta? Forse qualcuno le fa del male? Dovevo saperlo, è il mio dovere di gatto samurai.
Questa mattina l’ho aspettata al solito posto, ma al confine del mio quartiere non sono tornato indietro, come mio solito: l’ho seguita. È la prima volta che oltrepasso i confini, ogni gatto ha il suo territorio, ma questo è un caso di emergenza. Sono un guerriero errante e devo essere coraggioso. Con la prudenza e l’astuzia del felino, l’ho seguita fino a un grande palazzo, dove l’ho vista entrare. Più si avvicinava a quel palazzo, più la mia amica si rattrappiva, si ingobbiva, si rimpiccioliva, i suoi passi diventavano più corti, esitanti, tremolanti: percepivo l’odore della sua rabbia e della sua paura. A questo punto, dovevo sapere, un gatto samurai ha il dovere di proteggere la sua umana in difficoltà.
Ho ispezionato i confini di quel palazzo finché ho trovato un’entrata nella botola di uno scantinato. Come sono riuscito ad intrufolarmi, ho capito che quel palazzo aveva assorbito tanto dolore nei secoli. Le pietre parlano, per noi gatti, assorbono l’odore di tutto quello che è successo nel tempo.
Ho sentito odore di sangue e di paura. Ho capito che in questo palazzo, nei secoli, tante persone sono state prigioniere, hanno subito torture, sono morte. Altre vi hanno governato con la malvagità e la ferocia. In tutta la mia vita da gatto errante, non avevo mai percepito tutto insieme un tale groviglio di paura, dolore, ferocia, rabbia, ingiustizia e impotenza come quello emanato dall’odore delle vecchie pietre. No, non era possibile, dovevo tirare la mia umana fuori da lì, o sarebbe morta.
Sono salito per una piccola scala che portava fuori dal sotterraneo, e subito mi è toccato nascondermi, perché ho sentito passi e voci di umani. Umani cattivi, non come la mia amica. Mi sono nascosto dietro uno strano armadio, e mi sono preparato ad un attento studio.
Gli umani mettevano soldi dentro questo armadio e in cambio ne ricevevano un bicchierino di caffè. Mentre cercavo di capire dove si nascondeva il barista, sentivo i loro discorsi. Quanta maldicenza, quanta cattiveria… Noi gatti ci scandalizziamo per queste cose. Ognuno di loro si lamentava della carriera e delle valutazioni, e mentre cercavo di capire se si tratta di malattie contagiose, arrivavano altri umani che parlavano male di quelli che se ne erano appena andati, e che magari avevano appena salutato con un abbraccio o una stretta di mano. Le donne erano tutte grasse, enormemente grasse, in bilico su vertiginosi tacchi a spillo che certo non donavano alle loro gambe a tronco, piene di vene varicose, e gli uomini erano tutti pelati e con la pancetta. Come sono brutti gli umani, non hanno ricevuto proprio nulla della grazia e dell’eleganza che la natura ha donato a noi felini. E si credono perfino una razza superiore…
Dopo diverse ore di studio e di osservazione, ho capito perché la mia umana non veniva a mettere i soldi nell’armadio del caffè: lei ha un odore diverso. Queste persone puzzavano di marcio, di meschinità, di squallore interiore, di morte dello spirito. La mia umana non è così, lei ha un profumo come di crisantemi, è triste ma non è ancora morta. Dovevo vederla. Ho preso il coraggio a quattro zampe e ho cominciato a ispezionare il tetro palazzo. Anche i corridoi mi spaventavano, altissimi, senza finestre, non si vedeva mai il cielo, ma io sono un gatto samurai e non mi deve mai mancare il coraggio. Davanti a ogni porta mi aiutavo coi baffi, ma percepivo soltanto l’odore marcio, fetido e velenoso di quegli umani morti dentro e purtroppo ancora in grado di camminare, parlare e farsi del male l’uno con l’altro. Finalmente, davanti a una porta ho percepito il familiare odore di crisantemi, ho allungato il muso e l’ho vista. La mia amica era china su un tavolo, piccola piccola, rattrappita come una mummia, e batteva con le dita su una tastiera. Mi sono accorto che le sue dita sono piegate dall’artrite: come farà a battere su quei tasti, poveretta? Chissà che male… Forse è per questo che sta piangendo dentro? Noi gatti ci accorgiamo di quando gli umani piangono, non abbiamo bisogno di vedere le lacrime: ci sono umani riservati e sensibili che piangono senza versare le lacrime all’esterno, per non farsi vedere. Le loro lacrime scorrono dentro l’anima. Noi gatti lo capiamo.
Mentre ero immerso in queste riflessioni, ho sentito alzarsi delle grida acutissime: due ciccione si sono messe a ballare una strana danza, come se le avesse morse un ragno velenoso, e urlavano “Un gatto! Un gatto!”. Beh, lo so che sono un gatto, non è una novità, non c’è bisogno di gridarlo al mondo… Attirato dalle urla, è accorso un uomo pelato con la pancetta, che ha cominciato a inveire “Che schifo! Un gatto! Bisogna chiamare il capufficio!”. Io non so che cos’è un capufficio, ma so per certo che un gatto non può fare schifo. Noi siamo creature perfette. Tutto questo trambusto è però servito a svegliare la mia umana dal suo torpore, e quando mi ha visto si è illuminata.
“Merlino, cosa ci fai qui?”
Sono subito saltato sulla sua scrivania, per farle scudo col mio corpo: ho capito finalmente tutto, la dovevo salvare. In quel momento ha fatto irruzione nella stanza il famoso “capufficio”, un uomo più brutto e più pelato degli altri, che ha apostrofato la mia amica umana con parole orribili.
“LEI… sempre lei! Anche le sue luride bestiacce in ufficio, adesso! Con le sue stravaganze, non ne possiamo più di lei! La farò trasferire, la farò licenziare, la farò… la farò…” ed era diventato così rosso e gonfio che le grida gli si strozzavano in gola. A quel punto ho visto la mia umana trasformarsi: ha raddrizzato le spalle, mi è sembrata perfino alta, il suo viso ha preso colore, e ha parlato, e pure a voce alta.
“VOI fate schifo, VOI siete luride bestiacce, VOI odiate i gatti perché siete solo dei disgustosi topi di fogna! VOI siete più ripugnanti dei pidocchi e delle cimici, e avete meno dignità di loro!” poi mi ha preso in braccio e mi ha condotto all’aperto, raccomandandomi di andare a casa, di stare attento alle macchine e di aspettarla al solito posto, alla solita ora.
È arrivata più afflitta del solito, doveva essere stata dura per lei quel giorno, dopo la mia improvvida apparizione. Mi sentivo in colpa per averla messa ancora di più nei guai, così ho deciso di metterla al corrente di uno dei miei segreti, e fornirle un talismano. Noi gatti abbiamo infinite risorse, e ci sono circostanze di emergenza in cui un gatto samurai, un guerriero errante, deve condividere un po’ dei suoi tesori con le donzelle in difficoltà. Le ho concesso una bella strofinata e una dose abbondante di fusa, che agli umani fanno tanto bene, poi l’ho accompagnata nella mia reggia. L’ho condotta nell’ultimo vecchio palazzo del quartiere, miracolosamente ancora in piedi, e ancora dotato di un’immensa cantina. In uno dei mille ripostigli le ho mostrato un pacchetto che custodisco gelosamente da anni, e che so per certo essere ancora pienamente efficace. Non so leggere la lingua umana, ma dall’effetto che fa il suo contenuto sulla popolazione di ratti del sottosuolo, ho capito che si tratta di veleno per topi, e di quello buono.
Un’umana saggia e avveduta come la mia amica non avrà difficoltà a correggere il caffè distribuito da quell’armadio. Facendole muso-muso, come noi felini facciamo soltanto con i veri amici, le ho sussurrato “I ratti non avranno scampo”.
Miao-editing by Gamy Moore
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Grazie ragazzi, Merlino confuso e commosso sentitamente ringrazia, mentre ripassa l’Hagakure. Jim Jarmush lo voleva scritturare per “Ghost Cat” ma abbiamo dovuto fargli presente che le riprese dovranno essere fatte al di là del Ponte dell’Arcobaleno 🙁
BELLOOOOOOOOOO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Un racconto delizioso, l’ho proprio gustato. Ho visto con l’immaginazione il micione-samurai, la vecchia sconsolata impiegata, i tronfi funzionari (ne ho fatto una personale esperienza). Il sorprendente emalizioso finale.