Lo ricordate il mitico baffetto che in bianco e nero, senza fiatare, passava dagli onori delle cronache a un pelo dal mordere la polvere, sempre scortato dal suo mitico cagnetto ammaestrato? Fedele ai suoi principi al punto da rischiare un’ostinata solitudine e una fine indecorosa…
15 milioni di dollari per realizzarlo e un incasso ad aprile di oltre 127 (mil.). Ma come spesso avviene in questi casi anche un film come The Artist ha rischiato di non vedere mai la luce.
Credere in, e realizzare, progetti su cui nessuno scommetterebbe, riuscendo ad arrivare in porto anche col vento sfavorevole. Nell’era del 3D e del Dolby quale produttore sano di mente avrebbe finanziato un film in bianco e nero, e soprattutto muto?
Uno intelligente, direi.
Sì, perché invece di valutare e sostenere l’originalità di un progetto si guarda in genere solo ed esclusivamente al se e quanto incasserà. Così per anni son venuti fuori film doppioni uno dell’altro, in una guerra assurda fra potentati che proponevano trame trite e ritrite, storie prive di mordente ma magari stracariche di effetti.
Ovvio che si storcesse il naso davanti ad un progetto come The Artist.
Chi più chi meno avran pensato tutti: vada per il bianco e nero, non è l’unico esempio.
Ma muto proprio no! Muto…
E mica tanto poi… c’è la colonna sonora e pure gli intertitles, e l’unica battuta che pronuncia non fa rimpiangere che l’eroe non abbia mai parlato… Scherzo!
E ora vorrei vedere la faccia di coloro i quali l’hanno mandato a digerire, scuotendo il capo ed agitando un certo dito pensando al budget da impiegare.
Beccato l’Oscar 2012 per miglior film, regia, attore protagonista, costumi e colonna sonora. Per tacere degli altri riconoscimenti. Perfino il cane Uggy (Uggie) ha ricevuto un premio, il Golden Collar Award.
Scusate ma era il minimo.
Sbagliare è concesso, perseverare intollerabile.
La sua eccellenza è di evidenza universale.
Come sempre avviene il film potrà piacere o meno, ma è senza dubbio una lodevole divagazione rispetto alle tendenze attuali, con il richiamo prepotente a un Tempo e a un genere che certamente non torneranno più.
Una sapiente costruzione, volutamente casuale, in realtà astutamente architettata, è alla base del successo di The Artist, pellicola francese che nel contempo “omaggia facendo il verso” la cinematografia statunitense degli anni d’oro, quelli in cui le auto recavan fari tondi come occhioni e un’eleganza innata, al pari dei graziosi cappellini che coprivano, solo per esaltarle, le sfiziose acconciature delle dame.
Quello è ciò che più mi manca di quell’epoca, quel garbo, semplice sofisticatezza, ed è quello di cui mi son beata nella storia: le storie umane ed animali si somigliano nel tempo, ma non ciò che sta intorno. Muta l’aspetto delle case, delle strade, oggetti e fogge. Tutto era pensato per durare allora, anche se la crisi e poi la Guerra avrebbero sferrato un duro colpo a tasche e sogni.
Eppure non sono qui per esaltare il film o spingervi a vederlo, se non lo avete fatto.
Vorrei parlare di un piccolo protagonista, quello forse meno citato, che a mio avviso ha contribuito a decretare l’exploit della pellicola. Il succitato Uggy.
Ed anche qui, direte voi, nulla di nuovo sotto il sole, non si contano i quadrupedi che hanno fornito lustro e gloria a centinaia di pellicole.
Uggy è un animale da palcoscenico, nel vero senso della parola, addestrato a fare il morto se sparato con le dita, a camminare su due zampe come nella migliore tradizione circense, e in generale a far da spalla o da sostegno in qualsivoglia circostanza, non ultima salvare il suo padrone da un incendio. Ma resta un cane, con i suoi pregi e in parte limiti.
Una curiosa coincidenza ha fatto sì che nella stessa annata un altro cane passasse alla ribalta delle cronache cinematografiche, pur nascendo in un contesto letterario.
Un cane che al contrario di Uggy non penserebbe mai a rispondere ai comandi del ‘suo umano’ se non a quelli che lo incitano a piluccare i pasti o andare a spasso, e nonostante la sua congenita pigrizia è riuscito a condurci tutti al suo guinzaglio, assicurandosi plauso e pure ricchi premi.
Ecco una creatura che finalmente ha capito tutto della vita, e in quanto collocatosi fra i geni è destinato a un limbo-gabbia più che dorati. E questo furbacchione risponde al nome italianissimo di Nino. Nino del Vomero.
Sgorgato dalla penna di Massimiliano Palmese ed approdato al Cinema per la regia di Giuseppe Bucci, Nino del Vomero (a cui ha dato voce l’attore Roberto Azzurro, che interpreta anche il ruolo del padrone) ha messo subito d’accordo tutti: è un cane italico, e in quanto tale già tutto un programma, poi pure di Napoli, di quella perla di città nota nel mondo per la sua filosofia di vita.
E quanto a teorie questo quadrupede ha davvero le idee chiare, e ha scelto astutamente dove e con chi stare: al Vomero, quartiere bene della città, che nulla ha da invidiare alla collina di Posillipo e sembrerebbe stare al top dei desideri di ogni cane.
Di ogni padrone, aggiungerei io, almeno in ambito partenopeo, visti i prezzi delle case.
Uggy deve sudarne di camicie, saltando e sgambettando allegramente intorno al suo padrone, Nino fa fare al suo padrone ciò che Nino vuole: in sostanza qui il quadrupede è il protagonista e l’umano fa solo da contorno.
Ecco, è come se i ruoli si fossero in qualche modo ribaltati passando dalla collina hollywoodiana al suolo patrio: George Valentin è diventato Nino (e parlante) e il suo mitico Uggy è divenuto il padrone dal baffettino partenopeo. Il muto adeguandosi al sonoro e il bianco e nero al colore.
E quanto parla Nino… ma mai a sproposito. Aveva dei rospi sullo stomaco e li tira fuori tutti, tiè!
Certo il suo sfogo è motivato da ragioni personali ‘alquanto discutibili’, appartenendo ad una casta di privilegiati, al contrario di Uggy e il suo padrone che soccombono alla stretta di scelte non al passo con i tempi, per di più in una congiuntura notoriamente sfavorevole.
Tempi di crisi allora come oggi, tanto da dubitare se dal 1929 ne siamo mai usciti veramente fuori…
Ma già che sto lo tiro fuori pure io un bel rospo. In tempi di vacche magre è un obbligo aguzzar l’ingegno, e dunque propongo una ricetta per cavarci fuori dal pantano senza troppi sacrifici.
A quanto ammonta la nostra ‘finanziaria’?
Quale che sia l’importo, mettiamo insieme una bella sessione di brainstorming fra addetti del settore, e sceneggiata una storia del tutto inedita, e anche un tantino ardita, perché no, realizziamo a costi contenuti ma in alta qualità un bel filmone per il mercato internazionale.
Con i proventi si pagano le spese e quel che avanza va a finanziare un fondo solidale per l’Italia, che a sua volta esporterà il sistema perché anche altre nazioni adottino una politica ‘creativa’ di sostegno.
Ecco la sola concorrenza leale che mi piace, quella dello scambio delle idee e della loro libera circolazione nel pianeta. Le idee sono l’unica ricchezza che non manca.
Vedo già in fondo alla platea una figura umana, seguita da un cagnetto, che applaude sghignazzando alla mia teoria, ricordandomi che l’acqua calda è già stata scoperta.
Non sarà una genialata da tecnico, lo ammetto, ma tentar non nuoce.
Poi se non funziona ho in mente la risposta che darei alla suprema corte dell’aia: “È andata male perché l’artista proponente era proprio un cane!
Anzi, no, un gatto…”
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The Artist, Francia, 2011, regia di Michel Hazanavicius
Nino del Vomero, Italia, 2011, regia di Giuseppe Bucci
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