Non mi ero mai accorta di quel negozietto di roba usata. Strano, passavo di lì tutte le mattine e lo notavo quel giorno per la prima volta. Una botteguccia modesta in un vicolo umido del centro storico, poco più di un garage riadattato, con una vetrina opaca e piena di cianfrusaglie. Quello che mi ha fatto decidere di entrare, e subito, è stato il nome. “La carrozza di Hans”. Una delle mie canzoni preferite degli anni Settanta, la mia età dell’oro, quando ero giovane, bella e con tutta la vita davanti. All’interno del negozio non c’era nessuno; forse il titolare era nel retrobottega, separato dal resto con una tenda a strisce di plastica come non ne vedevo da almeno quarant’anni, e intanto che mi annunciavo ho dato un’occhiata intorno. Gli abiti e le scarpe non mi interessavano, ero in cerca delle riviste e dei fumetti che avevo letto da ragazza, e un angolo della bottega ha attirato al volo la mia attenzione. C’erano pile di Urania, Gialli Mondadori, numeri di Linus che avevo comprato ogni mese ai tempi del liceo e di cui mi ero stupidamente disfatta nei vari traslochi. Mi ci sono immersa con entusiasmo, c’era praticamente tutto quello che ricordavo di aver letto e amato in quel periodo, e mi sono dedicata a una meticolosa ispezione degli scaffali. Per stare più comoda mi sono seduta per terra, circondata dalle varie pile di libri e fumetti che via via ritrovavo con commozione, e ho perso la cognizione del tempo.
Non mi ricordo a che ora ero entrata, credo nel primo pomeriggio, ma quando ho cominciato a non vedere più niente mi è toccato alzare la testa dalle mie letture. Il negoziante non aveva nemmeno acceso le luci. Ho fatto una prima scelta di vecchi Linus e Urania, sicura che in quel negozio sarei tornata più e più volte, e sono andata a pagare alla cassa, dove si era materializzato un omino calvo e diafano, che mi ha dato il resto con una mano ossuta, dalle dita lunghissime. Sembrava uno che non ha mai visto il sole, e mentre uscivo mi seguiva con uno sguardo preoccupato negli occhi grigi e lacrimosi. Mi faceva sentire a disagio e avrei voluto rassicurarlo, non avevo rubato niente… Sono tornata in strada col mio prezioso fagotto, e che cazzo, la sorpresa. La mia bicicletta aveva preso il volo. Era solo un vecchio catorcio, costato meno del catenone con cui l’ancoravo ai pali, ma i ladri me l’avevano fatta anche questa volta. Inutile dire che ero incazzata come un puma: ho fatto il giro dell’isolato sperando di aver sbagliato palo, ma niente. Di andare a casa a piedi non ne avevo proprio voglia, ed ero così imbufalita che ho pensato di commettere un’azione indegna. Appoggiata al muro c’era una vecchia Graziella senza lucchetto, che ho deciso di prendere in prestito solo per andare a casa, poi l’avrei riportata con la macchina. Era una di quelle biciclette assurde che avevo avuto anch’io da giovane, un ridicolo mezzo con le ruotine piccolissime, da clown, pedalavi pedalavi ed eri sempre lì, ma ne avevo usata una identica per anni.
Guardandola bene, ho notato che era proprio molto simile alla mia vecchia biciclettina, praticamente uguale. Aveva pure lo stesso cestino metallico, verniciato di bianco. Boh, si vede che allora le facevano tutte così. Poi nel cestino ho trovato un pacco di libri di scuola legati con l’elastico e mi sono venuti gli scrupoli; non potevo rubare la bici a una ragazzina che magari era andata a fare i compiti da un’amica. Ho sfogliato il diario per la curiosità di vedere come si chiamava quella suonata che lasciava i libri nel cestino, e non solo i libri, ma anche un cimelio come il “Diario Linus 72-73”, un pezzo da collezione. Aprirlo e trovare nella prima pagina un nome uguale al mio mi ha fatto venire freddo a luglio. Il mio nome e il mio vecchio indirizzo, quello della casa dei miei genitori. La mia calligrafia e le battute con le faccine che disegnavamo io e le mie amiche in quel periodo. Sì, proprio nell’anno scolastico 1972-73. Gli altri libri erano un “Inferno” di Dante, la “Guerra giugurtina” di Sallustio e un testo di versioni di greco. Tutti col mio nome scritto in grande sulla prima pagina interna. E con la mia calligrafia.
Sentivo sempre più freddo. E non solo perché faceva un tempo strano per essere luglio. Intanto dovevo capire per quale motivo indossavo un paio di stivali in estate, e pure così brutti, marroni e col tacco largo, cosa ci facevo con una gonna di lana stampata a quadretti e di chi era quell’orologio finito per sbaglio al mio polso sinistro, con un cinturino a maglie di latta. Cominciavo a sentirmi male. I passanti non erano vestiti da stagione estiva, portavano giacconi pesanti, ne avevo uno anch’io e non sentivo per niente caldo. Ho ripreso in mano il diario: era scritto fino all’ultima settimana di ottobre, con un minaccioso compito in classe di greco segnato per il giovedì. Poi più niente. Mi è venuto da mettermi le mani nei capelli e ho scoperto che erano lunghi, come li portavo nel 1972. Lunghi e con la riga nel mezzo. In pieno attacco di panico ho frugato nella borsa per cercare il cellulare e non solo non l’ho trovato, ma non avevo neppure la borsa. Solo un portafoglio in tasca, di finta pelle, di quel colore giallo cacchina che piaceva tanto a mia madre. All’interno una carta da mille lire, qualche spicciolo, un abbonamento dell’autobus e la mia carta di identità. Che mi sono affrettata a controllare: c’era il mio nome e la mia data di nascita, ma l’indirizzo era di nuovo quello dei miei genitori e la foto non era contemporanea, ma piuttosto datata. Di quarant’anni prima, direi.
Oddio, stavo male. Sono salita sulla bici e pedalando più in fretta che potevo su quelle ruotine da circo mi sono affrettata a casa. Inutile dire che non avevo le chiavi, ma a quell’ora mio marito era rientrato di sicuro. Volevo suonare il campanello, però non c’era. Ovvero, c’erano tanti campanelli, ma il nostro nome non era scritto su nessuno di questi. Intanto si era fatto buio e mi stava assalendo una strana consapevolezza. La città era cambiata, la gente vestiva in modo antiquato, c’erano poche macchine e tutte di modelli vecchissimi. Il colpo di grazia me lo hanno dato le targhe, cominciavano ancora con la sigla della provincia. Prima di soccombere a un attacco di nervi ho pensato che fosse meglio andare a casa dei miei: non avevo una gran voglia di vederli ma un assurdo presentimento mi gelava le ossa. Lungo la strada continuavo a osservare la città, così diversa da come la conoscevo e tanto simile a quella dei primi anni Settanta, e cercavo di pedalare in fretta per non pensarci.
La sorpresa agghiacciante doveva ancora venire. Quando ho aperto il cancello dei miei, mia mamma è venuta fuori urlando come una furia. Voleva sapere dove ero stata fino a quell’ora, e me ne stava dicendo di tutti i colori. Alla finestra il profilo arcigno della nonna, con la sua solita faccia da “chissà cos’hai fatto fino a quest’ora, piccola troia”. Però mia nonna era morta nel 1979. Il “tocco” finale era riservato a mio padre, che è volato giù dalle scale con passo da inquisitore e mi ha mollato due schiaffoni. Sono rimasta così di sale che non ho avuto nemmeno la prontezza di spirito di reagire. Mio padre non mi aveva più toccato dalla mia fuga da casa, avvenuta a gennaio del 1973, proprio perché mi ero stancata di prendere delle botte. Lui si era preso paura ed eravamo giunti a un patto, poteva urlare fino a che non arrivava la Neurodeliri ma non mi doveva toccare mai più. E lì ho dovuto prendere atto che ero caduta dentro a una di quelle storie che mi piacevano tanto nei libri e nei fumetti, ma che non avrei mai creduto possibile vivere nella realtà. Oddio, realtà era una parola grossa… Ero entrata in un negozio in luglio del 2012 e ne ero uscita in ottobre del 1972. Beh, non avevo forse passato gli ultimi vent’anni a sognare di tornare indietro nel tempo? Eccomi accontentata, gli schiaffoni di mio padre erano stati il comitato di accoglienza.
I miei cari genitori, che in quell’abominio spazio-temporale erano più giovani di me, mi hanno obbligato a mettermi subito a tavola, per continuare la cerimonia di benvenuto con la peggiore cucina della costa orientale. Ricordavo che in casa dei miei si mangiava malissimo, ma credevo acqua e non tempesta. Capivo perfettamente come facevo a indossare una taglia 38, all’epoca: si mangiava meglio in galera. Con una fetta di pane e formaggio nello stomaco, appena possibile mi sono rifugiata nella mia stanza, che non era più tale. Io non avevo una stanza per me, dormivo con la nonna. C’era ancora la mia scrivania coi vocabolari di greco e di latino, gli scaffali fatti in casa con i libri di scuola e di narrativa, e i numeri di Linus e di Urania comprati veramente in quegli anni e ritornati contemporanei, non più vintage. Mi era passata la voglia di sfogliare i miei acquisti del pomeriggio, li ho appoggiati tristemente in un angolo e ho acceso la mia radiolina. Dovevo sapere che giorno era. Sulla sigla del giornale radio, l’annunciatore mi ha inferto il colpo finale. Mercoledì 25 ottobre 1972. Stando al Diario di Linus, la mattina dopo avrei dovuto affrontare un compito in classe di greco, io che l’anno prima, a Kos, non sapevo più nemmeno leggere l’alfabeto.
Sperando di aver preso una droga cattiva, il cui effetto prima o poi sarebbe finito, ho aperto il libro delle versioni e ho provato a fare quella annotata sul diario. Beh, mi riusciva. Incredibile, non solo ricordavo l’alfabeto, ma anche i verbi e le declinazioni. A quel punto mi toccava affrontare la madre di tutte le prove, lo specchio del bagno. E l’ho vista, era lì, la faccina di quando avevo sedici anni, i capelli lunghi con la riga in mezzo e il trucco sbagliato. Mi sono spogliata e ho contemplato stupefatta la gonna che era riuscita a contenermi: nel 2012 ci avrei fatto a dir molto una cuffia. La biancheria era raccapricciante, mutande ascellari e reggiseni antistupro, col marchio indelebile “comprati da mamma”. Non potevo fare altro che aspettare la fine dell’effetto di quella droga che in qualche momento dovevo aver preso, l’unica soluzione era dormirci sopra e contare su un risveglio da sobria. Inutile cercare i miei sonniferi, in quel mondo non ne avevo. Mi sono infilata a letto sfogliando un Urania e sperando di addormentarmi in fretta. In effetti stavo cominciando a rilassarmi quando è entrata mia madre, con quella faccia da “qualunque cosa tu abbia combinato, sappi che ne pagherai le conseguenze” che purtroppo ricordavo bene. Si è seduta sul letto, mi ha fissato coi soliti occhi da giudice e mi ha chiesto dove ero stata quel pomeriggio. E con chi. A me in un certo senso scappava da ridere; quella donna sciatta e grigia, malvestita, con la pelle da vecchia e i capelli rovinati, era più giovane di me, e di molto. Ma non in questo cazzo di universo da acido calato male. Mi è toccato sopportare il terzo grado e digerire la perenne minaccia mascherata da domanda innocua: “Ti sono venute le mestruazioni?”. Ecco la sua ossessione. Che rimanessi incinta e dovessi fare la vita che faceva lei. Meglio spegnere la luce e provare a dormire prima che venisse a letto la nonna, che russava come un cinghiale.
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