La carrozza di Hans (la fine)

 (continua dalla puntata precedente)

porta chiusaE finalmente un giorno l’idea è arrivata. Non avevo altro che un piccolo registratore a cassette, ma me lo sarei fatto bastare. A uno dei compagni di classe più “ricchi”, quelli che potevano permettersi di comprare i dischi, ho chiesto in prestito “Storia di un minuto” della Premiata Forneria Marconi, ho registrato su un nastro “La Carrozza di Hans” e ho acceso il mangiacassette davanti a quel muro da cui ero uscita alcuni mesi prima. Il violino di Mauro Pagani ha fatto il miracolo e davanti ai miei occhi è comparsa una saracinesca sulla parete di mattoni, fino a un momento prima liscia e intatta. Un altro po’ di pazienza, qualche nota di flauto, e la saracinesca si è aperta sulla stessa vetrina polverosa di quarant’anni dopo. Eccolo finalmente, il negozietto dell’usato in cui ero entrata nel 2012 e dal quale ero uscita in un pomeriggio di ottobre del 1972.

Mi sono fiondata dentro come una saetta, per paura che il varco si chiudesse di nuovo. Avevo bisogno di parlare con quell’omino calvo e dalle dita lunghissime, che mi aveva guardato uscire dal suo negozio con tanta preoccupazione. Non temeva che io gli avessi rubato qualcosa; l’ansia gliel’aveva messa la mia uscita in un altro punto dello spazio e del tempo. Il negozio era ancora vuoto, come la prima volta, ma ero pronta a stanare il proprietario nel suo retrobottega. Ho scostato le strisce di plastica della tenda e l’ho sorpreso a sonnecchiare su una vecchia poltrona, con un gatto sulle ginocchia. Il retrobottega era ancora più inquietante del negozio; sembrava immenso, un magazzino di cui non si vedeva la fine, colmo di scaffali strapieni di oggetti delle epoche più disparate. Urne, sarcofagi, forni a microonde, computer, libri, armi, abiti, scarpe… a perdita d’occhio. Doveva trattarsi di un gioco di specchi: il negozio era piccino e non poteva avere un retrobottega delle dimensioni di un piano del Louvre. Mi sono seduta vicino all’omino, ben decisa a chiedergli spiegazioni.

old bookshopSentendosi osservato, il negoziante ha aperto gli occhi, e quando mi ha visto è quasi caduto dalla poltrona e ha cercato di scappare. L’ho afferrato per un polso, così sottile e diafano da farmi venire la paura di romperlo, e l’ho costretto a tornare a sedersi. Cercavo di rassicurarlo: non ero una ladra, non gli avrei rubato nulla, volevo solo qualche spiegazione.

– Proprio di questo ho paura, mia cara. Non posso spiegarti.

– E invece io ho bisogno di sapere. Sono entrata nel suo negozio e ne sono uscita quarant’anni prima: non le sembra di dovermi una spiegazione?

– Perché sei entrata? Io non ti ho chiamato.

Lo avrei preso a schiaffi. Dico, uno apre un negozio e poi rimprovera il cliente perché ci è entrato? E a cosa gli serve un negozio, se disperde i clienti in giro nel passato?

– Se è per questo, anche in giro nel futuro, cara. Il mio non è un negozio come lo intendi tu.

– Me ne ero accorta. Però una spiegazione me la deve.

E me l’ha data. L’omino era un antiquario che si procurava gli articoli da vendere viaggiando nel tempo, e non nello spazio. Era molto anziano, non aveva più le energie per frugare cantine e mercatini, così aveva imparato a spostare il negozio; andava in giro per le varie epoche e comprava le cose che gli venivano richieste anni dopo. Purtroppo quel giorno del 1972 non si era accorto di me,  era impegnato a consultare un catalogo di oggetti degli anni Settanta, molto richiesti su Ebay, e aveva deciso di andarseli a prendere. Col negozio e tutto. E con me dentro. In realtà la bottega non si spostava mai dal palazzo, ma diventava visibile solo quando lui tornava indietro in un particolare anno. Naturalmente non era possibile rintracciarlo al telefono, e se uno dei suoi affezionati clienti aveva bisogno di contattarlo doveva suonare le note della “Carrozza di Hans” davanti alla facciata dello stabile. Il negozio era addestrato a muoversi nel tempo da solo, e quello era il motivo per il quale era tornato indietro negli anni Settanta. Di certo non per venirmi a prendere, non era mica un autobus…

ritorno al futuroBene, la spiegazione l’avevo avuta. Come al solito, ero capitata nel posto sbagliato nel momento peggiore. O nel posto giusto al momento giusto? Ancora non avevo deciso cosa volevo fare. Ritornare al mio futuro, nel 2012, senza genitori invadenti ma con l’incubo del Palazzaccio con cui convivere ogni giorno per campare senza prospettive di fuga? Oppure rimanere negli anni Settanta, dormire tranquilla fino alla fine del liceo e poi godermi Bologna e gli anni dell’università? Dopo mi sarebbe sempre toccato lavorare per vivere, ma avrei potuto cercare qualcosa di meno disgustoso, oppure accalappiare un signore benestante e molto anziano, farmi sposare e attendere con calma l’eredità. Avevo di certo più prospettive nel passato, considerando l’indubbio vantaggio di sapere tutto quello che era successo negli ultimi quarant’anni. Va bene, avevo deciso, sarei rimasta lì, negli anni Settanta, e l’ho comunicato all’antiquario. Che si è messo a ridere. C’era ancora qualcosa che non mi aveva detto… e ti pareva che da qualche parte non ci fosse la fregatura?

I vari “passati” tra cui si spostava la Carrozza di Hans non erano sempre quelli che io conoscevo. Se avessi messo piede fuori dal negozio in quel momento, mi sarei potuta trovare in un anno diverso da quello che avevo lasciato. Solo per un caso fortuito ero ricaduta nell’universo in cui andavo al liceo e non, per esempio, in un 1972 in cui facevo l’operaia in fabbrica e magari ero appena rimasta incinta del primo deficiente con cui avevo scopato. O in un 1972 in cui non ero mai nata. Io non ero importante per il negozio, che cercava solo la merce richiesta dai clienti; il destino dei singoli individui era una variabile non contemplata. E uscendo dal negozio in quel momento, correvo gli stessi rischi. Fantastico… E adesso?

old bookshopHo pregato l’omino di riportarmi dove ero salita, ma lui si è anche inalberato; non era un taxi, diceva, e non era in grado di individuare in quale degli infiniti universi io fossi salita. Del resto, qualche piccola differenza c’era sempre: non mi ero accorta, per esempio, che a casa dei miei non c’erano gatti? Io da giovane avevo sempre avuto un gatto, ma non in quella particolare combinazione di spazio e di tempo. Mettiti il cuore in pace, mi disse, non la troveremo più. Però l’omino aveva una proposta da farmi. Era vecchio e stanco e gli serviva una mano, e poi non sarebbe vissuto in eterno: non aveva eredi ed era un peccato mandare a male un’attività redditizia. Da tempo cercava un aiutante e visto che ero capitata lì come una profuga, e lui non aveva cuore di abbandonarmi nel primo universo che capitava… bene, se ero interessata, potevo cominciare a spolverare gli scaffali. 

(fine)

 

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