(continua dalla puntata precedente)
Quella notte ho dormito ben poco, non sapevo come comportarmi la mattina seguente. Tornare al negozio e chiedere spiegazioni? Qualcosa mi diceva che non l’avrei più trovato. Se le mie letture di fumetti e storie ai confini della realtà mi avevano insegnato qualcosa, era proprio che quando si imbocca la corsia sbagliata nel flusso del tempo, fare manovra è un casino. Andare a scuola e fare la versione di greco? Mah, in fondo non avevo niente da perdere, a cercare il negozio ci sarei andata dopo. Ed era inutile che mi raccontassi le favole, non vedevo l’ora di entrare in quella classe, per lui. Il mio amore del liceo, il compagno di scuola che avevo amato come una deficiente per tre anni, ovviamente non ricambiata. Se no, che grande amore sarebbe stato? Le storie infelici sono fatte apposta per costruirci sopra i castelli di rimpianti… Mi sono alzata presto e ho frugato nel mio scarsissimo guardaroba, tenendo in mano sconsolata un paio di pantaloni di velluto verde e la tragica gonnellina a quadretti del giorno prima. E quei patetici stivali marroni. Tutti i miei vestiti stavano in un cassetto dell’armadio. Pensare che a casa mia, nel 2012, avevo un guardaroba a sei ante pieno da scoppiare e un altro armadio solo per le scarpe. Visto che il capitolo “abbigliamento” era una tragedia, ho cercato di truccarmi per bene e di dare una forma alle sopracciglia, poi sono scesa in cucina per fare colazione, tra facce severe e silenziosi rimproveri. Si vede che non ero stata convincente sull’alibi del pomeriggio; all’epoca ero bravissima a inventare scuse, ma ci avevo perso la mano da quando avevo cominciato a guadagnarmi da vivere ed ero andata ad abitare a Bologna, quasi quarant’anni prima.
Sono salita sulla ridicola biciclettina per andare a scuola e mia madre ha ripreso gli strepiti. E che cacchio voleva ancora? Che prendessi l’autobus. Perché il traffico era pericoloso… Se lei chiamava traffico quelle poche decine di macchine che avevo visto in città, doveva vedere il 2012, con le rotonde che spuntavano di notte e i ciclisti spiaccicati come piadine. Meglio non fare commenti. Ho schiaffato i libri nel cestino e mi sono preparata a fare i tre chilometri da casa a scuola su quelle ruotine da scimmietta ammaestrata. La strada per il liceo passava proprio davanti al Palazzaccio in cui mi guadagnavo da vivere nell’universo che avevo appena lasciato: vederlo mi ha provocato la consueta stretta allo stomaco e mi sono stretta al petto il vocabolario come fosse stato il mio orsacchiotto. Le inferriate di quel luogo di pianto e stridor di denti mi suscitavano una passione sfrenata per la grammatica greca. Era ancora presto e avevo tempo per un caffè, che in casa dei miei era una bevanda proibita. Da loro mai qualcosa di gustoso, nemmeno una bibita gelata; quella casa incarnava il detto che tutte le cose buone della vita sono illegali, o immorali, o fanno male alla salute. E poi dovevo farmi un’idea dei prezzi, per sapere cosa valeva quella carta da mille lire che mi ero trovata nel portafoglio.
Beh, valeva abbastanza. Con cento lire ho fatto colazione. Il bar di fronte al liceo si stava riempiendo di studenti, quasi tutti maschi. Allora le ragazze entravano di rado nei bar, veniva ritenuto un comportamento poco serio, almeno nella piccola città “bastardo posto” in cui ero cresciuta. E così l’ho visto, seduto a un tavolino con i suoi amici. L’amore dei miei sedici anni. Un ragazzino paffutello, dal viso liscio, senza ombra di barba, i capelli lunghi e un sorriso che mi aveva sempre spezzato in due. Non mi ha salutato, ovviamente. Perché doveva diventare gentile, in questo universo? Sarebbe stato un paradosso spazio-temporale… Ma io, dopo quarant’anni, non andavo più in giro come un’assetata in cerca di tenerezze e di attenzioni, non ero più come la sabbia asciutta, che assorbiva tutto, l’acqua, il veleno, e anche altri liquidi meno nobili. Con il tempo, la pazienza e un sacco di soldi in psicoterapie, avevo capito quanto ero stata tenuta a distanza, come i miei avessero ignorato le mie emozioni, i miei pensieri, le mie aspirazioni, come mi avessero umiliata e maltrattata, secondo la mentalità del tempo, e avevo cercato di rimediare ai guasti dell’infanzia e dell’adolescenza. Con fatica avevo imparato a essere meno permeabile, a stabilire dei confini tra me e gli altri, a dire dei NO e di conseguenza anche ad accettarli, i NO. Non sarei mai più corsa dietro a nessuno, uomo o donna che fosse. Avevo imparato a stare da sola, e anche a starci bene.
Per fortuna, il tuffo indietro di quarant’anni non mi aveva fatto perdere le nozioni scolastiche. Una volta entrata in classe la versione di greco mi è sembrata facile, le mie dita scorrevano veloci tra le pagine del vocabolario e proprio come ricordavo, in meno di un’ora il compito era terminato e lo stavo ricopiando in un foglietto per la fila davanti. Noi avevamo una strana abitudine, che nel terzo millennio era andata perduta: quella di passarci i compiti e di essere solidali. Chi si teneva la versione per sé oppure, addirittura, orrore degli orrori, faceva la spia, veniva emarginato da tutti e trattato come la merdaccia che era. Soltanto dieci anni dopo, invece, quel comportamento avrebbe cominciato non solo a non essere più disapprovato, ma addirittura a diventare un modello. La compagna di fronte a me stava già scalpitando; io ho scritto in fretta le ultime parole e le ho infilato il biglietto nella tasca del grembiule. Già, il grembiule. In classe noi ragazze dovevamo indossare quell’orrenda palandrana nera, che lasciavamo appesa all’attaccapanni sulla parete in fondo e che non abbottonavamo mai, suscitando le ire delle prof più conservatrici. Ricordavo l’ultimo giorno di scuola del quinto anno, quando ci siamo strappate a vicenda i grembiuli neri davanti al cancello del liceo, col traffico che si fermava, un happening demenziale a cui, in quell’universo, mancavano ancora tre anni.
Ero felice di rivedere le mie compagne di classe, i loro faccini e i sorrisi, che quella mattina a dir la verità erano un po’ tirati, ma il compito di greco non era l’occasione migliore per sghignazzare. La campanella dell’intervallo ha costretto anche i ritardatari a consegnare il compito e ci siamo ritrovati nel corridoio per i commenti. Si confrontavano le versioni, qualcuno si lamentava che il foglietto era arrivato tardi, ma avevamo già voglia di sparare cazzate, il nostro sport preferito. E intanto lo guardavo, il ragazzo che avevo amato e soffocato come una schiacciasassi, a cui ero letteralmente saltata addosso nemmeno un mese dopo, quasi costringendolo a mettersi con me, e che mi aveva sopportato per ben tre mesi, prima di scappare a gambe levate davanti alle scenate di mio padre e a una passione troppo soffocante per un sedicenne. “Ti lascerò in pace”, mi dicevo, “non ti accorgerai neppure che esisto”. Meglio dedicarmi alle mie amiche. Era così bello guardare le loro faccine fresche e ascoltare le risate, senza pensare a quello che sarebbe arrivato dopo, malattie, incidenti, divorzi… Avevano già notato che mi ero rifatta le sopracciglia e si complimentavano per il mio nuovo trucco. Abbiate pazienza, pensavo, vi stupirò con gli effetti speciali.
Già ora di tornare in classe. Si vede che quella era la mia giornata; sono finita interrogata in italiano. Col tempo la Divina Commedia era diventata una mia passione e le letture adulte, sommate alle nozioni scolastiche miracolosamente ancora fresche, mi hanno fatto superare brillantemente le domande della prof, che all’epoca detestavo e che invece col tempo avevo rivalutato tantissimo. Anche tu, signorina Rossi, ti stupirò, pensavo… La mattina si concludeva con la lezione di storia dell’arte, nella quale, ai tempi, mi distinguevo per molestia. L’ultima ora era sempre pesante, in più quella prof aveva il dono di un’antipatia innata e di solito le sue lezioni precipitavano in un casino da lancio dei coltelli, ma quella volta ho davvero stupito le mie amiche. Mi sono raggomitolata buona buona sulla sedia per ascoltare l’insegnante, senza badare ai calci e alle gomitate delle altre, che mi passavano la radiolina per ascoltare Alto Gradimento con l’auricolare. E quando è suonata la campanella per uscire, mi hanno circondato. Tutte a dire “Ma come sei strana, cosa ti è successo?”. Ragazze, se potessi raccontarvi, mi veniva da pensare, ma non era il caso di affrontare un ricovero in Psichiatria. Provai a giustificarmi sostenendo che a stare attenti in classe e prendere appunti, metà esame era già dato. “Esame? Quale esame?”. Ops, mi ero già sbagliata, quell’insegnamento l’avrei appreso soltanto all’università.
Non vedevo l’ora di passare un pomeriggio con le mie amiche e rivivere le risate di quando ci si trovava per studiare e si passava dal delirio più demenziale alle discussioni sulla vita, l’universo e tutto quanto, ma quel giorno avevo un impegno improrogabile. Dovevo ritrovare “La Carrozza di Hans”.
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