Favole per Elke di Daniel I. Mayerling
Quando Elke avrà difficoltà a dormire mi alzerò e le racconterò la semplice favoletta del vecchio palazzo di città che anelava al mare, stretto fra le mura di altri infelici come lui che avrebbero voluto accoccolarsi al sole e ricevere gli spruzzi di spuma bianca nelle mareggiate di primavera sul far del giorno. “Quanto più fortunati erano quelli che già vi si trovavano” pensava; così ogni tanto faceva un passo, piccolo passo impercettibile, il palazzo ridotto ormai quasi in rovina, conservando in sé gelosamente il desiderio di ammirare il mare suo compagno anche quando fosse stato minaccioso e grigio.
Col passare del tempo gli altri palazzi intorno avevano subito grandi metamorfosi: c’era chi era stato abbattuto ospitando al suo posto incredibili costruzioni geometriche dai colori sgargianti e innaturali, o inutili colossi dai vetri a specchio, dietro ai quali si contavano numerosi sguardi spenti dietro enormi scrivanie laccate, tra telefoni che non davano tregua; e c’era un grande palazzo pieno di fiori su balconi di ferro su cui però non si vedeva anima viva. I suoi compagni erano certo più belli e il povero palazzo di tre piani soffriva nel confronto con gli altri che da anni vedeva al suo risveglio.
Da qualche tempo però aveva smesso di soffrire perché si diceva che qualcuno voleva togliergli di dosso quel vecchio abito logoro e sporco, donandogli un aspetto tutto nuovo. Avrebbe potuto così correre al mare e presentarsi nella sua nuova veste.
E quel giorno venne. Dopo il faticoso imbellettamento delle finestre e dei balconi e tutto luccicante nelle sue vernici, nottetempo il palazzo ancora gonfio di sonno si decise e andò via, verso il sospirato compagno che al risveglio appariva chiaro e luminoso sotto le braccia del sole.
Nella via da cui era sparito la gente vide un grande vuoto e il cortile interno sventrato, mentre si intravedevano i poveri interni che a un tratto si sentirono scoperti e traditi dall’infido palazzo che chissà dove fuggito aveva alla fine realizzato il suo antico e sconosciuto desiderio di abitare vicino al mare.
A qualcuno lascerò un’eredità di ricordi (D.I.M)
Da due giorni il cielo era livido e teso. Poca, poca aria filtrava dalle sottili fessure della persiana.
Steso sul letto, seminudo, Igwald da poco aveva smesso di agitarsi e Maior ai suoi piedi si stiracchiava, incerto e pigro.
Un lieve sobbalzo turbava a tratti l’apatica armonia della scena.
Finite le illusioni, Igwald, la mente secca, illanguidiva.
L’ipotesi era più che dolorosa, lo faceva sentire sciocco e insignificante; la allontanava con un gesto senza convinzione e continuava a voltarsi sul letto ormai sfatto.
Maior ne seguiva lento gli impercettibili movimenti, tornando poi a sonnecchiare con le palpebre serrate.
Dentro di me si agitava il mondo. Ora non si agita più neanche Dio (D.I.M)
Lentamente, incespicando, confuso dall’abuso di alcool e farmaci, Igwald si tirò su dal letto con lentezza, raccolse i pochi abiti dal pavimento e ancora stordito li infilò allontanandosi dalla vista di Maior che languido scioglieva i suoi movimenti, ignaro dei propositi del suo padrone.
Scese le scale e percorse i pochi metri del giardino. Imbruniva.
L’auto era lì come sempre; mise in moto e dopo poco si ritrovò sul piccolo ponte dove il fiume in secca lasciava intravedere un letto di sassi.
Rimase lì a fissarlo per un tempo indefinito, in attesa di trovare il coraggio o forse inebetito dalle pillole, mentre il cielo si scuriva tutt’intorno e qualche macchina appariva e scompariva in lontananza.
Fra poco tutto sarebbe finito e qualche sguardo lì giunto non certo per fermarsi sull’orrore della morte lo avrebbe visto incunearsi e gettarsi nel vuoto di pochi metri, per poi avvertire anonimo la polizia avviando la dolorosa trafila delle ambulanze e del pietoso riconoscimento ed impedendo agli amanti per quella serata di sciogliersi nel consueto abbraccio.
Mi chiamo Tracy Heidelmann, 30 anni, giornalista del Boston News da 5. Tutti o quasi mi conoscono come “Kelly” dal titolo di una grande inchiesta che per settimane ha diviso l’America conservatrice su avvenimenti di cronaca nera.
È per un caso che questo lavoro mi fu affidato: sostituivo in quei giorni un collega assente per malattia; da lì è partito tutto, il gran numero di copie vendute, il successo, la popolarità.
È per questo che hanno scelto me per raccontare una storia che, confesso, non ho capito fino in fondo e che oggi considero una sfida alla mia intelligenza e sensibilità. Io che pure mi sono mossa sicura fra le torbide tempeste della cronaca nera e che credevo di aver capito tutto della vita non mi vergogno a dire di aver provato un opprimente senso di impotenza e di rabbia, dolore sordo e rimpianto mentre scorrevano le righe fitte e ordinate che Igwald D. Mayerling ha lasciato.
La mia speranza è che voi riusciate a non farvi cogliere impreparati e travolgere come è successo a me da una crisi profonda e irreversibile.
Scrivere sarà dunque per me una liberazione almeno parziale: cercheremo insieme di capire e di allontanare il fantasma della solitudine che continuamente è evocato nell’esistenza di Igwald, ed ora nella mia.
Per non assumere i rischi di una interpretazione personale ho deciso di trascrivere fedelmente il contenuto di gran parte del suo diario cercando là dove fosse possibile di rispettarne la successione cronologica.
Non credo che Igwald volesse rendere pubblica la sua sofferenza, ma poiché son certa che la sua esperienza lo accomuna a molti di noi, vorrei, nel rendergli omaggio, fare qualcosa per impedire ad altri di ricalcare il suo tragico destino.
Ho conosciuto Elke Weiss in occasione dei funerali di Igwald.
Non che lei fosse là: già da giorni si era chiusa in un cupo isolamento.
Un comune amico mi mostrò con dolcezza una delle foto di Elke che Igwald aveva chiesto gli fossero seppellite accanto. Elke vi appariva giovane e felice, spensierata; inutile e doloroso dover dire che poi non è sembrata più la stessa.
Qualche giorno più tardi quello stesso amico, dichiarando di avere molto a cuore la sorte di lei, la convinse a consegnarmi, cosa che Elke fece, sia pure riluttante, anche il carteggio della sua corrispondenza con Igwald, che copriva un decennio della loro esistenza.
L’ho letto e riletto attentamente; ma ancora oggi, a distanza di quasi due anni, mi sorprendo a scrutare la scrittura irregolare ed elegante che Igwald le ha lasciato e mi convinco che in quelle involuzioni l’inenarrabile mistero di tutta una esistenza altro non cerchi che il silenzio, un silenzio non muto, una sottile risonanza.
Igwald D. Mayerling moriva il 25 maggio 1989 dopo avere a fatica pronunciato queste parole a giornalisti e curiosi che lo avevano assediato nella corsia dell’ospedale distrettuale:
<<… mezza notte… Lasciaaa temi in ppace!
Andate viaaaaaa, vi pregoooo
Dom anii…
…Il mio nome?
Ig wald>>
Igwald, ripeté mentalmente.
Riandò col pensiero a quello che un giorno aveva appuntato. Vi si aggrappò, ansimando per lo sforzo.
Lo sbagliavano sempre il suo nome.
Col tempo, forse, la sua strana sonorità lascerà il posto ad altri gruppi di foni malcompresi o tormentati da bocche estranee.
Non sempre è stato facile sorridere di questi errori. È possibile che qualcuno negherà perfino di avermi conosciuto.
Altri se ne vanterà.
Elke Weiss lo ha raggiunto nel dicembre di quell’anno.
(continua qui)
Paola Cimmino, Storia di Igwald, 1993 (rev. 2012)
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