Riassunto delle puntate precedenti
Dopo uno spettacolare scambio con la se stessa adolescente, Beatrice si trova ad affrontare i problemi e le limitazioni della vita in una città di provincia alla fine degli anni Sessanta. Deve risolvere parecchi problemi, ma il più urgente, in questo momento, è quello di salvare la vita al suo gatto.
Credo che la prima frase di senso compiuto pronunciata nella mia vita sia stata “Voglio un gatto”, ma ci ho messo otto anni per convincere i miei a farmene tenere uno. Finalmente, nell’estate tra la terza e la quarta elementare, riuscii a portare a casa un cucciolino di quelli che la gatta di mia zia sfornava a getto continuo, e che finivano affogati nel canale. Era un maschietto bianco e nero, e lo chiamai Pallino. Fu il mio unico amico e compagno di giochi dotato di volontà propria – l’alternativa erano solo le bambole – però Pallino poteva uscire di casa e io no. Essendo un gatto non castrato usciva fin troppo, e nel periodo degli amori tornava, dopo lunghe assenze, segnato dalle cicatrici delle battaglie ingaggiate contro gli altri gatti maschi del quartiere. Ogni volta gli mancava un pezzo, una punta di orecchio, un polpastrello, mezzo occhio, ma tornava. In questo autunno del 1969 però ricordo bene che Pallino era morto, dopo alcuni giorni di vomito verde, e mio padre aveva buttato il suo corpicino nel bidone del rusco. Io avevo pianto tutte le mie lacrime, e loro mi rimproveravano perché “non si piange per un gatto”.
Allora non si portavano i gatti dal veterinario, specialmente in una famiglia priva di mezzi come la mia, ma in casa c’era qualcuno che ci andava, uno dei miei zii, coi cani da caccia, che valevano soldi e si facevano curare e vaccinare. Questo zio era sempre stato il mio preferito, il più giovane, quello disposto a giocare coi nipoti, a portarci a prendere il gelato o a farci fare un giro in macchina tutti insieme. Lo zio che non ci diceva mai di no… Lo aspetto una sera vicino al recinto dei cani, quando li libera per farli sgambare mentre prepara la pappa serale, e lo prendo per commozione. Nella vita precedente non usavo queste armi, non sapevo portare gli adulti dalla mia parte facendo gli occhioni da cerbiatta. Il mio approccio col mondo era sempre il muro contro muro, dove ero io quella che alla fine si faceva male. Ma stavolta ne so di più, ho imparato.
Finisce che convinco lo zio a portare me e Pallino dal veterinario che cura i suoi cani. Gli parlo del vomito verde, che ancora in realtà non si è manifestato, ma non posso aspettare che stia male, sarebbe troppo tardi, e gli faccio vedere che ho anche i risparmi per pagare la parcella, ben cinquemila lire. Non ho idea di quanto costi una visita dal veterinario nel 1969, ma dopo il mio incidente i genitori e i parenti in visita mi hanno regalato qualche soldino – naturalmente il più generoso è stato, come sempre, proprio lo zio che sto pregando – e all’epoca un biglietto del cinema costava trecentocinquanta lire, quindi forse il mio gruzzoletto non è poi così misero. Quando gli faccio vedere la scatola con tutte le mie proprietà terrene lo zio si intenerisce e mi dà appuntamento per il pomeriggio seguente. Di comune accordo, col babbo non se ne parla.
Il giorno dopo attrezziamo una scatola a uso trasportino, ci chiudiamo il gatto, e con un Pallino urlante corriamo in macchina dal veterinario, che si meraviglia un po’ a vedersi portare in visita un comune gattaccio di strada, ma mio zio è un buon cliente. Gli racconto del vomito verde, lui lo visita, e propone di tenerlo un po’ a degenza per seguire l’evoluzione della malattia. E consiglia di sterilizzarlo, per allungargli la vita, dice. Io gli chiedo se le mie cinquemila lire bastano per l’intervento, ma il tenerissimo zio Vanni mi abbraccia, mi sorride e dice di non preoccuparmi per i soldi, che col dottore si mette d’accordo lui. Lascio Pallino “in clinica” con l’accordo di riprenderlo dopo un paio di giorni, e mentre torno a casa con lo zio, penso a una maniera per sdebitarmi. Ho bisogno di un’alleanza nel mondo degli adulti e lui è l’unico a cui mi posso rivolgere. I miei genitori sono psicopatici, mia nonna è pazza e le zie sono le tipiche donne di casa dell’epoca, frustrate, maltrattate, inacidite, e maldisposte a tollerare in una ragazza le “stranezze” che esulano dai rigidi binari sui quali scorre la loro vita di merda.
Comincio da subito ad aiutare mio zio con i cani. Lui non vorrebbe, ma insisto. Non scappo via quando li libera dal recinto, come facevo nella vita precedente, in cui avevo paura di loro, anzi, prendo anch’io paletta e scopone per pulire i box, così mentre lui prepara il pastone io lavo le ciotole e cambio l’acqua. Dieci anni di volontariato in un rifugio per animali abbandonati, nel secolo da cui sono caduta giù, qualcosa mi hanno insegnato. Vedo che lo zio è soddisfatto della mia opera e gli prometto che lo aiuterò tutte le sere. Col tempo prenderò familiarità coi cani e imparerò a conoscerli e a giocare con loro, ma per ora ubbidisco ai comandi. Non è difficile farli rientrare nel recinto, quando vedono le ciotole col cibo caldo, e non ho intenzione di contraddire lo zio che mi spiega la prima regola di vita coi cani, non disturbarli mai mentre mangiano. In due abbiamo fatto il lavoro in metà tempo e lo vedo soddisfatto di me, anche se non è convinto della mia costanza nell’impresa, ma lo sorprenderò.
Due pomeriggi dopo andiamo a riprendere Pallino. Come promesso è stato sterilizzato, e il veterinario me lo riconsegna un po’ stranito, ma con le ferite medicate e la pelliccia ripulita. Mi affida anche tre siringhe di antibiotico, da somministrargli nei giorni successivi, e mi insegna come si fa una puntura a un gatto, ma lo zio promette di aiutarmi, perché lui le sa fare ai cani. Anch’io sapevo fare, nel terzo millennio, ma lo zio è un aiuto prezioso, ha a che fare con gli animali fin da bambino, e da lui ho molto da imparare. Lasciamo lo studio col gatto nella scatola e alcune fialette di antipulci da dargli quando avremo finito la cura di antibiotici.
A casa devo lottare con la nonna per sistemare nella nostra stanza da letto una cesta con un cuscino per il mio gatto, che ha bisogno di stare in riposo e al caldo. Mia nonna è completamente pazza e considera il gatto “l’animale del demonio”. Siamo in pieno medioevo. Ne ha talmente orrore che ha contagiato mio padre con la stessa ossessione; anche lui non tocca i gatti e mi ha sempre proibito anche di fotografarlo, perché – dice la nonna – è come “fotografare il diavolo”. La spunto solamente in quanto reduce dal ricovero in ospedale di cui quest’estate hanno scritto anche sul Carlino, e per questa sera avrò la gioia di avere Pallino tutto per me. Gli preparo le ciotoline con la pappa e l’acqua, e dopo aver cenato lo guardo dormire raggomitolato nella cesta che gli ho preparato vicino al termosifone. Dopo cena mi siedo per terra, vicino a lui, e continuo a sfidare la buona sorte accendendo la mia radiolina, invece di rintanarmi nel letto al buio, come vorrebbero le regole familiari. Incredibilmente nessuno si mette a urlare, i due psicopatici e la pazza sono in sala a guardare la televisione, e per un altro inspiegabile colpo di fortuna, alla radio trovo un programma che sta trasmettendo l’Album Bianco dei Beatles. Decisamente, oggi è il mio giorno fortunato.
Il mio gatto, la musica, la lettura… Come costruirsi una corazza per crescere e affrontare il mondo
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