Riassunto delle puntate precedenti
È difficile trovare la propria strada, quando si sa solo quello che non si vuole dalla vita.
La professoressa di lettere insiste perché anch’io faccia il colloquio di orientamento con lo psicologo, visto che sono la migliore della classe. Il tipo ha la stessa faccia da culo che ricordavo, e sbirciare sotto la gonna delle ragazzine intanto che le mette in imbarazzo con le sue domande da idiota, lo fa sentire potente. Col cazzo che ti faccio godere, coglione, stavolta ho i pantaloni, e col cavolo che mi metti in imbarazzo. Tu non lo sai, stronzo, ma ho il doppio dei tuoi anni… L’ometto mi comunica i risultati del test, dice che ho conseguito un ottimo punteggio, ma che è strano che io “non abbia aspirazioni per il futuro”. Voglio per caso “buttare via la mia intelligenza” per sposarmi e fare la casalinga? Ecco uno che ha capito tutto: se invece dello psicologo avesse fatto il becchino, il mondo sarebbe stato un posto migliore. Rimango sul vago e gli rispondo che per il momento ho solo pensato di fare il liceo, poi si vedrà. Che cosa gli dico, che so benissimo che cosa non voglio dalla vita, ma che non sono mai riuscita a capire che cosa volevo finché non era troppo tardi? Non è il tipo di persona con cui affrontare un discorso simile, ma nessuno lo è, in questo 1969 in cui ho soltanto tredici anni. Nemmeno Costanza potrebbe capirlo, o forse capirebbe, ma a chi potrei dire che questo è il mio secondo giro di giostra? Alla neurodeliri?
Mi chiede quale liceo, e rispondo scientifico, senza esitazioni. Il perché stavolta ce l’ho chiaro, mi servirà di più l’inglese che il greco antico. A Forlì non esiste ancora un liceo linguistico, e questa volta voglio essere nelle condizioni di andare all’estero, se me ne capiterà l’occasione dopo la maturità, e se troverò il coraggio. Nella vita passata era stata un’avventura anche fare l’università a Bologna, a sessanta chilometri da casa: avevo avuto bisogno di attaccarmi a un “fidanzato mamma” per farmi coraggio, e dopo il raggiungimento della mia indipendenza economica l’avevo lasciato, col risultato di ammazzarmi di sensi di colpa. Stavolta spero di essere più autonoma dentro. Ho capito che l’indipendenza non è soltanto economica, ma anche, e soprattutto, interiore. Non devo buttarmi sul primo lavoro schifoso che capita, pur di scappare dalla gabbia familiare ma senza sapere in quale altra galera mi vado a rinchiudere, perché può essere ancora peggiore.
Nella vita passata il lavoro era stato la mia bestia nera. Avevo fatto di tutto per racimolare qualche soldino e chiederne di meno ai miei: l’operaia, la commessa, la bidella. In famiglia mi avevano cresciuta con un imprinting molto chiaro, tu non sei capace di fare niente, e c’era solo un lavoro dove, nel mio immaginario, non si faceva niente: l’impiegata. Ricordo mio padre che tornava bestemmiando dagli uffici pubblici dopo aver litigato con gli sportellisti, a suo dire una manica di nullafacenti che passavano la giornata nel bar e nei corridoi a chiacchierare. Io non avevo abilità manuali, perché l’alternativa allo studio erano le faccende domestiche, e quelle proprio non le volevo fare, non accettavo nulla che mi potesse rendere simile a mia madre. Non avevo abilità spaziali, perché ero cresciuta in cattività e perfino imparare ad andare in bicicletta era stata un’impresa, ci avevo messo più di un anno. L’esame della patente per me aveva rappresentato uno scoglio più arduo di ventiquattro esami universitari più quello di maturità, tutti insieme. Non parliamo delle abilità relazionali… Me la cavavo peggio di un malato di sindrome di Asperger. Fin dalle medie avevo escluso a priori l’insegnamento, perché non riuscivo a immaginare che una classe stesse zitta e buona ad ascoltare me. Io che ero sempre l’ultimo anello della catena del cesso, quella che apriva la bocca a sproposito, che crollava per un niente, che si angosciava e si faceva venire gli attacchi di panico per le paranoie che le mandavano in confusione la testa, quella derisa da tutta la classe, e passi alle spalle, pure in faccia.
Ma in questo momento sono ancora nel 1969, sto per compiere tredici anni, faccio la terza media e le paranoie non mi prendono perché sono ancora io quella che corre più forte, come si diceva a Bologna negli anni Settanta. In fondo la vita scorre tranquilla, dopo la fortuna della botta in testa. Mio padre sta basso, sa che non può mettermi le mani addosso altrimenti Costanza lo inchioda; mia mamma sembra più tranquilla perché mi vede meno ansiosa di correre fuori casa appena possibile, e io sto bene anche nella mia stanza perché la vita mondana del mio quartiere non è poi quella gran roba che mi era sembrata la prima volta. Anzi, ne faccio volentieri a meno di quelle domeniche pomeriggio a suonare i dischi in parrocchia, dove nessuno invita a ballare il trio “ciccia, brufoli e apparecchio ai denti”, o delle festicciole nelle case libere dai genitori che vanno a trovare i parenti al cimitero. Ho ancora vivissimo il ricordo di quando ci andavo di nascosto dai miei e facevo tappezzeria, oppure qualcuno mi concedeva un lento e io mi illudevo di aver trovato l’amore della vita, a cui seguiva almeno un mese di prese in giro da parte dell’intera scuola media “Camillo Benso Conte di Cavour”. Molto meglio prendere l’autobus con le amiche e fare il solito giro in centro, un gelato e la pizza da Altero, e quattro risate.
A pensarci bene sono diventata come Pallino, che adesso è castrato e non sente più lo stimolo verso le avventure e le risse con gli altri gatti maschi del quartiere. Ci facciamo compagnia, io e lui. Siamo già a novembre e il vomito verde non è arrivato, si vede che stando in casa non si è beccato la malattia che l’aveva fatto morire. Dorme sulla mia pancia mentre io studio o leggo i Linus e gli Urania che porto a casa dal negozietto di libri usati. Costanza mi ha regalato Madame Bovary, l’ho riletto per la terza volta e l’ho trovato ancora più bello, ancora più mio. Madame Bovary c’est moi, diceva Flaubert, e non posso che rubargli la frase. Nel negozietto ho trovato altri classici che ho amato negli stessi anni della vita precedente, l’Antologia di Spoon River, i Peccati di Peyton Place, e tanta fantascienza. Erano gli anni in cui mi nutrivo di astronavi e viaggi nel tempo, e mi va benissimo di rifare il giro una seconda volta, anche perché stavolta sui viaggi nel tempo ho anch’io qualcosa da dire. E poi c’è la palestra. È faticosa, perché ho alle spalle tredici anni passati a sedere, ma in tre mesi noto già dei risultati, qualche microscopico accenno di muscolo sulle mie braccine scheletriche, e il sabato pomeriggio, con le donne poliziotto, sto cominciando a imparare le tecniche di parata e la liberazione dalla presa ai polsi. Per me arrivare a uno spostamento veloce del corpo senza perdere l’equilibrio è un risultato esaltante, e finalmente sento di avere un corpo, e non un bagaglio inerte da portarmi dietro, ma una parte di me, che posso guidare. Non è il mio corpo che fa quello che gli pare, sono io che lo comando e gli dico cosa deve fare. È come quando ho imparato a guidare la macchina: all’inizio mi sembrava che quel mostro meccanico godesse di vita propria, poi ho assimilato i movimenti e i comandi che mandavano la massa di lamiera dove volevo io. Insomma, più o meno… Adesso imparare a guidare il mio corpo è come imparare a guidare la macchina: è possibile anche per me, cresciuta da handicappata.
E poi in questo salto che mi ha portato indietro di quarantaquattro anni ho acquistato la voce. Non ho mai saputo cantare; ogni volta che da bambina ci provavo, mio babbo mi prendeva in giro perché ero stonata ed io mi vergognavo e stavo zitta. Adesso, in questo secondo giro di giostra, so cantare, e ho anche una bella voce. Tiro giù le canzoni dalla mia radiolina col registratore a bobine che, incredibilmente, non mi hanno più sequestrato, e quando le canto, dentro di me fiorisce una felicità che non avevo mai provato, la gioia di avere la voce. Non l’avevo mai avuta, una voce, in nessun campo. In famiglia mi sembrava di parlare in playback, qualsiasi cosa dicessi non l’ascoltava nessuno. Nella vita sociale ero quella strana, la matta che dava in escandescenze e parlava a vanvera, la vocetta petulante che si lamentava e chiedeva aiuto, che due palle. La disperata che aveva sempre bisogno di compagnia e di conforto. Quella che non si reggeva in piedi da sola perché non aveva mai imparato a camminare. Mi ci sono voluti anni per imparare a reggermi sulle mie gambe, e a quel punto ho deciso che non avevo più niente da dire con nessuno. Ogni tanto davo aria alla bocca, per educazione, ma non sprecavo la voce per cercare un contatto con una specie della quale non mi sentivo parte. E in tutto il tempo che dovevo trascorrere sul lavoro, ero muta. Espletati i miei doveri col pubblico e col telefono, mi tenevo rigorosamente alla larga dalle chiacchiere e dai capannelli nei corridoi e alla macchinetta del caffè, tanto ero matta, lo sapevano tutti. E poi non avevo argomenti in comune con i colleghi del Palazzaccio, mi risultava già molto difficile accettare di appartenere alla loro stessa specie. Che anche quelli fossero umani, non me ne facevo una ragione.
Forse tornare indietro nel tempo non ha fatto tanto bene a Beatrice. A tredici anni si è già chiusa in se stessa e sta rifiutando il mondo. Magari ha ragione, lo ha solo capito con un po’ di anticipo.
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