Riassunto delle puntate precedenti
Nel suo tempo Beatrice era depressa, viveva in attesa di andare in pensione da un lavoro vissuto come un incubo, tirava avanti impasticcandosi come un metallaro e aveva perso le speranze. Al secondo giro, il 2013 è tutta un’altra giostra.
Ormai per incontrare la giovane me stessa mi tocca ricattarla. In fondo ha tredici anni, conosce un po’ di mondo solo attraverso internet, e si fa presto a farle paura. Le ho fatto credere che, se non mi dedicherà il tempo che mi serve, smetterò di andare a scuola, entrerò in fabbrica e mi farò mettere incinta dal primo stronzo che capita, così nel 2013 lei si troverà come tutte le mie coetanee cadute in quel burrone. Nonna e disoccupata. Troppo giovane per avere una pensione e troppo vecchia per lavorare ancora, in una città in cui la crisi economica ha fatto chiudere quasi tutte le attività, specialmente i negozi e le piccole fabbriche in cui le ragazze dei primi anni Settanta avevano trovato lavoro. Le ho perfino detto dove incontrarle, quelle sue coetanee grasse e sformate che si scapicollano tra genitori vecchi e nipoti da badare, e di pensarci bene, se le va di fare la stessa fine. L’ho convinta che il suo presente dipende da me, dal passato comune, e credo di averle messo il pepe al culo, perché si sta dando molto da fare a preparare il Kindle secondo le mie istruzioni.
Il nostro compleanno è passato da poco. A lei ha portato un nuovo giocattolo tecnologico – un I Pad – e a me finalmente una scrivania vera per fare i compiti. Ho perfino un paio di cassetti che si chiudono a chiave, e un Kindle è un oggetto abbastanza piccino e simile a un’agenda per potercelo nascondere, basta che la signorina si decida a prepararlo. Così potrò finalmente capire se posso affrontare questo secondo giro con una rete di protezione, un’assicurazione per la libertà, o se mi dovrò accontentare della consapevolezza dei nuovi rischi da evitare. Nel mio primo giro di giostra i vaghi interessi che sporadicamente spuntavano nella mia testolina disorientata naufragavano miseramente. Alle medie avevo cominciato a nutrire un forte interesse verso la psicologia e lo studio dell’inconscio, ma nel colloquio di orientamento il consulente porcellone, per spaventarmi, mi aveva prospettato un percorso di studi lungo e difficile, compresa una laurea in medicina, che mi incuteva un sacro terrore. In una famiglia come la mia “studiare da dottore” sarebbe stata una sfida agli dei, un “alzare la cresta” da punire per eccesso di superbia, e in ogni caso una simile sfida al destino poteva essere permessa, al limite, a un figlio maschio, mai a una femmina, che a detta di mio padre “era una fregatura”. Ecco le sue testuali parole, una domenica, in mezzo ai parenti, con me presente: la figlia femmina è una fregatura, la fai studiare e poi lei si sposa e hai buttato via i soldi. C’era di che crescere con entusiasmo.
Nonostante queste affermazioni da paese islamico, i miei mi facevano studiare volentieri, perché prendevo buoni voti e soprattutto perché non c’era un figlio maschio da farmi passare davanti. Loro non mi spingevano mai in modo diretto a studiare, anzi: dicevano sempre che mandarmi a scuola rappresentava un grosso sacrificio economico, da sostenere solo a fronte di risultati eccezionali, anzi, di più. In caso contrario, dopo la terza media sarei andata a lavorare, almeno fino a quel maledetto matrimonio. Poi sarebbe stato il marito a decidere per me. Queste allegre prospettive mi inorridivano al punto che digerivo qualsiasi materia senza fare una piega, perché nella mia testa “lavorare” voleva dire entrare in fabbrica e soffrire come mio padre, oppure fare la fine di mia madre, che era una figura veramente agghiacciante. Tiranneggiata dal marito e dalla suocera, schiacciata dagli obblighi, mi sembrava una vecchia grigia e distrutta ancora prima dei quarant’anni. Non potevo credere che avesse la stessa età di certe sue clienti, tutte vispe e pimpanti, che magari avevano meno soldi di noi, ma un altro modo di affrontare la vita. Lei non si prendeva neppure il tempo di respirare, tra la sartoria, la casa e la suocera. Lavorava e taceva, con quella terribile faccia da nemesi, e se parlava con me era solo per sgridarmi o per sottopormi a interminabili interrogatori. Le mie amiche, cresciute in famiglie più povere della nostra, ma più allegre, riconoscevano la depressione in una persona se aveva gli stessi occhi di mia madre. Dicevano che era una diagnosi infallibile. Evidentemente questi occhi le avevano colpite, se li ricordavano ancora dai tempi dell’infanzia.
Il lavoro non era mai stato fonte di alcuna soddisfazione per i miei, neanche come vita sociale. Mio padre non aveva amici in fabbrica, litigava con tutti – col tempo ho saputo che lo chiamavano “cerino” perché prendeva fuoco subito – e mia madre odiava sia le clienti sia le miserabili donnette che passavano il pomeriggio con lei a cucire e approfittavano gratis della sua esperienza, però non le mandava via. Le sopportava in nome del “non si può mai sapere”, del “si può avere bisogno di tutti”. I miei genitori erano stati un ottimo esempio di vita al negativo, avevano incarnato le cose da evitare a tutti i costi, ma io ero sempre stata così impegnata a schivare i pericoli che non avevo mai avuto il tempo né la capacità di trovare qualcosa di positivo a cui aspirare per il futuro. E aver già fatto un giro in quel futuro aveva solo peggiorato le carte, perché alla loro esperienza negativa dovevo sommare anche quella della mia vita precedente. Proprio per questi motivi mi era venuta l’idea di tentare di crearmi una specie di assicurazione per gli anni a venire, in modo da concedermi uno spazio di manovra che mi liberasse dall’ossessione di trovarmi un lavoro qualsiasi e ad ogni costo, per scappare dai miei e cadere poi in un’altra galera lunga più di quarant’anni.
Nella vita precedente, Beatrice era sempre stata così impegnata a schivare i pericoli che non era mai riuscita a trovare qualcosa di positivo a cui aspirare per il futuro. E il secondo giro di giostra era irto del doppio di rischi da cui proteggersi. Proprio per questo, le è venuta l’idea di crearsi una specie di assicurazione per il futuro.
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