Riassunto delle puntate precedenti
Beatrice è caduta dentro uno specchio, dritto dal bagno delle Orche Assassine a un’ospedale pulcioso, da terzo mondo. È il 1969, deve ancora compiere tredici anni, e suo padre ha esagerato con le botte. Forse, sfruttando abilmente la situazione, può rimettere a posto alcuni guasti della sua vita passata.
Dopo qualche altro giorno di ricovero, mi mandano a casa. La poliziotta mi accompagna fino alla macchina del babbo, la vecchia Prinz che avrei guidato anch’io, nei miei primi anni da impiegata fuori sede. Questa signora mi è diventata molto simpatica, mi ricorda la poliziotta Linda di Under the Dome, una delle serie TV che seguivo nel mio mondo – oh cazzo, dovrò aspettare più di quarant’anni per sapere come va a finire… – e mi sembra di essere abbastanza in sintonia con lei. Si chiama Costanza, ha trentacinque anni e viene da un paesino del Friuli. Si è arruolata in Polizia nel 1960 – prima erano ammessi solo i maschi – e se inizialmente aveva scelto quel mestiere solo per andare via da casa ed essere indipendente, adesso lo esercita con passione, perché le permette di aiutare le donne in difficoltà. I primi anni ha lavorato a Milano, e odia questo piccolo e sonnolento paesone della Romagna dove i colleghi la trattano come un misto tra una lebbrosa e una puttana, però studia legge per fare carriera e andarsene in una città più grande, magari a Bologna. Mi regala un libro, Madame Bovary. Per qualche misterioso motivo sa che è il mio romanzo preferito, o semplicemente ci accomuna l’insofferenza per la mentalità bigotta e provinciale? Piccola città, bastardo posto… L’ha già scritta, Guccini? Non mi ricordo. Ringrazio Costanza con un abbraccio e con un “Madame Bovary c’est moi” che la lascia sbalordita. Dice che verrà a trovarmi, e spero che mantenga la promessa.
Quando mi trovo nella casa in cui ho vissuto con i miei genitori fino a diciannove anni, mi prende lo sconforto. L’ho sempre odiata, e appena ho potuto sono scappata a Bologna con la scusa dell’università. Adesso mi aspettano sei anni in questo posto assurdo, gelido in inverno e afoso in estate – più o meno come il cubicolo che occupavo nell’Acquario delle Orche Assassine – a dividere la camera da letto con mia nonna, che mi faceva morire dal caldo con le sue finestre chiuse, non voleva che leggessi a letto perché diceva di non riuscire a dormire, però russava tutta la notte come il coro dell’Armata Rossa. E meno male che era lei quella che non riusciva a dormire. La nonna è come la ricordavo, arcigna, seduta sulla sua poltrona in cucina, mentre mi guarda con gli stessi occhi di mio padre nei momenti cattivi, quelli da inquisitore folle. Non voglio vedere nessuno, o meglio, nessuno di umano; cerco solo il mio gatto. Da qualche anno, anche in quell’angolo di tempo ero riuscita a ottenere l’unica compagnia che ho sempre desiderato intensamente, quella di un gatto. Si chiamava Pallino ed eravamo cresciuti insieme. I gatti di allora vivevano in strada e non erano ben accetti nelle case, ma il mio Pallino era l’unico in famiglia con cui stavo bene. Però ricordo che sarebbe morto nell’ottobre di quello stesso anno, dopo alcuni giorni di vomito verde. Allora non si andava dal veterinario per i gatti, ma solo per i cani da caccia, che valevano soldi. Quanto vale l’amore di un gatto è difficile spiegarlo nel terzo millennio, potete immaginarvi nella Romagna degli anni Sessanta, in un quartiere povero, e in una famiglia che vive della sola busta paga di un operaio e dei saltuari lavoretti di sartoria di una casalinga.
Pallino mi corre incontro a coda dritta e ci facciamo grandi feste, con sommo scandalo della nonna, che ho salutato appena di striscio, ed è già troppo, visto che la vecchia morirà solo nel 1979 e romperà i maroni fino all’ultimo. Invece per Pallino so di avere poco tempo. È tenuto male, graffiato dai combattimenti con gli altri gatti, un po’ pulcioso, mai curato né vaccinato, ma il mondo allora andava così. Abbiamo la camera da letto solo per noi, almeno per un po’, finché non comincerà il circo dei parenti e delle vicine pettegole. La stanza in cui dormo è veramente sconfortante: il letto della nonna attaccato al mio, nessuna privacy, per studiare nemmeno una scrivania ma solo uno di quei tavolini su cui si appoggiavano le radio dell’epoca, monumenti a valvole che sembravano una cassa da morto per bambini. Ho una libreria fatta in casa con tubi di ferro e assi di compensato, e pochi libri, praticamente solo quelli di scuola. Per ascoltare la musica, una radiolina a pile che prende solo due canali, e il registratore a bobine del babbo, che gentilmente mi concede e poi di arbitrio suo mi toglie quando gli girano i coglioni, cioè piuttosto spesso.
Mentre tengo Pallino sulle ginocchia e lo accarezzo, scoppio a piangere di nuovo, pensando ai gatti che ho lasciato nel 2013, gli amori con cui vivevo in simbiosi tutto il tempo che non passavo chiusa dentro al palazzaccio. I miei due gatti e mio marito: eravamo una squadra che non si separava mai. Qualche volta io e Massimo andavamo in vacanza e affidavamo i gatti alle cure di una vicina, ma stavamo via sempre meno, perché ci mancavano. Massimo, mio marito. Il mio amore, il mio complice, il mio socio e migliore amico, anzi, il mio unico amico. Formavamo una testuggine come facevano gli antichi Romani, e sotto lo scudo del nostro rapporto ci proteggevamo dagli attacchi del mondo esterno. Mi manca in modo straziante, mi sento come se mi avessero strappato un braccio o una gamba. Certo, so dove abita anche in questo mondo passato, ma cosa faccio, mi presento a un ragazzino di quindici anni e gli dico “Ciao, io sono quella che diventerà tua moglie”? Robe da manicomio. Ci siamo conosciuti nel 1982 e abbiamo cominciato a stare insieme due anni dopo. Poi non ci siamo più lasciati, finché io non sono caduta dentro lo specchio del bagno dell’Acquario delle Orche Assassine. Ma allora, nel 2013 chi c’è, adesso? La me stessa tredicenne, caduta nel mio corpo di cinquantasettenne?
Il pensiero mi preoccupa, e ricordo che nel mio secolo, prima di svenire, nello specchio del bagno avevo visto una mano che scriveva qualcosa sul vetro appannato. Non era la mia, perché io stavo tenendo i polsi sotto l’acqua fredda, e forse, mi viene da pensare, non scriveva dalla mia parte. Era al di là dello specchio. Posso provare con questo bagno, l’unico che ho a disposizione. Avvilente, come il resto della casa. Non ha la vasca, solo una doccia montata di fianco al wc, e nemmeno una tenda di plastica a isolarla un po’. Come cacchio si fa a lavarsi in queste condizioni? Lo specchio è piccolo e squallido, e riflette la mia faccia da tredicenne spaventata. Lo scruto fino a farmi venire male agli occhi, ma non vedo nient’altro che il riflesso degli asciugamani appesi all’attaccapanni sulla parete. E intanto è cominciato il circo dei parenti, infatti sento la voce stridula di mia mamma che mi richiama all’ordine.
Ci sono tutti: le zie zitelle, quelle che invece hanno partorito i miei cugini, il branco di mostriciattoli urlanti a cui nessuno cerca di insegnare l’educazione perché “sono maschi”, la cugina perfettina, quasi mia coetanea, che ogni giorno vuole vincere la medaglia di brava figliola e si distingue nei lavori domestici, nel ricamo e nell’assidua frequenza alla messa. Quella che mia mamma mi porta come esempio tutti i giorni e che “lei sì che si troverà bene nella vita, si sposerà con un bravo ragazzo, magari un ingegnere”. Da spararsi in bocca solo a pensarci. Sono tutti lì con la faccina falsa e compunta, che mi chiedono come sto, e nello stesso tempo mi guardano con un misto di disprezzo e rimprovero, come dire “Chissà che cosa l’ha scoperta a fare, il suo babbo, per mandarla all’ospedale…”
E certo, stavamo facendo una gang bang sulle scale del condominio. E come no? Ricordo benissimo di che cosa si parlava quella domenica pomeriggio: dei miei peli. Con la cattiveria propria degli adolescenti, quella stronzetta della mia amica mi faceva notare che a me, invece delle tette, crescevano i peli sulle gambe, e il ragazzino sghignazzava. Almeno il pensiero mi distrae dal circo dei parenti, e butto uno sguardo ai miei polpacci, ricoperti della più infame peluria che mi sia mai vista addosso. E il mio Silkepil, naturalmente, è rimasto nel 2013.
Come finirà la lotta tra Beatrice, i peli e i parenti? Tra una settimana vedrete…
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