Riassunto delle puntate precedenti
Beatrice torna a casa dall’ospedale, dopo le botte prese da suo padre. Dal 2013 e dall’odioso lavoro nell’Acquario delle Orche Assassine è caduta nel medioevo degli anni Sessanta in Romagna, è finita all’ospedale per aver chiacchierato con un coetaneo di sesso maschile, e si ritrova rinchiusa nella galera familiare. Però del suo caso si interessa Costanza, un’ispettrice di polizia che la prende sotto la sua protezione e la iscrive al corso di difesa personale frequentato dalle donne della Questura.
Questo mese di settembre del 1969 è volato come un lampo. Ho studiato otto ore al giorno per recuperare le materie scolastiche, però vado in fretta, ho un cervello giovane e fresco, ottima memoria, e una capacità di attenzione e di concentrazione di cui avevo perso le tracce. Il sabato pomeriggio Costanza e la sua collega vengono a prendermi per il corso di difesa personale, che per me è il momento culminante della settimana. In questo secolo non ho il fisico allenato del 2013, quando facevo lunghi giri in bicicletta e tanta palestra. Allora rifiutavo ogni attività fisica per due motivi: mio padre me la voleva imporre con la forza, e con gli altri bambini non riuscivo a stare alla pari nei giochi di velocità e abilità. Non riuscivo a fare proprio nulla, perché in quella famiglia di squilibrati mi avevano cresciuto chiusa in casa, in totale isolamento. Fino alla quinta elementare la mamma mi portava a scuola e mi veniva a prendere, e in classe mi raggomitolavo sul banco ascoltando la maestra e cercando di non pensare alle trenta scimmiette sghignazzanti che mi prendevano in giro perché non sapevo niente della vita e del mondo. Solo la mia compagna di banco, la mia unica amica, parlava con me e in qualche modo mi proteggeva dall’ambiente ostile.
Arrivata alle medie avevo provato il desiderio di uscire dal mio isolamento e di integrarmi nella vita sociale dei miei coetanei, ma non ne azzeccavo una. Mi mancavano dieci anni di apprendimento e non conoscevo i codici e le regole della comunità. I ragazzini sono ferocemente crudeli con chiunque sia diverso, strano, vulnerabile; io del resto ci mettevo del mio, con un’incomprensione quasi autistica del linguaggio non verbale, e non sempre gli insegnanti si rendevano conto delle mie difficoltà. Anzi, qualcuno si impegnava per farmi sentire ancora più handicappata. Solo la professoressa di italiano e storia aveva capito che avevo dei problemi e se non altro non mi buttava in mezzo al ring, come il professore di francese, che mi terrorizzava col suo vocione, o l’insegnante di lettere del primo anno, che per “scantarmi”, come diceva lei, mi aveva deportato d’ufficio in una fila di banchi dove non conoscevo nessuno e non avevo neppure il coraggio di respirare.
Comunque, nonostante la mia completa mancanza di muscoli, anzi, proprio per quello, mi sono buttata con energia nel corso di difesa personale del sabato pomeriggio. Per i primi venti minuti si corre e già questo è uno sforzo inaudito, perché in tredici anni non avevo mai fatto una corsa, però Costanza mi insegna come impostare un ritmo regolare e mantenerlo fino alla fine. Non ti preoccupare se sei lenta, mi dice, l’importante è che arrivi in fondo. I cento metri li vinciamo il prossimo anno… Avere Costanza accanto a me mi aiuta a superare tutti gli ostacoli, anche il più duro, gli addominali, per i quali mi sembra che occorrano abilità da supereroe, ma con pazienza e perseveranza, alla fine del mese riesco quasi a finire una serie. Certo che se non ci fosse lei, l’istruttrice mi avrebbe buttato fuori dal corso già da un pezzo. Per completare l’opera, nella mezz’ora di esercizi di difesa personale mi faccio compatire dal mondo intero: non si può dire che ho i riflessi lenti, non li ho proprio, i riflessi. Come fa ad avere i riflessi una ragazzina che ha passato tutta la sua vita chiusa in casa, o seduta a un banco di scuola? Anche qui è lo sguardo severo di Costanza che impedisce alle altre allieve e all’insegnante di farmi oggetto delle battute feroci con cui si prendono in giro fra loro, ma la prima volta in cui mi riesce correttamente una parata si solleva un boato di trionfo, e sono io la prima a esultare. Stavolta, We are the champions l’ho cantata anche se i Queen non l’hanno ancora scritta.
Quel fanatico di mio padre, che non la vuole dare vinta a Costanza proprio fino in fondo, mi ha obbligato a continuare anche con il tormento della ginnastica medica con cui mi asfissia fin dagli anni delle elementari, perché “ho la scoliosi”. Mai che gli sia venuto in mente di lasciarmi giocare all’aperto con gli altri bambini, come usava negli anni Sessanta. No, dovevo stare in casa, il mondo era irto di pericoli… Così facevo i compiti e poi giocavo da sola, di solito sotto al letto o dentro l’armadio. Avere la scoliosi era il minimo, comincio anche a capire perché sono rimasta “alta” un metro e cinquantotto. Comunque, lui crede di farmi un dispetto imponendomi quei noiosissimi corsi con la palla medica e le spalliere, ma visto lo stato indecente del mio fisico, mi va bene. Qua c’è da lavorare per anni, per scolpirsi un filino… E poi quest’anno, in via del tutto eccezionale, ho ottenuto il permesso di andare da sola alle lezioni di ginnastica, con l’autobus. Nel mio mondo del 1969 è più o meno come l’equivalente di oggi del primo viaggio a Londra con le amiche.
La precisione nazista di mia madre controlla l’orario di partenza e di arrivo dei bus, e anche quanto tempo ci metto a piedi dalla fermata a casa – non sia mai, che mi fermi a fare due chiacchiere con qualcuno – però a Forlì il trasporto pubblico è sempre stato scarso, e mentre aspetto l’autobus mi rimane il tempo per la sosta al negozietto che fino alla fine del liceo è stato il mio rifugio e il mio covo segreto. Vende libri e fumetti usati, che in quegli anni sono stati la mia droga per scappare lontano. Finita la ginnastica corro via come una lepre e mi seppellisco tra i suoi scaffali. Non ho mai molti soldi, ma riesco sempre a racimolare qualcosa per un Urania o un numero di Linus, la mia dose per sopportare la famiglia e le sue ossessioni. Ho tutto un mondo di fantascienza, fumetti e narrativa varia da riscoprire. Mi è passata la smania di integrarmi nella vita sociale delle mie compagne di classe, perché non mi va più di essere il loro zimbello e di farmi umiliare da certe stronzette che si faranno mettere incinte a sedici anni dal primo idiota di passaggio e trascorreranno il resto della vita a prendere delle botte dal marito. La mia diversità non la vivo più come un handicap, ma semplicemente come il mio modo di essere. Per colpa delle fobie di una famiglia di psicopatici mi sono mancate le prime, essenziali esperienze di comunità e di abilità spaziali e relazionali, ma ho tutta la vita davanti per recuperarle, e posso fare con calma. Per la prima volta sento che è bello avere tutta la vita davanti, e che i prossimi non sono “anni a perdere”, che devono solo passare perché ci si alza al mattino sperando che arrivi in fretta l’ora di tornare a letto, ma anni importanti, in cui ho la possibilità di ricostruire la mia vita.
Però non posso fare a meno di pensare a chi ci sarà al mio posto nel 2013. Sempre la me stessa di allora, chiusa nel bagno a schivare le sfuriate della Kapò delle Orche Assassine? O c’è stato uno scambio, e nel nuovo secolo ci è finita una ragazzina di tredici anni che non sa neppure guidare la macchina? Mi rompo la testa a pensare come posso fare a entrare in contatto con l’epoca da cui sono fragorosamente caduta nel passato. Provo sempre a scrutare dentro gli specchi, ma finora non ho trovato tracce di quel dito che scriveva sul vetro, anche se sono convinta che un significato lo deve avere. Dovrei trovare un posto che abbia qualcosa in comune con le due epoche, e la casa dei miei non è il luogo più adatto, perché dopo esserne uscita ci ho rimesso piede sempre malvolentieri e solo in occasione dei pranzi di circostanza, in cui mia mamma continua a propinare le sue sbobbe stracotte e insipide e si lamenta perché “non li vado mai a trovare”. Forse potrei visitare la casa in cui io e mio marito vivevamo insieme… Esiste già, era un palazzo vecchio di secoli; nel nostro appartamento ci abiterà altra gente, ma vale la pena provare. La mia libertà di movimento è scarsissima, però posso fare buco da un’ora di ginnastica medica e tentare anche questo esperimento. Così oggi pomeriggio farò finta di andare in palestra, per raggiungere la strada in cui abitavo con mio marito, nel secolo da cui sono caduta giù.
Cosa troverà Beatrice in quel vecchio palazzo del centro? Grandi sorprese…
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