di Endriu
Dopo il rifugio, dunque, iniziò l’avventura di via Irnerio, nell’appartamento al secondo piano di un bellissimo palazzo vecchio sull’angolo con Via del Borgo di San Pietro. I pronostici non erano buoni. L’house warming consistette in una visita da parte di ignoti che aveva creato un po’ di panico, e l’aggiunta di una nuova serratura alla porta. Io avevo depositato alcune cose prima dell’estate, ma tutto era ancora imballato e nascosto sotto il letto, e i ladri non si erano neanche sforzati di aprire la mia roba. In effetti, non devono essere stati molto svegli: non si erano nemmeno accorti di un mucchietto di soldi lasciati per pagare una bolletta, su uno scaffale in corridoio, vicino al telefono. Che furbi! Si sono invece mangiati un peperone, in cucina, poi hanno preso qualche vestito dalle altre ragazze. Pare che li abbiano pure provati, prima di prenderli. Saranno stati dei punkabbestia, magari amici della gentaglia che viveva al piano di sopra, che ogni tanto ci ricordavano della loro esistenza facendo attività artistiche (scultura sperimentale) e agonistiche (calcetto indoor), spesso di notte. Di fianco a noi c’era un altro appartamento di studenti, meno fastidiosi ma altrettanto antipatici: una volta incrociai una di loro mentre stava uscendo da casa, sulla scala, e quando la salutai mi guardò come per dire “Ma che cazzo vuoi?”. E chi ha mai detto che gli italiani non sono calorosi, simpatici e aperti?!
Di fronte invece avevamo una signora che mi ricordo solo per averci accusate, una volta, di non pulire davanti alla nostra porta. Da brava bolognese doc, piena di rancori contro studenti e immigrati. Per completare il quadro, al piano di sotto c’erano due buttafuori con un Dobermann, e un bar losco frequentato sostanzialmente da punkabbestia, dove una notte fu addirittura sparato qualcuno. Sotto la mia finestra, praticamente! Pare che via Irnerio, lì all’angolo con Via del Borgo di San Pietro, si sia trasformata – per alcune ore – in una scena del delitto alla NYPD o CSI, ma io non ho né visto né sentito nulla. Il palazzo, però, era molto bello. Nero per lo smog, ma bello. La nostra stanza aveva un balcone, e le finestre erano ad arco, con una colonna in mezzo, come i tipici palazzi vecchi di Bologna. Sui quattro muri, in alto, c’era una decorazione che faceva il giro della stanza, e il pavimento era di legno. Proprio bello, anche se scomodo: i vetri erano ancora quelli originali, mi sa, e c’erano tanti spifferi. E io non avevo nemmeno una coperta! Nella vecchia casa me l’avevano data loro, ma qui bisognava arrangiarsi. Allora per un po’ di tempo ho usato il sacco a pelo, da pezzente, fino a quando Svejk (Dal diario di un’olandese volante n. 17) non mi ha regalato un superpiumino da letto matrimoniale.
Il peggio però era Enza, la mia nuova compagna di stanza. Fisicamente era una punkabbestia, con tanto di piercing e voce rauca da fumo e spritz. Non che non fosse simpatica. Era anche socievole e altruista, fino a quando non passava la prima fase di scoperta e conoscenza. Poi si è rivelata egocentrica, vanitosa e schizzinosa. E pensare che mi ha sgridato, una volta, perché aveva lavato i nostri vestiti insieme con gli stracci di casa, che qualcuno aveva messo nel cesto del bucato, mescolando tutto. Ok, aveva ragione, non è molto igienico, ma mica era colpa mia. Intanto la lavatrice lava, no? Ma poi mi ha sgridato in senso letterale, cioè mi ha urlato contro come i punkabbestia quando litigano tra loro, ubriachi fradici, davanti ad un bar in via Mascarella, il venerdì sera. Un’altra volta era ammalata e io le ho offerto, gentilmente, di preparare un’insalata anche per lei. A me piace l’aglio e allora non avevo tanto il concetto di cosa ci va e cosa non ci va in un’insalata, per cui ci ho messo l’aglio senza chiederle se le piace. Sbagliato, ok, ma non ero mica in malafede! E non c’era bisogno di urlarmi contro come se le avessi tagliato una gamba! E’ che lei aveva queste fisime, queste fantomatiche allergie che la rendevano insopportabile.
Eh già, Enza era un mix di fighettismo e di asocialità di strada, la finta ‘ribelle’ di una famiglia benestante abruzzese che voleva farle fare la farmacista. Lei ci ha provato per un po’, ed era pure brava, almeno così diceva, ma non era quello che cercava nella vita. Avrebbe voluto fare la stilista di moda, la fashion queen, e non poteva. Quindi si lamentava del fatto che al fratello minore i genitori avevano lasciato fare quello che voleva, pagandogli pure la scuola specializzata. Invece lei, la più grande, doveva soddisfare il loro desiderio di avere almeno un figlio ben sistemato. E fin qui aveva ragione a scappare a Bologna, per farsi una vita propria.
La sua storia non era poi troppo dissimile dalla mia: era venuta a Bologna per studiare al DAMS, il corso che si avvicinava di più al suo sogno di fare la stilista. Ma per i genitori non era una scelta ‘per bene’, e ha dovuto cambiare direzione. Ha scelto filosofia, un compromesso sia per loro che per lei, visto che era il corso che si avvicinava di più al DAMS, rispetto alle altre facoltà. Anch’io avrei voluto fare l’artista, e invece mi hanno costretto a fare l’università, e l’unico corso che andava bene a mia madre era il francese. Io, però, mi sono tirata fuori da questo giochino, ho trovato una strada che mi piace, anche se non mi rende nulla, per ora, ma forse un giorno ci arriverò. Lei, invece, si è rassegnata, e non faceva altro che lamentarsi autodefinendosi la pecora nera della famiglia. Parlare con lei era sempre una competizione: chi stava peggio? Se parlavo di un esame difficile, per esempio, lei me ne descriveva uno impossibile da fare. Se dicevo che dovevo trovare lavoro perché i miei non potevano mantenermi, lei ribatteva facendomi il ritratto di una poverissima famiglia, tipo anni 50, prima del miracolo economico. Lei che al polso aveva un orologio da mille euro, regalato dai genitori! Mi viene in mente lo sketch dei Monty Python, dove stanno litigando su chi ha sofferto di più o chi è più sfigato dell’altro, esagerando e inventandosi delle storie assurde.
Se poi stavano così male, i suoi, perché gli faceva pagare le tasse dell’università senza frequentare mai un corso? Quando arrivai in via Irnerio, lei doveva superare un ultimo esame prima di fare la tesi. Ha frequentato il corso per un mese credo, poi ha smesso, e per i due anni seguenti non ha mai messo un piede fuori casa se non per l’aperitivo con gli amici, uscire la sera, fare spese oppure andare a lavorare in Montagnola, lo storico mercato di Bologna che era a due passi da casa nostra. Eh già, poverina, i suoi non le pagavano l’affitto e doveva pure lavorare… Due giorni a settimana, per intenderci. Il resto della settimana si truccava, si faceva i capelli, guardava la TV o passava il suo tempo con l’amica del cuore, Veronica. Fino a quando i genitori non le hanno regalato un portatile. Chissà a cosa hanno dovuto rinunciare per poter fare questo sacrificio: forse il nonno ha venduto un rene? Immagino che la scusa ufficiale per avere il computer fosse quella di dover scrivere la tesi, come se non avessero dei computer all’università. Sì, ma poi è scomodo, fare 500 metri fino a Palazzo Paleotti, la sala studio con i computer. Poverina. Se poi prende un virus toccando la tastiera sporcata dall’utente precedente? Beh, avrete capito. In realtà lo usava per guardare i DVD e giocare, essendo un’appassionata dei videogames. Quando una volta gliel’ho chiesto in prestito per scrivere qualcosa in Microsoft Word, ho scoperto che lei manco sapeva di avere Word, figurarsi averlo mai usato! Con la sua voce rauca da punkabbestia mi fece: “Hey, ma cos’è questo programma? Dove l’hai trovato? Che figo!”.
Che cogliona.
editing by Beatrice Nefertiti
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