Riassunto delle puntate precedenti
Nel secolo passato Beatrice si è chiusa sempre di più in se stessa e nel suo mondo fatto di libri e musica, in compagnia del suo gatto. Una delle tante sere di burrasca familiare la spinge ad aprire l’armadio e tirare fuori lo specchio che la mantiene in contatto con l’altra Beatrice, quella che è salita di quarantaquattro piani nel nuovo millennio, e che se la passa decisamente meglio di lei.
È sempre più difficile trovare in casa la Beatrice del terzo millennio. Adesso che non lavora, lei e mio marito, che è in pensione, hanno un’intensa vita sociale. Cinema, musica, cene… lui fa di tutto per accontentarla, con la speranza che recuperi la memoria perduta. È bene che continui a provarci, tanto non ci riuscirà mai. La sua memoria è qua, sono io, crollata indietro di quarantaquattro anni, chiusa al buio nella mia stanza, a casa dei miei, con un padre che dà in escandescenze giù in cucina. Sono riuscita perfino a trovare la chiave della porta e quando tira aria cattiva mi chiudo dentro, anche se so di provocare una reazione feroce. Lui non tollera le porte chiuse, comincia a prenderle a calci finché mia nonna non gli ricorda quanto costano. Per sicurezza tengo aperta la finestra e mi siedo sul davanzale, così è informato che se lui butta giù la porta io mi tuffo dal secondo piano, e poi glielo spiega lui, in questura. Chissà quanto si divertono i vicini e gli umarells che la sera vanno al circolo a giocare a carte. Tanto lo so che gli danno tutti ragione, perché le figlie femmine devono stare a testa bassa e ubbidire ai padri. La Romagna del 1969 non è tanto diversa da un paese islamico.
Questa sera la signorina Beatrice è in casa. La trovo già in pigiama, a struccarsi davanti allo specchio. Quando è caduta nel terzo millennio e ha trovato il suo bagno – un bagno tutto per sé – fornito di ogni bene per il maquillage, è impazzita e si è buttata negli esperimenti. Per fortuna sono riuscita a impartirle qualche lezione di trucco e a non farla uscire conciata come un pagliaccio. Ha imparato quali colori le stanno bene e come dosare il fondotinta per non somigliare a Berlusconi, però stasera ho qualcosa da ridire: la riga di kajal dentro l’occhio non è perfetta. Vorrei mostrarle come si fa, ma io non ho una matita per occhi. Non ho un bel cavolo di niente, a casa dei miei, in terza media. Però stasera succede qualcosa di sorprendente: Beatrice prende in mano una matita nera e me la passa attraverso lo specchio. La afferro al volo ancora prima di rendermi conto che un oggetto del 2013 è tornato indietro nel tempo. Allora è possibile… Siamo molto stupite tutte e due per questo varco che sembra mettere in comunicazione i nostri due mondi, così ne approfitto, voglio anche un mascara. Lei me lo allunga e io lo afferro come se fosse una bacchetta magica. Armata di esempi concreti, le mostro come usarli per non somigliare a un panda e di là dello specchio anche lei smette di impugnare la matita come una clava. Facciamo lezioni di trucco finché non sento i passi di mia nonna che sale le scale ma prima di chiudere lo specchio nell’armadio, la stronzetta mi chiede indietro il mascara. Che faccia tosta… Le dico Cazzo, non hai niente da fare dalla mattina alla sera, domani ti fai portare da Yves Rocher al centro commerciale e te li compri nuovi. Ah sì, è vero, lei non sa dove si comprano le meraviglie che riempiono la mensola del mio specchio, e a me serve qualcosa. La munisco di istruzioni e lista della spesa e ci diamo appuntamento per il pomeriggio seguente.
Il giorno successivo sono agitata fin dalla mattina. Se lo specchio è un portale di comunicazione tra i nostri secoli, mi si aprono infinite possibilità. La matita e il mascara me li porto a scuola, nell’astuccio, sia perché mia mamma non li trovi nella sua quotidiana ispezione delle mie cose, sia per il terrore che spariscano, che tornino nel loro tempo. Passo tutta la mattina stringendoli in mano e non ho neppure il coraggio di mostrarli alle amiche, per la paura di provocare un paradosso spazio-temporale. Dopo pranzo, appena possibile apro l’armadio e mi sistemo davanti allo specchio da toletta che ci mette in comunicazione. Naturalmente non c’è nessuno. Il bagno è deserto. Lo controllo ogni quarto d’ora intanto che cerco di fare i compiti e finalmente, verso sera, la vedo arrivare. È stata all’Iper di Savignano e ha saccheggiato i negozi. Già, nel 2013 Beatrice non va a lavorare ma la pagano lo stesso, è in infortunio sul lavoro, dopo che è caduta dalle scale del Palazzaccio. Tutta contenta, mi mostra gli acquisti e io ne approfitto per impartirle anche qualche lezione di abbigliamento. Ricordo che alla sua età non avevo la minima idea di come si accostavano le fogge e i colori e lo avevo imparato da sola, col tempo, dopo anni di prese per il sedere da parte delle amiche.
Le avevo chiesto di comprarmi un Silkepil e per fortuna si è ricordata. Questo è il momento che aspettavo con maggiore ansia: ho bisogno di capire che dimensioni possono avere gli oggetti in grado di attraversare lo specchio e un epilatore è più grande e tozzo rispetto a una matita. Con calma – e che fretta ha, la Beatrice del terzo millennio, a casa dal lavoro e con lo stipendio pagato? – e mentre io friggo dall’impazienza, lei scarta l’oggetto, lo studia, e decide di tenerlo per sé. Mi darà quello vecchio. Va bene cara, basta che ti spicci, se no mi muori di vecchiaia. Il mio vecchio Silkepil è sottile ed entra facilmente nello specchio, ma l’alimentatore è un cubo grosso e tozzo e Beatrice non sa come fare a passarmelo. Sembra che la forma degli oggetti sia importante, che riescano ad aprirsi un varco solo quelli più affusolati. La faccio provare a spingere con gli angoli ma ho una gran paura che la mia idea serva solo a rompere lo specchio. Mentre facciamo le prove, mio marito entra nel bagno, dalla sua parte, e lei spinge con forza verso di me lo scatolotto, che mi vola in testa come un sasso. Lo prendo al volo prima che cada e rimango a bocca aperta, a guardare di là dello specchio l’uomo con cui, nell’altra vita, stavo insieme da trent’anni.
Mi manca moltissimo. Lui era tutto il mio mondo, non solo il mio compagno ma anche mio fratello e il mio unico amico. Insieme avevamo superato i vari inferni lavorativi e affrontato debiti e malattie, ma ci eravamo anche tanto divertiti. Avevamo viaggiato, riso, sparato cazzate, letto gli stessi libri, fumato, delirato, e col tempo io non avevo più avuto bisogno di nessun altro. Noi due, i nostri gatti e tutto il mondo fuori. Lui aveva avuto la fortuna di potersi ritirare dal lavoro con un prepensionamento e anch’io, nel secolo da cui provengo, stavo esplorando tutte le strade per uscire di galera. Ottenere il prepensionamento per inabilità cadendo dalle scale sarebbe stato meglio di una vincita al superenalotto, peccato che non era capitato a me. O almeno, non a me nel senso stretto del termine. A Beatrice, sì, ma non alla stessa che aveva sofferto per quasi quarant’anni tra un lavoro di merda e l’altro. La giovane me stessa che vive nel mio corpo del 2013 non ha mai lavorato e non sa come è doloroso guadagnarsi da vivere.
Io invece lo so, eccome. Finché ho avuto bisogno di chiedere soldi ai miei genitori, sono vissuta nell’ossessione di trovare al più presto un lavoro qualsiasi, per uscire dal loro controllo, ma la mia visione schematica e limitata del mondo circoscriveva il lavoro a qualcosa che mi dava soldi a sufficienza per essere economicamente autosufficiente. Soltanto dopo ho provato anche i limiti che il maledetto lavoro poneva alla mia libertà. Io non avevo mai pensato a che cosa mi sarebbe piaciuto fare, perché secondo me “un lavoro che piace” era un ossimoro. Se ti pagano per fare qualcosa vuol dire che gratis non lo faresti mai… E a me servivano i soldi, per liberarmi della famiglia. Nella mia immagine del futuro mi vedevo solo nel tempo libero, a fare le cose che i miei mi proibivano, come uscire la sera o andare in vacanza con gli amici. Non mi sono mai immaginata mentre facevo quel “qualcosa” per il quale mi pagavano. D’altra parte in casa mia nessuno era mai stato sfiorato dal pensiero che un lavoro potesse dare anche soddisfazione. Si doveva lavorare perché da lì venivano i soldi per vivere, ma l’idea di “fare un lavoro che mi piace” era una bestemmia, un privilegio da figli di ricchi, da fighetti che potevano rimanere a vita sulle spalle dei genitori mentre si dedicavano a occupazioni artistiche e creative. I miei erano sempre stati molto chiari: si studiava per non finire in fabbrica, esposti alla fatica, alla puzza, al caldo torrido estivo, al gelo invernale e alle sfuriate di capi e capetti. Oppure a fare la casalinga, schiava del marito e della suocera, destinata a prendere ordini come una serva e anche botte. Nel lavoro “da persona istruita” evidentemente, secondo loro, gli ordini venivano impartiti con buona educazione… Credevano che solo in fabbrica i capetti avessero l’abitudine di urlare e insultare. Non conoscevano l’Acquario delle Orche Assassine.
Un filosofo diceva che, tra tutti i mali, il peggiore che si possa immaginare è quello che i nostri desideri si avverino. Nel primo giro di giostra, Beatrice lo ha già sperimentato.
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