Avevo vent’anni

Avevo vent'anniAVEVO VENT’ANNI di Enrico Franceschini è nato da un incontro casuale. Ad un festival letterario l’autore viene avvicinato da “Un tizio mezzo pelato, la faccia rotonda, gli occhiali spessi” che gli “sorride beato, facendo di sì con la testa, senza dire niente”. Dopo un primo momento di perplessità, la memoria comincia a fare il suo dovere. “Giurisprudenza! Collettivo di Giurisprudenza!”. Di colpo è come se i due “ragazzi” si fossero lasciati cinque minuti prima, e si trovano a ricordare insieme gli anni passati all’Università di Bologna, la facoltà a cui erano iscritti, il Movimento degli anni Settanta, l’ultima grande fiammata di lotta e di protesta giovanile che in Italia segnò la fine di un’epoca. Da quell’incontro è nato un libro, che non è un romanzo sul Settantasette ma il risultato della voglia improvvisa di sapere che fine avessero fatto tutti gli altri, tutti quelli che avevano avuto vent’anni insieme, nel Collettivo, a Bologna, trent’anni prima. Enrico è partito alla ricerca dei compagni del Collettivo di Giurisprudenza sparsi per l’Italia e ne ha raccontato le storie. L’intreccio di voci raccolte è diventato il libro, in cui gli amici di un tempo svelano squarci delle loro vite, riflettono su “come eravamo” e su “come siamo diventati” e raccontano, con malinconica fierezza, una generazione, un tempo, una città.

A Bologna, a vent’anni, c’ero anch’io. Ho la stessa età dell’autore, non ho studiato Giurisprudenza ma faccio parte del Collettivo degli studenti che hanno condiviso quella straordinaria esperienza. Non so se sia un pregio o un difetto, ma per qualcuno di noi i vent’anni non sono mai passati. Forse è una maledizione, un vizio, qualcosa che è entrato nel sangue e da cui non ci si disintossica più.

Bologna il NettunoSono sbarcata a Bologna nel 1975, dopo una trionfale maturità classica conquistata nel liceo di una cittadina romagnola. Per me, figlia di un operaio e di una casalinga, era un successo sfrenato e il punto di partenza necessario a raggiungere lo scopo che mi ero prefissa per anni. Bologna. L’alibi per allontanarmi dalla famiglia con la scusa dell’università. Studiare per me non è stato né una scelta né una passione, ma un piano: guardavo mia madre e le altre donne della famiglia e del quartiere, sottomesse ai maschi di casa, e le confrontavo con la maestra delle elementari e con le professoresse delle medie, donne che avevano studiato, lavoravano, si mantenevano da sole e si truccavano per essere belle, non per coprire i lividi. Non era colpa mia se ero nata femmina, e non volevo passare la vita a scontarlo. Mi è stato facile dedicarmi allo studio fin da piccola, non avevo altre distrazioni, ero una figlia unica super protetta e potevo uscire di casa solo per andare a scuola. Negli anni Sessanta non c’erano i computer, la televisione trasmetteva su un solo canale, la sera, in bianco e nero, e non avevo altro da fare che i compiti. Ho imparato subito che potevo usarli anche come ottima scusa per non aiutare mia madre nelle faccende domestiche. I miei genitori nutrivano le speranze delle famiglie operaie di allora, dei “quattro straccioni”, dell’operaio “che vuole il figlio dottore”; nel mio caso, mancando il maschio, andava bene anche la figlia. Una bambina dalla fervida immaginazione può creare un mondo, nella sua testa, e il mio era un castello fatto di speranza di riscatto e di sogni per il futuro.

Bologna nel sognoA quell’epoca c’erano solo due strade per uscire dalla casa dei genitori: sposarsi, oppure andare a studiare o a lavorare in un’altra città. Una donna passava dalla proprietà del padre a quella del marito, e io non avevo nessuna voglia di cadere dalla padella alla brace. Ho pianificato a tavolino i miei studi, un liceo era necessario per fornirmi l’alibi dell’università, ma dovevo essere brava, bravissima. Lo sono stata, alla maturità ho mancato di un filo il massimo dei voti, battendo le figlie dei primari e degli altri notabili del paesone. Avevo scelto il liceo classico e non lo scientifico perché amavo la letteratura e mi è sempre piaciuto scrivere, ma la mia famiglia non era benestante e non intendeva sobbarcarsi il sacrificio di sostenermi a Bologna come fuorisede per una facoltà letteraria che, secondo il parere di tutti, non richiedeva la frequenza giornaliera. Bene, avrei scelto di conseguenza. Una mattina d’estate, dopo la maturità, presi il treno per Bologna e mi procurai una Guida dello Studente. La sfogliai per giorni e andando per esclusione mi rimase solo una facoltà scientifica di tipo matematico, irta di materie completamente oscure per me, ma che prometteva bene. Calcolo delle probabilità, verifica delle ipotesi… lo sapeva il cielo cos’erano, ma inventai un’insana passione per questo tipo di studi e un obbligo di frequenza che non esisteva formalmente, ma che poi nei fatti si rivelò concreto.

I portici di BolognaPer mio padre andava bene quasi tutto, purché non fosse filosofia, che secondo lui era la più scandalosa perdita di tempo alla quale uno studente si poteva dedicare. Orgoglioso dei miei risultati scolastici, mi permise di cercare un posto in appartamento a Bologna, ma a una condizione: essere sempre in pari con gli esami e non prendere mai meno di ventiquattro. Trovai un minuscolo bilocale in via Saragozza, da condividere con una ragazza più grande di me, già al terzo anno di biologia. La padrona di casa lo aveva ricavato abusivamente chiudendo una parte del suo appartamento e affittava rigorosamente in nero, come tutti a Bologna in quel periodo. Avevamo solo due finestre, che davano sulla tromba delle scale, e l’unica presa d’aria verso l’esterno era una bocca di lupo sotto al soffitto, talmente alta che per capire se pioveva bisognava andare fuori. Imparai a fare a meno dell’ombrello, perché stavamo al quarto piano e c’erano più di novanta scalini; una volta in strada occorreva una fortissima motivazione per rifarli da capo in salita, e per ripararsi dalla pioggia c’erano i portici. Di Bologna all’inizio mi piaceva tutto, i portici in particolare, e anche quel piccolo appartamento mi sembrava una reggia, era il primo posto che potessi considerare “mio”, dove nessuno veniva a dirmi che dovevo rifare il letto o che era ora di alzarsi.

Studenti a BolognaPerò mi alzavo, sapevo bene che se volevo rimanere fuori casa me la dovevo guadagnare. Andavo a letto tardi ma mi alzavo presto e andavo a lezione tutte le mattine, perché mi sentivo adulta e responsabile, non solo indipendente, e nonostante avessi scelto una facoltà per esclusione, fui fortunata. Nel mio corso di laurea eravamo in pochissimi, circa quindici studenti frequentanti, e dopo un primo periodo di panico, in cui mi toccò di colmare le lacune matematiche, scoprii di non avere difficoltà in quel tipo di studi. Nelle nostre materie bisognava comprendere il meccanismo, non imparare a memoria, e una volta capito il gioco era come risolvere un puzzle, perfino appassionante a modo suo, anche se non ho mai trovato un senso pratico in quello che studiavo, ma per essere promossi, anche a pieni voti, non era necessario. Frequentare le lezioni non era un obbligo, ma un requisito quasi indispensabile per passare gli esami e soprattutto un’occasione per stare con gli altri. Bastò un giorno per formare il Covo. La curiosità di sapere tutto gli uni degli altri, la voglia di condivisione ma anche di confronto, ci unirono in qualcosa di ben diverso dai rapporti autoreferenziali e chiusi che si hanno oggi. Il nostro corso era come una classe molto unita, un blocco che oltrepassava le differenze individuali in nome di un obiettivo comune, superare insieme gli esami, con scherzi continui, soprannomi, risate, ma senza cattiveria. La dimensione collettiva nasceva dallo studiare insieme, vivere insieme e sostenersi a vicenda. Mi sembrava un miracolo, dopo la disperante solitudine e la deprivazione emotiva sofferte a casa dei miei, dove non veniva nessuno in visita se non i parenti a parlare di morti e di malattie e non si rideva mai ma si pensava sempre alle disgrazie. Ho passato quattro anni a ridere senza bisogno né di alcool né di droghe, a ridere così, come se fossimo caduti nel pentolone da piccoli. Grandi sogni, grandi amicizie, grandi risate. Come abituarsi poi alla cattiveria, alla meschinità, al sadismo del mondo del lavoro?

Bologna golosaL’improvvisa sensazione di indipendenza, la grande libertà che mi era piovuta addosso, per me si concretizzarono come prima cosa nella libertà di mangiare. Al liceo non arrivavo ai quaranta chili, a tavola coi miei non mandavo giù niente. A Bologna ho dedicato il primo anno a strafogarmi coi cibi che  mi piacevano. Il mio pasto a volte era un chilo di gelato, oppure una ventina di bignè. Ho scoperto cose che l’insipida cucina materna non poteva nemmeno immaginare, formaggi lussuriosi come il mascarpone col gorgonzola e le noci, tipi di pane che nel mio paesello bigotto non avevo mai assaggiato, il gelato artigianale, i krapfen appena sfornati, la cucina greca, la moussaka e i suvlaki, la birra alla spina. La mia prima rivoluzione è stata gastronomica. Poi c’è stata anche quella sessuale, naturalmente. Io mi innamoravo un giorno sì e l’altro pure, la mia coinquilina si faceva vedere poco e il primo anno fu un’orgia di sesso sfrenato e rumoroso, e con due finestre aperte sulla tromba delle scale ne facevo partecipe tutto il palazzo. La padrona di casa non apprezzò e a maggio ci mandò via, per affittare a due studenti della vicina facoltà di ingegneria, che davano garanzie di ascetismo. Allora sui muri di Bologna c’era una scritta, “Gli studenti si dividono in due categorie, quelli che scopano e quelli che fanno ingegneria”. Non era una maldicenza, ma una constatazione.

murales BolognaLa mia compagna di appartamento non la prese bene, ma ormai la frittata era fatta. Lei trovò posto in un appartamento in piena zona universitaria, in via Centotrecento, dove si formò il Nido, la comunità che mi ha avvolto come una coperta di Linus fino alla fine degli anni Settanta. Io trovai una branda fuori Porta Saragozza, con tre figlie di papà ricche di pellicce e gioielli ma povere di spirito. Dopo un anno cambiai ancora, mi capitò un letto più centrale, in via Arienti, ma anche in quel caso la convivenza andò male, stavo con tre comari del paesello che avevano già imboccato il sentiero di acidità di mia madre e delle mie zie. Quello che cercavo era una stanza tutta per me, ma le camere singole rimasero al di sopra delle mie possibilità economiche finché non trovai il campanile di via Palestro. Presi in affitto la stanzetta del sacrestano, attraversata dalle corde delle campane e priva di servizi igienici. Aveva solo un cesso in cortile, non era il massimo della comodità, ma ci sono rimasta tre anni.

Gioia di vivereIntanto la vita era come una giostra, dalla mattina alla sera insieme, in facoltà, in mensa, in piazza, nelle osterie. Mi dividevo tra due gruppi, quello degli studi, con cui seguivo le lezioni e preparavo gli esami, e la piccola comunità di via Centotrecento, la Casa dei Pinguini, dove passavo le sere e spesso anche le notti. Nell’appartamento con le figlie del giudice e del direttore dell’ENPAS, e poi con le comari del paesello, ci andavo solo per cambiarmi e ogni tanto per fare un lungo sonno ristoratore, dalle otto di sera alle otto di mattina, perché ero giovane e mi sentivo immortale e invincibile, ma qualche volta avevo bisogno di dormire. Per il resto, coi due gruppi di amici era un continuo parlarsi addosso, gioia di condividere i sogni e le speranze, notti insieme, studio insieme, sere in cui si andava a mangiare in venti a casa di uno, e poi dopo aver mangiato, bevuto, fumato, riso, cantato, ballato, si restava tutti lì a dormire, le case aperte a tutti, le cose condivise con tutti. Scambiavo i vestiti con le mie amiche e a volte non trovavo un maglione o una camicetta che poi incontravo in mensa, addosso a una di loro. Una grande festa mobile della vita in comune, una fabbrica di desideri, di emozioni, di rapporti interpersonali, i cinema parrocchiali seguiti dalle passeggiate notturne sotto i portici senza una meta, parlando parlando parlando, scoprendo che l’amicizia è bella come l’amore, anzi di più.

Bologna forcaiolaQuando sono arrivata adoravo Bologna, c’era un abisso tra la sua allegria e la sua mentalità aperta e il grigiore del paesone bigotto da cui venivo, ma dopo il Settantasette è cambiata, è prevalsa la città fredda, bottegaia, spietata con chi è diverso e viene da fuori. All’inizio camminare per Bologna mi dava un senso di pienezza e di armonia, e per la prima volta mi sono accorta delle stagioni, soprattutto della primavera col profumo dei tigli, poi negli anni Ottanta sono scappata perché un bel giorno ho sentito che quella città di cui ero stata tanto innamorata mi aveva stancato, anzi, mi era diventata insopportabile. Nei profili infastiditi e stizzosi che avevano sostituito il sorriso e il buonumore dei bolognesi, leggevo la Fine della Storia. Quando anche Bologna è diventata spenta, amorfa, perbenista, ipocrita, senza luoghi dove stare insieme, non aveva senso pagare un intero stipendio per l’affitto o condividere la casa con altra gente acida e amareggiata; a quelle condizioni era meglio il mio paesello, dove allora la vita costava poco. Se dovevo vivere in un posto regredito, incolto e cialtrone, andava bene anche la provincia.

movimento delle donneForse tutti hanno nostalgia dei propri vent’anni e li considerano il periodo più bello della vita, ma quando li hai vissuti e condivisi con un gruppo legato come era il nostro, è qualcosa di più che un semplice rimpianto. Il senso di pienezza provato in quei giorni non l’ho più provato, non ho mai più trovato qualcosa capace di colmare quel vuoto. Avevo la sensazione che ogni giorno fosse diverso dall’altro, avevo l’animo leggero e mi sembrava di correre a velocità folle, come se tutto fosse possibile. Alla Bologna di quel periodo devo gli anni migliori della mia vita, anni che avevano qualcosa di speciale, di magico, e di questo sono grata al destino, che poi me l’ha fatta pagare, ma è la legge del contrappasso, si dice. La felicità è quando senti il mondo in sintonia con te, e quella è venuta a mancare.

Di Bologna non dimenticherò mai le manifestazioni di donne a cui ho partecipato, e gli uomini a bordo strada che ci guardavano con odio. Il femminismo per me è stata e rimane la rivoluzione più importante, la conferma che non ero pazza. In famiglia, nel paesone bigotto, il mio rifiuto di accettare la passività e la sudditanza del ruolo femminile era solitario e individuale, in casa, a scuola, con le amiche, mi sentivo una specie di spostata, invece a Bologna ho trovato migliaia di ragazze, un intero movimento, che rifiutavano di essere rinchiuse nello sgabuzzino che la vita ci aveva destinato. Nel movimento femminista di quegli anni ho incontrato la mia Rosa Parks, e non ero più la sola che si rifiutava di stare in piedi nell’autobus.

Blindati a BolognaPerò nel Settantasette le istituzioni avevano deciso che la nostra festa doveva finire. L’otto marzo in piazza la polizia caricò senza ragione gli studenti che facevano festa pacificamente, poi l’undici marzo la provocazione ciellina condusse all’omicidio premeditato di uno studente a caso, e toccò al povero Francesco Lorusso, che era appena uscito dalla biblioteca in cui aveva trascorso la mattina a studiare. Un carabiniere gli sparò alla schiena “per sbaglio”, talmente per sbaglio che fu visto dai lavoratori della Zanichelli mentre si appoggiava a una macchina per prendere meglio la mira. Le vetrine rotte mi sono sembrate una cazzata che ha rovinato tutto, ma la ribellione era inevitabile e il morto serviva proprio a quello. Quando ho visto i negozi saccheggiati e i blindati nella cittadella universitaria ho capito il senso della repressione e ho pensato che tutti avrebbero parlato dei vetri rotti e non dell’assassinio di Francesco. Il sistema aveva deciso che dovevamo scegliere, stare con lo Stato o contro, ma io, come tanti, non volevo stare né con lo Stato né con le BR. Non sono mai stata impegnata politicamente, ero un “cane sciolto” come si diceva allora, ma avevo una mentalità progressista, in favore delle classi più deboli e disagiate, di cui facevo parte, mi sembrava normale e mi sarebbe sembrato assurdo il contrario, come invece è avvenuto con il riflusso degli anni Ottanta, lo sciacquone del cesso che ha spazzato via tutto, inducendo i deboli a immedesimarsi nei forti e a perdersi, a perdere, lasciando sul terreno le vittime e le macerie sotto le quali adesso siamo seppelliti. Ci sentivamo immortali, destinati a un’eterna giovinezza, non tanto fisica ma dell’animo. “Siamo stati Dei e poi siamo scesi sulla Terra, siamo diventati uomini”, ha detto un poeta di cui non ricordo il nome. Io dalla botta non mi sono più ripresa.

Avevo vent’anni (Storia di un Collettivo studentesco 1977 – 2007)
Enrico Franceschini
SuperUE Feltrinelli
155 pagine
8,50 euro

 

 

 

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2 Replies to “Avevo vent’anni”

    1. Tesoro, sei troppo buona… Dopo tutti questi anni di palazzaccio, temo che il Divino sia diventato D’Aceto. A essere molto, ma molto ottimisti, Di Birra. Il Divino è stato aver incontrato voi di LM che avete dato voce alle mie grida di sepolta viva :-)))

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