Da quando sono entrata nell’allegro mondo del lavoro, alzarsi la mattina è diventato una tragedia di proporzioni bibliche. Ricordo che ai tempi della scuola non era così; alle sette balzavo fuori dalle coperte senza bisogno della sveglia e andavo incontro con entusiasmo alla nuova giornata, magari preoccupata per un’interrogazione o un esame, ma felice di incontrare gli amici e gli amori. Adesso mi trascino fuori dal letto con lo stato d’animo di uno che deve percorrere il Miglio Verde, il braccio della morte nelle prigioni, e negli ultimi tempi è ancora peggio, perché di notte sono tormentata dagli incubi. I miei sonni, già inquieti e frammentati, sono popolati dagli stessi fantasmi che ossessionano le mie giornate, i capetti e i colleghi che devo sopportare durante il giorno in quel circo dell’horror in cui mi guadagno da vivere. Praticamente è come se non smontassi mai: di giorno sono là dentro a subirli e di notte rivivo le scene della pena quotidiana. A volte gli incubi sono così vivi che al mattino dopo mi stupisco di non dover ricominciare la giornata da lì, e se durante la notte mi sveglio, quando riesco a riaddormentarmi ricomincio dallo stesso punto, come un DVD messo in pausa.
Mi sono rivolta ai medici e ho affrontato le notti armata di sonniferi, ansiolitici e antipsicotici, un cocktail di farmaci che mando giù col vino e la birra per non farmi mancare niente, ma non ho avuto risultati se non quello di sentirmi più prostrata al mattino dopo, sbattuta come uno straccio per lavare i pavimenti, con due occhiaie che sembrano la Fossa delle Marianne. La mancanza di sonno ha reso il mio sistema nervoso ancora più vulnerabile e l’habitat del mio inferno privato ancora più difficile da sopportare, in un circolo vizioso che si morde la coda come il groviglio di serpenti in cui devo lavorare. Una sera, uscendo dalle mie prigioni particolarmente distrutta, mi sono fermata al cimitero da mia nonna. Quando sono in crisi passo sempre da lei a fare due chiacchiere: mi ha cresciuto e ci ha messo tutto il suo impegno per armarmi del cinismo e del pessimismo che secondo lei era bene assorbire fin da piccoli, ma con un senso dell’umorismo un po’ macabro e tutto suo. E poi mi adorava, ero la sua unica nipote e si sarebbe fatta uccidere per me.
Quando la vado a trovare al cimitero, compro un bel mazzo di fiori, li sistemo sulla tomba e mi siedo lì per un po’. Non ho bisogno di parlare, la nonna mi capisce lo stesso, e la notte successiva mi viene a trovare in sogno e ne discutiamo, ma quella volta non mi aspettavo di vedermela arrivare tanto arrabbiata. Era armata della scopa che usava per spazzare intorno a casa, una vecchia ramazza di saggina sporca e consumata, e roteandola come una clava ha dissolto l’incubo lavorativo che aveva occupato il mio sonno. Una volta spazzati via i fantasmi del Palazzaccio ce n’è stato anche per me, mi ha letteralmente mangiato la faccia… “Sei grande e grossa e devo venire IO dal cimitero per mandare via quattro impiegatucci di merda? Ma insomma, non ti ho insegnato proprio niente?”. La mia faccia costernata deve averla mossa a pietà, perché si è messa a ridere e si è seduta ai piedi del letto. In effetti ha convenuto che per noi vivi è piuttosto difficile chiudere i sogni agli estranei, ergendo solide difese che impediscano loro di entrare e generare gli incubi; occorre un lungo allenamento da incominciare da piccoli e a questo lei non aveva pensato, perché non lo sapeva. L’ha imparato solo dopo morta, quando gli amici del cimitero l’hanno invitata in un gruppo che si dedica all’onesta missione di ogni trapassato che si rispetti, ovvero tormentare i vivi. Però… Mia nonna ha sempre un Piano B.
Lei o uno dei suoi compagni avrebbero potuto fare un giro nei miei sogni ogni notte e spazzare via gli incubi con una ramazza, o con una doppietta o una mannaia se necessario, ma non era abbastanza divertente per lo spirito di mia nonna. Lei ha deciso che dalla notte successiva sarei stata io a entrare nei sogni dei miei persecutori, per togliermi qualche soddisfazione. I morti hanno questa capacità, possono insinuarsi nel sonno dei vivi e torturarli a piacere, e per lei sarebbe stato uno spasso accompagnarmi. La sera dopo, quando mi sono addormentata, la nonna si è presentata con un bel cappellino, la borsetta e il vestito elegante, e mi ha intimato “Andiamo”. Mi sono vista camminare accanto a lei per un labirinto di corridoi poco illuminati e lungo questo percorso che, ho capito, conosce benissimo, siamo arrivati a casa del mio ultimo kapetto. Da noi non durano tanto, un anno al massimo, ma ogni volta si compie il miracolo di trovarne uno peggiore. Adesso tocca all’ennesimo “giovine di belle speranze” che si è votato alla carriera ad ogni costo e ha gettato alle ortiche, come tutti, ogni barlume di umanità, ammesso che ne abbia mai avuta. Stava ronfando nel lettone, accanto alla moglie, nella sua bella villetta a schiera con mansarda, tavernetta e doppio garage in quel verde sobborgo residenziale che piace tanto alle giovani coppie col sedere parato dai genitori benestanti. Sembrava profondamente addormentato, il maledetto. Io invece… cazzo, sono trent’anni che non dormo.
Mia nonna mi ha ordinato di sedermi sul petto del disgustoso individuo e di non muovermi da lì, qualunque cosa succedesse. Sinceramente mi ha fatto un po’ schifo, ma con nonna non si discute. Io non sono più la ragazzina esile di un tempo e quando il malnato si è sentito soffocare dalla mia augusta mole, ha sbarrato gli occhi con un’espressione di puro terrore e il volto cianotico. Credo che sia rimasto molto sorpreso di trovarsi una delle sue dipendenti seduta sullo stomaco, come un demone dell’antichità, come una cattivissima indigestione. Lui mi fissava stupefatto ed io ho ricambiato il suo sguardo allucinato, senza mollare, per tutta la notte. Non ho aperto bocca e non mi sono mossa fino al mattino, quando ha suonato la sveglia. In quel momento la nonna mi ha strappato via dal suo petto e sono tornata nel mio sonno, dal quale mi sono svegliata incredibilmente fresca e riposata, come non succedeva da decenni. Non vedevo l’ora di ammirare la faccia del meschino al lavoro e quel giorno ho percorso con passo scattante la strada che porta alle mie prigioni, lungo la quale di solito mi trascino come una storpia.
Il “giovine di belle speranze” era piuttosto allucinato, e quando sono entrata nel suo ufficio per fargli firmare le pratiche ha fatto un salto sulla sedia come se avesse visto uno spettro. Dietro ai miei spessi occhiali da miope ho un’espressione svanita e assente, e quella mattina non ho fatto eccezione, però l’ho sorpreso parecchie volte, durante la giornata, a scrutarmi con sospetto. La notte dopo gli sono apparsa di nuovo, come lo spettro di Banquo, e gli pesavo sul petto come Moby Dick. Nelle notti successive abbiamo proseguito il gioco senza dargli tregua, ma la nonna è una che si annoia a fare sempre le stesse cose; dopo una settimana ha voluto imprimere una escalation all’operazione e passare alla “fase due”. Lei è una trapassata e quindi è in grado di percepire le più recondite paure dei vivi, così ha scoperto che il nostro soggetto ha la fobia dei ragni e mi ha insegnato a manifestarmi sotto forma di aracnide gigante e peloso. Non credo che sia stato bello sognare di avermi sulla faccia tutta la notte, almeno non lo avrei detto, dallo stato in cui la nostra vittima si è presentata al lavoro la mattina dopo. In seguito abbiamo dato sfogo alla nostra fantasia che, vi assicuro, è notevole, e notte dopo notte ho cambiato travestimento, ho fatto il topo di fogna, il lupo mannaro, lo zombie, Freddie Kruger, con un rutilante sfoggio di costumi che nemmeno per Halloween. Non mi ero mai divertita tanto, stavo rifiorendo. Io riposavo benissimo, mi sentivo diversi anni di meno sulle spalle, la mia salute stava ritornando e non avevo più bisogno di tutti quei farmaci per dormire, le scorribande con la nonna mi bastavano.
È poi arrivato il momento di passare alla “fase tre”. Tormentarne uno solo era poco, secondo la nonna, bisognava essere generosi e condividere l’esperienza con più vermi schifosi possibile. Così mi ha insegnato ad avvolgergli il sogno addosso, in modo che non potesse più respirare. È facile, si “apre” il sogno ed è come aprire una crepa nella fusoliera di un aereo in quota, poi si esce dal sogno all’improvviso e questo provoca un risucchio che dà al malcapitato la sensazione di sprofondare e di soffocare. Se ci si riesce a svegliare e non si muore nel sonno si è già fortunati, ma di certo non ci si riaddormenta più. Abbiamo lasciato il kapetto a vomitare nel bagno e ad aspettare la mattina con gli occhi sbarrati e siamo passati a un’altra visita. Nel mio inferno personale non mancano gli scagnozzi di vario grado che danno manforte all’autorità; in particolare il nostro caro capufficio, come un candelabro sghembo, ha due bracci sinistri. Uno è un ingegnerino specialista nelle supercazzole, uno di quelli che parlano sul genere “Attendo la tua green light per il briefing post week end di domani sul breach dei covenants della target con i colleghi che seguono i key clients e i partners. Abbiamo una timeline molto stringente e c’è da rivedere il security package e prevedere un nuovo hedging. Un equity injection penso che sarebbe imprescindibile con un current trading come quello che ti ho circolato in attach nella mail di ieri”. Verso questi soggetti provo un odio viscerale, in più l’elemento mi tormentava da mesi con un mobbing scientifico per cacciarmi via e mettere la sua amante al mio posto, così l’ho eletto come secondo destinatario delle mie attenzioni oniriche.
Ho seguito lo stesso copione. Ormai non avevo più bisogno di essere accompagnata dalla nonna, che mi faceva vedere la strada solo la prima notte. Avevo imparato a orientarmi nei corridoi dei sogni e potevo entrare nel sonno di chiunque. Sono ancora capace, vi avviso: farmi arrabbiare porta male, molto male. Dopo di lui sono passata all’altro braccio sinistro, il devoto ciellino che tra un rosario e un pater-ave-gloria spia i nostri computer, poi con calma ho fatto visita a qualche altro viscido ruffiano. Con tutti ho seguito le stesse fasi e vi dirò, è stato un grande successo di critica e di pubblico. Al cimitero gli amici della nonna si sono complimentati con me e hanno approfittato di un mio pisolino pomeridiano per venire a farmi visita tutti insieme e consegnarmi il diploma di Incubus ad honorem summa cum laude. Ci hanno tenuto a precisare che non sono molti i viventi che se ne possono fregiare, occorre essere trapassati per raggiungere cotanto onore, e nemmeno tutti i defunti ci arrivano, solo quelli “come la nonna”. Cosa hanno voluto dire non l’ho capito molto bene, ma essere come la nonna per me è sempre una grande soddisfazione.
Ogni notte lavoravo alacremente e, nonostante questo, al mattino mi alzavo sveglia come un grillo. Invece le mie vittime non lo erano tanto. Li vedevo sempre più lividi, sbiancati, arruffati, con le occhiaie da segaiolo, e ogni volta che incrociavano il mio sguardo trasalivano. Avevano paura di me. Incredibile, dopo tanti anni di tormenti erano loro ad avere paura di me. Non mi caricavano più dei compiti più sgradevoli, avevano smesso di spiarmi e a volte si sforzavano perfino di essere educati e gentili, anche se era contrario alla loro natura. Non mi rivolgevano più battute acide, mi stavano alla larga e non riuscivano a sostenere il mio sguardo. C’è stato chi si è rivolto a uno psicologo, che ha dato la colpa degli incubi al troppo impegno sul lavoro. In effetti, praticare il mobbing sui colleghi e spiarli è faticoso, così qualcuno si è messo in malattia. Ai piani alti hanno cominciato a vederli piuttosto male, perché i certificati medici fanno sempre una cattiva impressione, ma nessuno di loro poteva rivolgersi alla direzione suprema lamentando che una collega li torturava in sogno, sarebbero stati presi come minimo per drogati. Però io sono andata avanti, prima di tutto perché ci ho preso gusto e non mi divertivo così tanto dagli anni dell’università, e poi perché sono romagnola e noi in questa terra solatia, quando facciamo qualcosa, la facciamo bene. Vengo da una stirpe che ha trasformato la più brutta costa d’Italia in una fabbrica delle vacanze, e se decido di vendicarmi di qualcuno, voglio la perfezione.
Per rispetto alle gerarchie, mi sono dedicata particolarmente al kapetto, che si stava prosciugando. Aveva certe occhiaie… Non riusciva quasi più a ragionare per la stanchezza, però doveva continuare a lavorare. Poi c’è stato l’incidente, un “maledetto” incidente d’auto. Non avrebbe dovuto guidare in quelle condizioni, era allucinato, stanchissimo, esaurito. Pare che sia stato un colpo di sonno. L’auto era in condizioni disastrose e lui… Dicono che non fu facile riconoscerlo. Non vedo l’ora che ne arrivi uno nuovo per lavorarmi bene anche quello.
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