Non dimenticherò mai il 21 dicembre 2012. Era un venerdì, era il mio compleanno e volevo farmi un regalo per festeggiare la fine di quello che credevo l’anno più brutto della mia vita. Beato ottimismo, non avevo ancora visto i successivi. Sugli schermi TV di un negozio di elettronica passò in sovraimpressione la notizia che a Bruxelles avevano decretato l’uscita dall’eurozona di noi PIGS, i paesi del Sud Europa che, a giudizio nordico, avevano fatto i loro porci comodi. Portogallo, Italia, Grecia e Spagna erano stati buttati fuori dall’euro e tornavano alle monete nazionali. La versione ufficiale sosteneva che eravamo troppo grossi per essere “salvati”; rappresentavamo una zavorra troppo pesante che avrebbe affondato anche loro, i paesi “virtuosi” che avevano fatto i “compiti a casa”. Incidentalmente, agli europei del nord facevano comodo quattro paesi mediterranei in cui fare le vacanze quasi gratis, ora che anche la loro classe media non se la passava più tanto bene come un tempo. Il fantoccio dell’unità monetaria europea era stato tenuto in piedi quanto bastava per demolire i diritti civili e lo stato sociale per cui si era tanto lottato nel secolo scorso, e adesso non serviva più, lo si poteva gettare nella stessa discarica in cui da tempo era finita la nostra Costituzione.
Il ministro dell’Economia, il cavalier Berlusconi, nominato da poco nell’ultimo rimpasto di governo, aveva annunciato trionfalmente il passaggio alla nuova moneta nazionale: la Patonza. Dal giorno seguente le banche sarebbero rimaste chiuse e i conti correnti congelati, per permettere una transizione ordinata. Il Cavaliere era tornato in sella proprio cavalcando l’anti-europeismo dilagante, diffuso ad hoc perché il popolo bue assecondasse la “fase due” della politica di unità europea. Dopo la distruzione dei diritti, l’Europa non serviva più; pochi ricchi erano diventati ancora più schifosamente ricchi, nei paesi del Nord Europa si era salvata una parvenza di classe media, e a noi del Sud ci avevano spezzato le reni, come diceva quel tale, nel Ventennio, che voleva “spezzare le reni alla Grecia”. Quasi un secolo dopo c’erano riusciti, e non solo alla Grecia ma anche agli altri tre “paesi PIGS”, Italia compresa. Melius abundare, dicevano gli Antichi.
Da più di un anno mi aspettavo questa decisione, era palese nell’aria da tempo, e avevo nascosto tutti i miei risparmi in una cassetta di sicurezza. Quel giorno ritirai gli ultimi cinquecento euro che il bancomat mi concedeva, e rinunciai al regalo. La gente in giro festeggiava il ritorno alla valuta nazionale e si diceva orgogliosa di essere guidata da uno statista di tale calibro, col quale noi italiani avremmo recuperato orgoglio e dignità. Con la sovranità monetaria avremmo potuto svalutare a piacere e ci saremmo arricchiti vendendo le scarpe che tutto il mondo ci invidiava – ma che, per inciso, da tempo erano prodotte in Cina. E poi il Cavaliere lo aveva detto, no? “La Patonza deve girare”… La spesa pubblica poteva raddoppiare all’istante, anzi, triplicare, tanto stampando banconote a manetta si risolveva tutto. Dov’era il problema? La visione che avevo negli occhi di una mandria di buoi condotta al macello era solo frutto del mio innato pessimismo, che parenti e amici bollavano già come “disfattismo”.
La mattina dopo la benzina era razionata perché le compagnie petrolifere non mandavano più le autobotti. Qualcuno, dopo due ore di fila, riuscì a mettere dieci litri pagando cinquanta euro. Però tutti dicevano che il lunedì successivo, con le Patonze, il governo avrebbe messo a posto tutto. Infatti, il lunedì successivo le Patonze non apparvero. I negozi avevano triplicato i prezzi e nessuno faceva credito. I bancomat erano bloccati, le banche sprangate e io non potevo nemmeno accedere alla mia cassetta di sicurezza. Avevo in tasca solo quei cinquecento euro, che bastarono appena per fare un po’ di spesa nei supermercati presi d’assalto. Fu un Natale mesto, nessuno festeggiava, solo i berluscones irriducibili affettavano entusiasmo ma ormai non ci credevano più nemmeno loro. Dopo Natale, da Roma avvertirono che benzina e cibo erano introvabili. Grazie, in Romagna ce ne eravamo già accorti, anche se il governo aveva bloccato internet per evitare che i comunisti diffondessero il panico, e pure i telefoni funzionavano male.
Si diceva che con la riapertura delle banche si sarebbe trovata una soluzione, ma gli sportelli non riaprivano. Sulla CNN un esperto spiegò che per stampare le nuove banconote ci sarebbero voluti almeno sei mesi, così chi capiva l’inglese fu preso dal panico e lo trasmise anche agli analfabeti linguistici. Chi aveva ancora qualche euro lo teneva ben stretto e comprava solo lo stretto indispensabile, a prezzi ormai stratosferici, ma molti avevano finito pure gli spiccioli ed erano alla fame. I malati che non potevano comprare le medicine si accalcavano negli ospedali, ma anche lì avevano finito le scorte. Il 6 gennaio 2013, su ordine dei ministri Capezzone e Santanché, le banche riaprirono, ma spacciarono solo miniassegni in Patonze, al tasso di cambio uno a uno con l’euro. La gente sospirando ritirò i Patassegni, ma quando cercarono di spenderli non li accettò nessuno. Solo alcuni commercianti, commossi davanti alle mamme coi bambini affamati e piangenti in braccio, accettarono di cambiarli a dieci Patonze per un euro.
Stipendi, pensioni e fornitori vennero pagati dal governo in Patacambiali della Banca d’Italia, ma queste cambiali non valevano la carta su cui erano stampate e l’inflazione raggiunse il 500% mensile. Tutti i movimenti di capitali con l’estero erano bloccati e il possesso di banconote straniere, euro inclusi, era punito con l’arresto. Adesso potevo accedere alla mia cassetta di sicurezza, ma gli euro che ci avevo nascosto li potevo spendere solo al mercato nero, dai camorristi che avevano vinto l’appalto per il nostro quartiere, e che facevano prezzi da strozzini. La ministra Santanchè in TV strillava che con il 90% di svalutazione le merci italiane avrebbero invaso i mercati, ma le imprese non avevano la valuta con cui pagare l’energia e le materie prime, e agli italiani non faceva credito nessuno. I fallimenti non si contavano e il governo non era in grado di rimborsare BOT e BTP, per cui l’Italia era tagliata fuori dai circuiti finanziari. Si contava una sola eccezione, il Cavaliere, che a sua insaputa aveva trasferito tutto il patrimonio alle Cayman prima di annunciare l’uscita dall’euro. E con lui, il suo entourage di nani e ballerine, e i pezzi grossi delle banche e di Confindustria.
Da quel 21 dicembre nessuno ha più ricevuto lo stipendio né la pensione, e i miei genitori si sono trovati alla fame ancora prima di me. Non potevamo pagare le bollette, così ci siamo ammassati nella vecchia casa dei nonni, sette zii con coniugi e prole, dodici cugini coi rispettivi mariti, mogli, figli, cani, gatti, criceti e canarini. I primi tempi è stato anche divertente, poi sono cominciate le liti; non eravamo abituati a dormire in dieci in una stanza e una zia diventava matta perché i suoi nipotini erano allergici al pelo di gatto. Così sono tornata a casa mia. Al buio, al freddo e senz’acqua, ma è un piano terra e andavo alla fontana del mercato, che funzionava ancora. Per sopravvivere, nel condominio ci eravamo organizzati come si poteva. Una mia vicina aveva il pollice verde e abbiamo occupato un pezzetto di terra vicino alla ferrovia, per coltivare insalata e pomodori. La gente normale per vivere si era ridotta al baratto e in questo modo avevamo qualcosa da scambiare anche noi, per portare a casa un po’ di latte, farina e carne per i nostri gatti. Io sono diventata vegetariana perché in giro si trovavano solo hamburger di topo, i letali ratburger che piacevano tanto ai bambini e ai felini, ma a me un po’ meno. A proposito di animali domestici, i nostri li tenevamo sotto chiave perché quegli arrosti di coniglio e quelle porchette che si trovavano in giro non ci convincevano molto. Con le nostre povere verdure rachitiche ottenevamo in cambio poco o niente, e per diversificare l’offerta la domenica abbiamo cominciato a portare in piazza i vestiti e i libri che avevamo accumulato nella vita passata. La prostituzione maschile e femminile dilagava e non dico che cosa erano disposti a fare i fumatori per un pacchetto di sigarette.
Quando è arrivato il momento di pagare l’IMU, nel condominio ci siamo preparati alla resistenza: eravamo undici famiglie e non intendevamo permettere a Equitalia di portarci via la casa. Però anche gli esattori non erano più tanto motivati, non vedevano uno stipendio da mesi e non se la sentivano di farsi linciare gratis. Intanto un vicino era riuscito a fare un allacciamento clandestino alla pubblica illuminazione, ma non è servito a niente perché il Comune non solo ha spento i lampioni, ma ha chiuso del tutto. Il Sindaco ha detto che lui non aveva intenzione di stare lì a farsi picchiare ed è tornato a casa sua, in campagna, a fare il contadino. Destino simile l’hanno avuto tutti i servizi pubblici, che un poco alla volta hanno chiuso: la gente non va a lavorare se non la pagano, e i fornitori non consegnano in cambio di Patassegni e PataBot. I privati avevano già chiuso, ben da prima.
Con i miei ultimi euro ho comprato da Peppino o’ Chiattone, il camorrista di quartiere, un sacchetto di semi di cannabis e il permesso di piantarli e coltivare il mio prodotto. In cambio lui mi avrebbe dato pane, pasta, carne di topo per i gatti e un po’ di latte, quando c’era. Il traffico di droga e di armi e la prostituzione erano le uniche attività fiorenti e redditizie, gli scambi erano in monete forti, rubli e yuan, e anche nel nostro quartiere i ragazzini si erano messi al lavoro nelle cantine per produrre droghe sintetiche, però Peppino diceva che gli anziani apprezzavano ancora una canna di roba naturale. Un pomeriggio stavo vangando il mio orto, anche se “orto” è una parola grossa per un fazzolettino abusivo di terra vicino alle rotaie del treno, quando mi è venuto in mente che i treni normali non passavano più. La gente comune non poteva pagare il biglietto e le Ferrovie mantenevano solo i Superstar, i super treni ad altissima velocità per i manager che sfrecciavano su e giù per l’Europa ma avevano paura dell’aereo, e per i loro scagnozzi, lacchè e portaborse.
Da quel giorno, ogni volta che vedevo passare un treno Superstar mi veniva in mente una vecchia canzone di Guccini, “La locomotiva”. “Una locomotiva come una cosa viva | lanciata a bomba contro l’ingiustizia…”. Già, sarebbe stato bello, ma io non so guidare un treno. Non saprei neanche da dove si comincia a metterlo in moto. Una volta sapevo guidare la macchina, poi non ho più avuto i soldi per il bollo e nemmeno per la benzina e l’ho scambiata con un generatore, consuma meno e la sera ho un po’ di luce. Adesso è già difficile conservare la bicicletta e difenderla dai ladri e dagli scippatori che te la portano via da sotto, in strada, minacciandoti col coltello. Però ci pensavo sempre, a quella canzone di Guccini, e agli anni belli dell’università, in un’altra vita, quando la si cantava tutti insieme con gli amici e ci si commuoveva con “la fiaccola dell’anarchia”.
Ogni giorni curavo le mie piantine e ricordavo le parole di quella canzone. Una mattina stavo seguendo i binari per vedere se potevo estendere la mia coltivazione in un altro pezzetto di terra abbandonata, e magari catturare un ratto o una talpa per il macellaio, quando ho trovato lo scambio ferroviario che un tempo portava alla linea secondaria dove passavano i treni per la Riviera. Era abbandonato perché adesso in Riviera ci vanno solo i cinesi e i russi, ma non prendono il treno. In testa mi ronzava un altro verso della canzone, “La macchina deviata lungo una linea morta”. Ma come cazzo si faceva ad azionare uno scambio ferroviario? Ci ho studiato per giorni e alla fine ho capito. Con gli attrezzi giusti non è difficile, e la nostra stazioncina è chiusa da tempo; i treni Superstar non fanno fermate tra Bologna e Rimini, li vediamo solo sfrecciare ai 300 km/h.
Stanotte ho finito il lavoro. Il Superstar che domattina morderà la rotaia “con muscoli d’acciaio, con forza cieca di baleno” è stato deviato lungo una linea morta. Ma non “dalla stazione di Bologna”, oh no. Solo da una donna che “un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo | pensò che aveva modo di riparare a qualche torto”.
Francesco Guccini, La Locomotiva
http://www.youtube.com/watch?v=O2W11raDXb8
Non so che viso avesse, neppure come si chiamava,
con che voce parlasse, con quale voce poi cantava,
quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli,
ma nella fantasia ho l’immagine sua:
gli eroi son tutti giovani e belli…
Conosco invece l’epoca dei fatti, qual era il suo mestiere:
i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere,
i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti
sembrava il treno anch’esso un mito di progresso
lanciato sopra i continenti…
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano
che l’uomo dominava con il pensiero e con la mano:
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite,
sembrava avesse dentro un potere tremendo,
la stessa forza della dinamite…
Ma un’ altra grande forza spiegava allora le sue ali,
parole che dicevano “gli uomini son tutti uguali”
e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via
la bomba proletaria e illuminava l’ aria
la fiaccola dell’anarchia…
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione,
un treno di lusso, lontana destinazione:
vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno,
pensava un treno pieno di signori…
Non so che cosa accadde, perché prese la decisione,
forse una rabbia antica, generazioni senza nome
che urlarono vendetta, gli accecarono il cuore:
dimenticò pietà, scordò la sua bontà,
la bomba sua la macchina a vapore…
E sul binario stava la locomotiva,
la macchina pulsante sembrava fosse cosa viva,
sembrava un giovane puledro che appena liberato il freno
mordesse la rotaia con muscoli d’ acciaio,
con forza cieca di baleno…
E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo
pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto.
Salì sul mostro che dormiva, cercò di mandar via la sua paura
e prima di pensare a quel che stava a fare,
il mostro divorava la pianura…
Correva l’ altro treno ignaro e quasi senza fretta,
nessuno immaginava di andare verso la vendetta,
ma alla stazione di Bologna arrivò la notizia in un baleno:
“notizia di emergenza, agite con urgenza,
un pazzo si è lanciato contro al treno…”
Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva
e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria:
“Fratello, non temere, che corro al mio dovere!
Trionfi la giustizia proletaria!”
E intanto corre corre corre sempre più forte
e corre corre corre corre verso la morte
e niente ormai può trattenere l’ immensa forza distruttrice,
aspetta sol lo schianto e poi che giunga il manto
della grande consolatrice…
La storia ci racconta come finì la corsa
la macchina deviata lungo una linea morta…
con l’ ultimo suo grido d’ animale la macchina eruttò lapilli e lava,
esplose contro il cielo, poi il fumo sparse il velo:
lo raccolsero che ancora respirava…
Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore
mentre fa correr via la macchina a vapore
e che ci giunga un giorno ancora la notizia
di una locomotiva, come una cosa viva,
lanciata a bomba contro l’ ingiustizia!
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