Io non mi sono riprodotta e la maternità l’ho soltanto subita da figlia, per cui ci sono “misteri” del diventare mamma che mi risulteranno per sempre incomprensibili. Li conoscete, uno per esempio è “Il Codice Mamma” al quale, improvvisamente e incondizionatamente, si uniforma la donna non appena smette di urlare di dolore e le viene messo tra le braccia il tenero pargoletto. In base a meccanismi che noi umani non riusciamo a comprendere, la femmina della specie, ancora prima della montata lattea, si trova la mente codificata dai precetti di una strana religione che non ammette scismi. Il Codice Mamma, per esempio, sancisce in modo incrollabile e incontrovertibile il Sacramento della Colazione, la dannazione eterna per il pargolo che vorrebbe poltrire a letto dopo le otto del mattino, e quel misterioso principio dietetico in base al quale ogni intruglio cucinato dalla mamma, che vada dal pollo fritto per tre ore nel grasso di foca alle mappazze salutiste, fa bene alla salute e fa crescere grandi e forti. Il comandamento si chiama “Ti fa bene, l’ho fatto io” e vale dalla nascita alla morte – vostra o della mamma, non ha importanza – per qualsiasi età e per ogni stazza, dai dieci ai duecento chili.
Immaginate di essere a dieta perché il medico vi ha detto “Con il colesterolo a quattrocento e i trigliceridi a ottocento, dovreste pesare meno di centotrenta chili e darvi una regolata a tavola”. Andate a casa della mamma – perché provateci, a non andare a trovare la mamma a intervalli regolari, stabiliti da lei stessa – e vi troverete davanti una teglia di lasagne alla tripla besciamella con monumento al ragù. Provate a dire che il dottore vi ha messo a dieta, e adesso recitatemi in coro la risposta, che tanto la sapete tutti. “Queste non fanno ingrassare, le ha fatte la tua mamma”… Comincio a capire perché ci sono senzatetto che rimangono a vivere in strada piuttosto che tornare dai genitori: possono razzolare nei cassonetti senza sentire una vocetta petulante che enuncia i veleni contenuti in ogni cibo “che non è fatto in casa” e se trovano un rifugio sicuro, ci possono poltrire anche fino a mezzogiorno.
Uno dei pilastri su cui è fondato il Codice Mamma è quello dell’esempio. Tutti siamo stati cresciuti con l’elenco delle sventure che capitavano a chi non ubbidiva alla mamma, e con le magnifiche sorti e progressive che si aprivano invece ai bravi figli che seguivano i Precetti del Codice. La mia mamma ha passato gli anni della mia adolescenza a fare l’elenco di tutte le cattive ragazze che erano rimaste incinte prendendo la pillola. Cominciava sempre così: “Hai presente la figlia della vicina della cognata di quello che… Sì, quella. È rimasta incinta, e prendeva la pillola!”. Nella Romagna dei primi anni Settanta le donne che prendevano la pillola saranno state, a voler esagerare per eccesso, forse tre. E dovevano emigrare, perché per ottenere la ricetta bisognava andare a Bologna, dove c’era il consultorio più vicino. Viene da pensare che, se la mamma non mentiva per la gola – e tutti voi lo conoscete, il Primo Precetto del Codice, “La Mamma dice sempre la verità” – in giro per la Romagna ci fosse un agente vaticano che distribuiva pasticche Zigulì alle ragazze un po’ tonte, garantendo loro la protezione dai rischi dei rapporti sessuali.
Invece l’esempio delle magnifiche sorti e progressive, nel mio caso, si chiamava Annarita. Costei era la figlia unica e viziatissima di una vicina di casa con manie di crescita sociale – come tutte le mamme, del resto, ma lo chiamano “desiderare il bene dei figli”. Io non volevo mettere l’apparecchio ai denti? L’Annarita lo aveva messo e le era spuntata una smagliante dentatura a cinquantadue carati, mentre io in bocca continuavo ad avere una mano di scala quaranta giocata da un tavolo di dementi. Io non volevo fare le camminate in montagna? L’Annarita marciava dritta come un fuso lungo i sentieri alpini seguendo il suo babbo, e dopo un’estate di allenamento particolarmente strenuo le erano cresciute le tette, mentre io, che passavo l’estate chiusa nella mia camera a leggere i fumetti, rimanevo piatta come una tavola.
A quattordici anni l’Annarita si iscrisse al liceo classico, si mise fin da subito a frequentare gli ambienti giusti e in pochi mesi catturò un rampollo di famiglia benestante, col quale si fidanzò. Anch’io mi iscrissi al liceo classico, ma continuai a frequentare gli amici del mio quartiere scalcagnato, mentre mio padre prendeva in mano il vocabolario di greco e si chiedeva a che pro stava spendendo tutti quei soldi. L’Annarita procedeva sicura e si teneva attaccata come una cozza al fidanzato ricco, che si iscrisse a ingegneria, prese la laurea e cominciò a lavorare – anzi, a dare ordini – nell’impresa edile del babbo. Io invece, che non davo retta alla mamma, mi tenevo alla larga dai rampolli di buona famiglia e – dio me ne scampi… – dagli studenti di ingegneria, e frequentavo solo chi condivideva la mia stessa passione per le canne e non pensava alla carriera, ma se mai alla corriera, al Magic Bus per andare in India. E la mamma si chiedeva cosa mi avevano mandato all’università a fare.
L’Annarita si laureò, andò a insegnare inglese alle superiori – anche se non aveva mai messo piede in Inghilterra perché il fidanzato non voleva – si sposò e procreò due figli in rapida sequenza, entrambi maschi. Io invece, che non davo mai retta a mamma, passavo da un lavoro da bidella a uno squallido impiego in un ufficio di merda, rimanevo orgogliosamente single e quando mi stancai della coabitazione studentesca, mi accampai in un minuscolo monolocale col cesso in cortile, l’unico posto di Bologna che le mie finanze potevano permettersi. Tutto pur di mantenere quella distanza di sicurezza di almeno sessanta chilometri tra me e la mamma. Che non se ne faceva una ragione e ogni domenica aveva i travasi di bile, quando vedeva l’Annarita scendere coi due pargoli dal macchinone dell’ingegnere per andare a pranzo in famiglia. E ogni volta che mi costringevo a far visita ai miei, perché avevano minacciato di farmi venire a prendere dai Caschi Blu, mi trovavo anche a fare i conti con i vestiti smessi dell’Annarita.
La signora aveva “fatto un buon matrimonio” e spendeva tutto il suo stipendio in vestiti, ma per far largo ai nuovi portava i vecchi dalla mamma. Non ho mai capito il motivo di cotanto sforzo, perché comprava sempre gli stessi tailleur e chemisier, sconsolatamente uguali; forse per dare alla sua mamma la soddisfazione di umiliare la mia, con l’offerta di abiti a volte ancora con l’etichetta attaccata, per quella figlia con i jeans stracciati e le magliette punk. Ma avete mai provato a dire alla mamma che quei vestiti non li volete? Una delle trasformazioni che avvengono con la maternità è quella forma di sordità selettiva che impedisce alla mamma di sentire quando voi dite che no, grazie, quel completo non lo indosserete mai, piuttosto la morte, e che non intendete tornare a casa carica di Tupperware ripieni dei suoi manicaretti, perché vi fanno schifo. Dopo un po’ vi abituate, prendete su tutto e lo buttate giù dal treno. Dopo aver recuperato i Tupperware, naturalmente, che di quelli la mamma tiene l’elenco a memoria.
Col tempo sentivo parlare sempre meno dell’Annarita, e presa dalle mie faccende non me ne preoccupavo, finché un giorno, mentre scontavo una visita obbligatoria, trovai la casa della mamma sommersa dai vestiti. Sembrava una boutique vintage di abiti da donna taglia quarantadue, firmati e sconsolatamente uguali, e questo nonostante fossero già passate tutte le mie cugine a servirsi. Chiesi alla mamma se l’Annarita aveva traslocato, e in effetti era così. La poveretta, che prometteva così bene fin dall’infanzia, e aveva messo a frutto gli studi per accalappiare un marito ricco, si era specializzata come cornificatrice seriale, secondo la prassi in tali circostanze. Però il marito ingegnere l’aveva beccata in vacanza ai Caraibi col maestro di sci, a spese sue, e l’aveva sbattuta fuori di casa. Stavolta, nel monolocale c’era dovuta andare lei, e tre o quattro treni merci di vestiti erano finiti a casa della mamma.
Mi scappava talmente da ridere che un tailleur quella volta lo presi su anch’io. Magari, se dovevo andare a un funerale… Però la mia mamma non se ne è fatta lo stesso una ragione. Lungi da lei capire che fidanzarsi a quattordici anni con un futuro ingegnere col fisico da pera volpina implicava o la vocazione alla vita monastica, o l’attività da cornificatrice seriale. Però mamma ha continuato a lamentarsi con le vicine per la figlia ingrata che le è capitata. Tanti sacrifici per mandarla al liceo e poi all’università, e non è stata capace nemmeno di sposarsi un ingegnere, o un medico, magari un dentista…
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