di Francesco Grano
Inizio anni ’80. Dopo una missione finita male, Danny Bryce (Jason Statham), esperto killer professionista, decide di ritirarsi dal settore, ormai stanco di morte e sangue. Ma a distanza di un anno la sorte sembra giocare a suo sfavore. Venuto a conoscenza della prigionia del suo amico, partner di lavoro e mentore Hunter (Robert De Niro) per mano di uno sceicco dell’Oman, Danny si trova a dover “rientrare” nel giro. Per poter liberare Hunter, Danny dovrà portare a compimento una rischiosa missione rifiutata proprio dal prigioniero: eliminare degli ex membri della S.A.S. britannica, colpevoli di aver ucciso tre dei quattro figli dello sceicco durante delle black ops. Per placare la sete di vendetta e così liberare il suo amico, Danny accetta, e rimettendo insieme il suo vecchio team dà il via alla “caccia”. Ma ben presto un ex membro della S.A.S., Spike Logan (Clive Owen), facente parte di un ramo deviato delle forze speciali, si mette sulle tracce di Danny e i suoi, fino a quello che sfocerà in un imprevedibile e letale faccia a faccia.
Basato sul romanzo biografico The Feather Men di Ranulph Fiennes, Killer Elite (2011) porta lo spettatore all’interno del mondo dei sicari professionisti, mercenari cinici e pronti a tutto durante l’ultima decade della guerra fredda (le vicende narrate si svolgono, infatti, tra il 1980 e il 1981), e l’irlandese Gary McKendry, qui alla sua opera prima, recupera alla perfezione quell’impianto nostalgico dei film d’azione anni ‘80 made in U.S.A., basato sulla “fisicità” attoriale degli eroi inscalfibili di turno (i vari Stallone, Willis, Gibson, Schwarzenegger) e sul realismo delle azioni. Nonostante l’esplicita ispirazione tecnica, il regista non opta per un fittizio contesto “di fantasia” bensì ben precisato, senza discostarsi da quella che era la realtà dei fatti: gli anni ’70 e ’80 sono stati “dominati” da guerre clandestine, assassinii politici ed economici, operazioni sotto copertura. Ed è proprio in questo che il film di McKendry è riuscito, nel ricreare cioè alla perfezione tutto quello che il mondo viveva, per davvero, in quegli anni.
Il ritmo è serrato, si respira un’aria di pessimismo e costante tensione, la sensazione di imminente pericolo aleggia per tutta la durata di questo duro e granitico Action-Thriller; sì, perché in Killer Elite non viene risparmiato niente allo spettatore. Ed ecco che si viene a contatto con la crudezza degli omicidi su commissione, fra sangue e brutalità d’ogni tipo. È un film “reale”, duro, che colpisce basso quando meno te lo aspetti, che non lascia spazio a manierismi “spettacolari” ma solo ed esclusivamente a sequenze molto realistiche in quasi due ore di pellicola.
Non ci sono eroi nel settore degli assassini freelance, semmai i protagonisti sono degli anti(eroi) legati indissolubilmente al loro “mestiere” di guerriero. Tuttavia in questo mondo violento è permessa anche una riflessione sulle possibilità di “redenzione” per chi si macchia le mani al posto di altri. Danny è sì un assassino, ma stanco di tutto l’orrore visto e perpetrato. L’unica cosa che lo riporta in questo circolo di violenza è la prigionia di Hunter al quale, una volta liberato, chiederà di uscire dal giro e così chiudere definitivamente col passato.
A rendere ancora più interessante il buon lungometraggio di McKendry, è il tris di star alle quali sono affidati i ruoli principali: Jason Statham, oramai il nuovo eroe del cinema Action (e già sicario professionista in Professione assassino – The Mechanic, 2011, nel remake dell’omonimo film del 1972), ma in grado, come qui, di mostrare una maschera di debolezza umana celata dietro all’inossidabile e imperturbabile “faccia” da duro; Robert De Niro che, dopo aver recuperato quello smalto un po’ perduto negli ultimi anni, ci consegna una figura simile a quella dell’altro mercenario da lui interpretato nel film di John Frankenheimer, Ronin (1998). Infine un Clive Owen mai visto così cattivo e spietato come in questo ruolo (se si esclude, in parte, Sin City, 2005).
Killer Elite è un film di uomini che si scontrano per poter, in qualche modo, affermare i propri “ideali” o quelli di chi li manipola dall’alto. Uomini che hanno dismesso una divisa che, in fondo, non hanno mai svestito e per i quali le guerre, anche se finite, non hanno “fine” all’interno di se stessi almeno fino a che entrambe le parti belligeranti non dicono che il conflitto abbia avuto termine.
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