di Ella May
Quando inizio a parlare di Marco Archetti chi mi conosce ha già chiaro dove intendo andare a parare. D’altronde non è per caso che Marco è diventato uno dei più apprezzati tra gli scrittori italiani contemporanei. Basta percorrere un qualsiasi romanzo della sua produzione per intuire subito di avere tra le mani qualcosa di diverso, qualcosa di particolare, anche se non si riesce immediatamente a identificare quale sia il “quid” distintivo che ci trasmette quella forte sensazione di “altro”.
Eppure quel “quid” c’è, è sempre presente e non gli serve sbracciarsi come un forsennato per catturare la nostra attenzione. Di cosa si tratta? Semplice: si tratta di vero talento, di sensibilità, di verità masticata e fantasticata. Ma, soprattutto, Marco sa come si racconta una storia.
Lo abbiamo già incontrato qui un po’ di tempo fa e non potevamo certo lasciarci sfuggire l’occasione di una sua doppia uscita, così siamo tornati con piacere a tormentarlo, curiosi di saperne di più.
Potrei parlare per ore dei suoi lavori e della sua scrittura, lo leggo dall’ormai lontano 2006. Invece devo trattenermi, perché lo scopo di queste interviste è l’esatto contrario: far conoscere i libri attraverso le parole dell’autore e non attraverso gli sproloqui dello scribacchino di turno.
Perciò mi faccio da parte e gli lascio campo libero, limitandomi a presentare i due titoli che ha pubblicato quest’anno: “I giorni non si scavalcano”, edito da Rizzoli, e “Effetto farfalla. La mia vita raccontata a Marco Archetti”, edito da Mondadori.
1) Ciao Marco, è un grande piacere per noi ospitarti di nuovo su LetterMagazine. E stavolta abbiamo ben due libri di cui parlare, doppio gaudio! Quindi partiamo subito, senza tergiversare. Ti va di spiegarci come mai quest’anno hai deciso di darti alle biografie?
Non sento di “essermi dato” alle biografie, e almeno per un paio di ragioni. La prima: il libro che racconta la vicenda del pugile Leonard Bundu è un romanzo a pieno titolo, ne ha tutti i crismi, è raccontato in terza persona, ha uno sfondo che esula dalla mera vicenda centripeta del protagonista e infatti racconta anche della Sierra Leone, di Lampedusa, e di tutta un’altra serie di storie che ruotano intorno al tema dell’essere stranieri (anche a se stessi) che poi è forse il vero tema di questo testo, così come – credo – di tutti i testi che hanno a che fare con la boxe e i pugili. La seconda: il romanzo su Leonard l’ho voluto io, mentre il libro sulla ginnasta Vanessa Ferrari – che è un’autobiografia cofirmata – l’ha voluto Mondadori e l’ha chiesto a Vanessa. Io ho goduto del privilegio della sua fiducia, dunque ci siamo messi lei a raccontare e io a scrivere. Scrivendo, ho cercato di dare al tutto un ordine, che poi, in assoluto, è il mestiere di chi fa il mio mestiere, indipendentemente dalla storia che si deve o vuole raccontare.
2) Hai raccontato le storie di un pugile e di una ginnasta, due grandissimi atleti italiani: cos’hanno in comune due discipline come il pugilato e la ginnastica artistica, apparentemente tanto diverse?
Non so cos’abbiano in comune, eccetto il fatto, forse, di essere due tra le più severe attività sportive che esistano – che richiedono cioè un impegno totale, una dedizione ascetica, anche se può sembrare strano usare questo aggettivo, eppure, credimi, è così. Inoltre sono due sport che impongono al corpo e alla mente un rapporto con il limite che è molto simile.
3) E perché hai scelto proprio Leonard Bundu e Vanessa Ferrari?
Leonard l’ho conosciuto durante una conferenza stampa prima di un match a Brescia. La sua storia di italiano africano, la sua vita, la trafila esistenziale e sportiva per diventare un uomo e un atleta degno del ring mondiale mi sono sembrati ingredienti succulenti per un racconto. E poi volevo tirarne fuori un romanzo che fosse anche documento, sguardo sul presente, occasione per raccontare questo nostro tempo. Ma ecco, direi che la prima forza motrice, come sempre quando si tratta, per me, di prendere in mano la penna, è stata la sensazione, vorrei dire quasi la pre-cognizione, che mi trovassi di fronte a una storia; dico pre-cognizione perché c’è qualcosa, in me, che si attiva, che si eccita e si accende, quando sento che una storia sta per arrivare. Non c’entrano gli ingranaggi del cervello o le rotelle di un qualunque ragionamento, direi che si tratta proprio di corpo, di inguine, di pancia. È un momento bellissimo, pirico, travolgente – sono grato al mio mestiere, perché mi fa provare l’emozione di questo improvviso fiammifero. Quanto a Vanessa, l’avevo intervistata per la prima pagina del Corriere della Sera e abbiamo continuato un poco a vederci e sentirci. Anche nel suo caso, mi sono reso conto che nelle sue vene scorreva una storia, in gran parte non raccontata – e per fortuna, dato che Vanessa ha tratto proprio dal silenzio la sua ascetica energia, il martello della sua volontà può lavorare solo in condizioni di totale “esilio” dalle attenzioni di chicchessia. Quando Mondadori l’ha chiamata, lei ha chiamato me. Io e lei ci assomigliamo un po’, ben più di quanto si possa dire o credere; ho capito che avrei lavorato bene, e mi ha fatto piacere ricevere da lei carta bianca sull’organizzazione narrativa dell’autobiografia. In sintesi, sono stati due libri molto diversi, ma entrambi mi hanno insegnato molto. Alcuni forse avrebbero storto il naso all’idea di scrivere il primo o al momento di vedersi proposto il secondo. Io ho amato lavorare a entrambi. Adesso tornerò ai miei progetti individuali – anzi, ci sono già tornato. Ma questi due libri mi hanno reinsegnato un aspetto della scrittura che considero fondamentale: saper ascoltare. Scrivere viene dopo. O magari non viene affatto. Ma ascoltare è fondamentale in ogni caso.
4) Dal momento che anche tu pratichi il pugilato, ci spieghi cosa ti offre questo sport? Cosa significa per te e cosa ci riversi dentro? Sempre che abbia un significato particolare e che tu ci riversi qualcosa, ovviamente.
Non ci riverso nulla, perché per fortuna non sono sopravvissuto a un’infanzia complicata, violenta o di emarginazione – il peggio che mi è capitato è stato avere una madre catechista. Lo pratico da amatore, dunque mi piace, mi fa sentire bene, acuisce i riflessi e mi diverte tutta la fatica che mi fa fare, perché mi ripaga con tanto benessere e chiarezza mentale. In ogni caso, vedere un campione di boxe al lavoro su un avversario mi sembra uno degli spettacoli sportivi più sfolgoranti: ragione, emotività, corpo, movimenti, danza, incudine e piuma, tutto coniugato in un uomo che saltella, schiva, affonda. E poi riconosco al pugilato questa risorsa: dare opportunità a chi altrimenti non ne avrebbe. Questa è la sua inenarrabile nobiltà. Questo è stato, ed è, il suo valore politico.
5) Marco, tu sei un narratore, nel vero senso della parola. I tuoi libri raccontano storie con uno stile magistrale che rimane sempre e comunque tuo, riconoscibile fin dalle prime battute per chi (come me) ti legge da anni. Che differenza c’è tra lo scrivere una storia partorita in toto da te e lo scrivere una storia che appartiene ad altri?
Ce ne sono molte, ma forse nessuna così determinante. Forse esiste la stessa differenza che intercorre tra girare un film con una sceneggiatura propria e girare con una sceneggiatura scritta da altri, che però hai scelto tu. In fondo hai sempre fatto il tuo film. E in effetti il romanzo su Leonard Bundu è un mio romanzo in senso stretto, cioè non lo sento figlio minore, anzi, l’ho davvero voluto dal primo momento all’ultimo. L’autobiografia di Vanessa reca comunque traccia della mia mano, del mio respiro narrativo; peraltro era ciò che anche Vanessa voleva.
6) Separiamo per un attimo i due percorsi. Leonard Bundu: a quali fonti hai attinto e che tipo di lavoro hai compiuto per trasformare la sua storia in romanzo?
Le fonti cui ho attinto sono state il pugile stesso, il suo allenatore, tutti coloro che hanno camminato con lui, anche nel passato; telefonate, incontri in treno a metà strada, piccoli viaggi. Ma la cosa più importante è stata seguire Leonard, stargli appiccicato ovunque, in casa, in allenamento, in giro a Latina, a Firenze, a Londra, a Birmingham, fino a pochi secondi prima che salisse sul ring, durante il match e appena dopo. Non volevo solo raccontare quel sudore, volevo proprio che il lettore lo odorasse. Anzi, spero proprio che certe pagine siano inzuppate – spero, cioè, che la scrittura non sia passata solo attraverso le parole; spero che lo si legga con la spugna in mano.
7) E ora Vanessa Ferrari. Stessa domanda: a quali fonti hai attinto e che tipo di lavoro hai compiuto per scrivere la sua storia?
Con Vanessa è stato più facile: era la sua versione dei fatti – è un’autobiografia. Dunque l’unica fonte è stata lei. Quel che mi ha più colpito della sua storia è stata la pervicacia, l’ostinazione, il pragmatismo con cui lei ha voluto le cose che ha voluto. E la soddisfazione, ma mai l’affezione, con cui ne parla. Lei poi dice: “Ho vinto tutto quel che ho vinto, ok, ma è il passato. Bisogna guardare avanti e non celebrarsi.” Dovrebbe parlare molto di più di quanto non faccia, esporsi un poco, lei è davvero un dono di acciaio e cuore. Ma capisco – e, in un certo senso, la mia simile pasta riconosce e condivide la sua – la riservatezza che esige; la necessità, per lei, di essere se stessa, senza turbative che vede poco attinenti al suo unico lavoro, ossia quello di sudare e allenarsi.
8) Quale delle due storie è stata più difficile da raccontare e perché?
Quella di Leonard è stata un poco più faticosa per le distanze geografiche e un concetto di puntualità – che Leonard ha, non so se acquisito o innato – che è un poco più inaffidabile di quello di Vanessa. Inoltre Leonard ha voluto, giustamente, leggere ogni riga che scrivevo quasi mentre la scrivevo. Invece Vanessa si è affidata molto di più, con ammirevole spericolatezza, avendo capito immediatamente che poteva fidarsi; mi dicono sia un atteggiamento rarissimo, in lei, ed è stato uno dei regali che porterò sempre con me ripensando a questo nostro libro.
9) Esco per un attimo dai tuoi scritti e ti rivolgo una domanda che mi rimbalza in testa da qualche mese. Ho notato che negli ultimi anni i libri a tema storico o che trattano biografie (più o meno romanzate) vanno per la maggiore, anche tra gli esordienti. Secondo te a cosa è dovuta questa tendenza?
Non saprei. In generale, credo che se uno scrittore si accorge che la storia di un altro è più interessante della propria (o di quella che ha congegnato lui stesso) faccia benissimo a buttarcisi. Il gioco funziona, però, solo se in ciò che racconti intuisci subito qualcosa che ha a che vedere con la tua visione del mondo, dal punto di vista narrativo, altrimenti si sprofonda nella più sterile e seriale manodopera. Quanto al fatto editoriale, credo sia una moda del momento. Nell’editoria inglese il genere è in fioritura da molti anni e prosegue, pare, con buone prospettive e anche, va detto, con derive gossippare che a tratti mi disgustano. Comunque non so che dirti, in quanto fenomeno di moda non mi interessa granché, io avevo voglia di scrivere questi due libri e li ho scritti. La fortuna è stata che due editori sono stati interessati a pubblicarle.
10) Avrei voglia di chiederti una miriade di cose sull’argomento “libri, autori e case editrici”, ma non voglio trattenerti troppo a lungo, perciò torniamo subito a te: dopo tanti anni di scrittura, te la senti di farci un bilancio generale del tuo lavoro? Per esempio, a me piace pensare che ogni scrittore possa individuare, tra i vari frutti della sua carriera, quello che lo rappresenta più di tutti gli altri; una sorta di “figlio prediletto”, se mi passi l’espressione. Ecco, tra i libri che hai scritto finora ce n’è uno che hai sofferto (o goduto) più degli altri e a cui sei rimasto in qualche modo più legato?
Ogni libro ha avuto una vicenda a sé. Magari lo ami per ragioni extra letterarie, inspiegabili a un lettore o, ancor di più, a un editore. Lasciami confessare che per me, all’inizio, il problema vero era accettare i libri che scrivevo. Credo sia una grana che riguardi tutti gli scrittori, no? Ti viene in mente una storia, la scrivi e la riscrivi, viene pubblicata, ti sembra il meglio che potessi fare. Poi passa il tempo, e il tempo può anche giocare brutti scherzi. Un giorno riapri quel libro per caso e trovi incongruenze, stupidaggini, errori. All’improvviso, quella foto è sfocata e tu ti vedi goffo, mal rappresentato, catturato nell’istante in cui sei in balia di una smorfia penosa e imbarazzante. Per anni certi miei libri li ho vissuti come quella smorfia, la smorfia di uno che non aveva saputo fare di meglio. Ora li accetto tutti, dal primo all’ultimo. Ne sono anche moderatamente orgoglioso perché, nel bene e nel male, sono quello che fino ad ora, nella vita, ho saputo fare. Detto ciò, io sono uno che fissa l’idraulico quando, con destrezza, smonta un sifone e doma come un mago Merlino il caos dello scarico e delle tubature, e sono uno che crede che sia lui uno che sa davvero fare qualcosa, non certo io che me ne sto alla scrivania a ingarbugliare storielle mediando tra le mie intime istanze e i libri che ho letto. Ma in ogni caso voglio rispondere alla tua domanda. Mixando ragioni letterarie ed extra, direi che amo… Maggio splendeva, Gli asini volano alto e Sabato, addio. Il che non vuol dire che non ne noti qualche difetto.
11) Toglici una curiosità: hai già qualche nuovo personaggio che ti frulla in mente? A quando il prossimo libro?
Ho un certo numero di personaggi che mi frullano con costanza nella mente. Pezzi di vecchie idee, storie che ho buttato giù ma sono rimaste impigliate nella carta e non sono, per chissà quali ragioni, decollate. Direi, anzi, che la mia vita di scrittore consiste in un poco affascinante e assai ripetitivo rimuginare pezzi di cose che mi chiedo ossessivamente quando potranno diventare qualcos’altro. In questo periodo ho dei pensieri, e so per certa una cosa: dopo un noir, un noir semistorico e un romanzo di boxe, voglio tornare presto a scrivere storie comiche e grottesche, screziate da quel po’ di surreale che mi ha sempre divertito, che mi diverte anche nella vita. È la mia corda preferita, la mia naturale. Quando la realtà deraglia dai propri binari e dà luogo a qualcosa di diverso, in cui si sovverte il senso consueto e i personaggi si trovano a disagio, vado in giulebbe. L’eterogenesi, in poche parole… Ma direi che posso anche smetterla con questo lessico da preside pedante, che ne dici?
12) Tu sei, per vari motivi, uno degli scrittori contemporanei italiani che amo di più. E non so dirti quanto mi piacerebbe poter assistere a una tua presentazione. Ogni volta che esce un tuo libro spero che il tour promozionale ti porti vicino alle mie zone. Se ti prometto di non farti domande e di starmene zitta e buona in un angolo, mi farai sapere dove e quando ne terrai una? Specialmente se dovesse capitarti di venire in Toscana.
Promesso. Occupati di prenotare il ristorante per dopo.
(Ci sto! Consideralo già fatto.)
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