di Elisa Scaringi
La La Land è un film bello. Semplicemente, senza aggiungere altro. Per la regia, la trama, le musiche, le interpretazioni. Capita raramente di poter godere di una pellicola alla quale non è necessario aggiungere altro. Mai noiosa, per nulla banale, romantica quanto basta. Una fiaba gentile che mette il buon umore. E meraviglia per la giovane età del regista: quei 32 anni che non sembrano far soffrire Damien Chazelle di un complesso di inferiorità. La sua mano audace sa infatti costruire un prodotto eccellente, pieno di rimandi alla Hollywood che fu. Quella eccentrica e fascinosa dei Cinquanta e i Sessanta del Novecento, quando il pubblico poteva sognare guardando Singin’ in the rain oppure West side story. Ora le luci tornano a illuminare un’atmosfera senza tempo, sospesa tra il rimpianto del passato e le urgenze del presente. Che è poi il dilemma che interroga il protagonista maschile, Sebastian (Ryan Gosling): come conciliare la passione per un jazz che non tornerà più con le nuove tendenze della musica contemporanea, annoiata dal vecchio e desiderosa di nuove contaminazioni. Ma è anche il primo tema forte attraverso il quale poter leggere La La Land: quanto sia giusto e opportuno scendere a compromessi con il presente, chiudendo la porta al passato per aprirla sul futuro. Da qui si diparte il secondo grande filone, che interroga questa volta la protagonista femminile, l’aspirante attrice Mia (Emma Stone): fino a quanto si può insistere per realizzare il proprio sogno? Quanto siamo in debito con ciò che è stato e senza il quale non potremmo essere dove siamo?
Il regista risponde per lei, costruendo un intreccio che, senza emulazione, succhia linfa vitale dalla storia del cinema (e non solo). Quella dei piani sequenza di Orson Wells e Alfred Hitchcock, dei musical newyorkesi di Broadway, del jazz alla Charlie Parker. La lunghissima ripresa d’attacco riesce, per esempio, a creare qualcosa di assolutamente nuovo: la macchina non stacca mai dai volti e dai suoni, portando chi guarda a immedesimarsi fin da subito. Utilizzato per ricreare la realtà sullo schermo (manipolabile dal montaggio serrato), il piano sequenza ricorda qui l’uso che ne fece Iñárritu, quando nel suo Birdman il teatro sfondò la barriera del cinema per fondere i linguaggi e parlare di sé. In questo caso, attraverso la lunga scena iniziale (priva di stacco) Chazelle vuole prendere per mano e rassicurare: “non parlo di finzione; potrebbe essere tutto realistico”.
Diversamente da quanto creato dai fratelli Coen, Hollywood non è più il mattatoio da dissacrare, viene ristabilito a luogo magico dove i sogni possono ancora avverarsi. Se in Ave, Cesare! il palcoscenico smette di luccicare, La La Land è la riappacificazione dopo la rottura. Ai palati sopraffini, quali sono gli spettatori che non dimenticano, il regista si confessa tra le righe. “Se avete creduto alle scene ironicamente sbeffeggianti dei Coen, o avete riflettuto sulle analisi meta-cinematografiche di uno come Iñárritu, ora concentratevi sul mio racconto da fiaba. Non vi prometto fuochi artificiali o effetti speciali. La mia è soltanto un’idea: ovunque sia per ciascuno di voi, non lasciate scappare la speranza”. Eh sì, qui Hollywood è solo lo scenario, e il mondo dello spettacolo il contesto. La storia è tutt’altro rispetto alla critica dura e cruda: un sogno a occhi aperti fatto di bei contenuti e musiche ancora più belle. Perché molta parte della godibilità del film sta proprio nelle melodie, quei tre o quattro motivetti che tornano spesso per rimanere lì. La mente continua a sognare: immaginiamo di realizzare qualcosa per noi speciale, e la musica ci guida su queste onde che vorremmo fossero vere. Alla fine il pregio migliore di questa pellicola sta nella speranza di poter un giorno inseguire qualcosa che di bello (tutti) abbiamo sempre accantonato in un cassetto. I sogni hanno ancora la licenza d’esistere, nonostante il mondo ci dica spesso il contrario.
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