di Margherita Merone
La filosofia è nata nel momento in cui l’uomo, preso da stupore e meraviglia di fronte alla multiformità del reale, si è messo alla ricerca di quell’unità che potesse dare ragione di tutto il molteplice visibile. La realtà non si manifesta unica ma sotto molti aspetti, è sempre in divenire, muta continuamente. La filosofia fin dall’inizio ha compreso che il problema da risolvere era quello di cercare un’unità che potesse spiegare il molteplice e descriverne le conseguenze. Una realtà che continuamente diviene poteva essere compresa solo riducendola a un’unità ideale, immutabile.
I primi filosofi di fronte alla realtà non sono, dunque, rimasti indifferenti. La natura non era in grado di dar loro tutte le risposte che nascevano da domande ben precise. Se da una parte la scienza rimaneva descrittiva, la filosofia si mostrava fondativa. I filosofi si misero alla ricerca dell’archè, ossia del principio, del fondamento, di quella causa prima che permane al di là del fluire continuo dei fenomeni, ossia di ciò che appare. Il fine è chiaro, bisogna rendere ragione del perché tutte le cose che si presentano ai nostri occhi siano così e non in un altro modo. Se la scienza, come sappiamo, parte dai dati, dai fatti, non è così per la filosofia che inizia la sua investigazione ponendosi delle domande precise: chi, che cosa, perché, da dove, e così via.
Si è soliti far risalire la nascita del pensiero filosofico a Mileto in Asia minore, all’incirca nel VII-VI sec. a.C., con Talete. Per lui l’archè era un principio naturale: l’acqua. Anassimene lo attribuiva all’aria e Anassimandro parlava di apeiron, una quantità illimitata e indefinita che compone ogni cosa e che governa tutto. Al di fuori della scuola di Mileto a parlare di logos come legge di ragione che governa il divenire della realtà era Eraclito. Osserva la realtà e si accorge che nel mondo dominano i contrari, gli opposti, che pur lottando fra loro non possono fare a meno l’uno dell’altro, ad esempio l’odio e l’amore. Il logos è quell’unità capace di armonizzare i contrasti esistenti in natura. Eraclito, poi, osserva che un oggetto muta, si può trasformare, non è mai identico a se stesso. Dunque tutto scorre, è effimero, contingente e per comprendere meglio questo concetto è ben nota la sua affermazione «non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume». Simbolicamente racchiude il suo pensiero nell’immagine per lui perfetta per intendere il divenire: il fuoco. Per il filosofo la realtà, tuttavia, non è nelle mani del caos, non procede accidentalmente, ma è sotto la vigilanza di un’intelligenza che armonizza i contrari esistenti nella realtà.
Nella scuola pitagorica, Pitagora trovò nel numero il fondamento delle cose, mentre Parmenide, fondatore della scuola eleatica pose l’essere come sostanza unica, essere eterno, unico, necessario, immutabile. Solo l’essere è la verità, mentre il divenire è pura illusione. Affermava, infatti, chiaramente che «l’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può in alcun modo essere». Il suo discepolo Zenone non fece altro che difendere quanto il suo maestro era fermo nel sostenere, ossia che solo l’essere è pensabile, non il divenire. Il movimento non è pensabile, se ne ha percezione solo con l’esperienza, ma questo è il non essere, che non ha senso perché ciò che muta non ha alcun significato.
Altri pensatori seguenti tornarono ad osservare la natura, infatti nel V sec. Empedocle considerò come l’origine di tutte le cose ben quattro principi: l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. Con il passare del tempo si cominciò a spostare l’attenzione non tanto sull’archè delle cose, quanto piuttosto su come potesse avvenire il mutamento, questione che si era già posto Eraclito. Il principio unico divenne multiplo. Si studiavano con scrupolo le leggi che regolavano di questi principi il loro unirsi e dividersi, per cercare di spiegare, appunto, il divenire e le varie trasformazioni in natura. Anassagora arrivò a parlare di semi, particelle invisibili e piccolissime di materia e di un’intelligenza divina in grado di mettere ordine al caos.
A darci una prima spiegazione meccanicistica dell’universo fu Democrito, il quale sosteneva la presenza di atomi, particelle piccole di cui ogni cosa è composta, la cui differenza è quantitativa e spaziale, pertanto misurabile. Esisterebbero allora leggi necessarie, prevedibili, senza esserci una qualche intelligenza che le governi. Gli atomisti erano convinti di quello che affermavano e così i loro predecessori. È comprensibile che la ricerca filosofica avesse dapprincipio come indirizzo specifico la conoscenza della natura: si cercava di darne una giustificazione, tutto il lavoro era concentrato sulla fisica.
L’essere umano era totalmente trascurato, non era importante occuparsi della sua vita, non c’era interesse per il suo destino o per i suoi vari problemi. Con Socrate finalmente c’è una svolta: l’oggetto esclusivo e privilegiato dell’indagine filosofica è l’uomo. Alla base del suo pensiero c’è il dialogo, strumento importante per stuzzicare nell’interlocutore la risposta. Interessante è il suo punto di partenza e tutto il suo metodo d’indagine, riassumibile in due parole: ironia e maieutica (l’arte della levatrice, colei che aiuta a partorire). Fingendosi ignorante, Socrate poneva domande all’interlocutore coinvolgendolo completamente, senza fornirgli mai soluzioni; anzi, inseriva durante il dialogo perplessità e dubbi in modo tale da mettere in discussione qualsiasi risposta. Ciò era voluto, serviva per tirar fuori alla fine dall’interlocutore la vera risposta, per arrivare a scoprire la verità dentro di sé, una verità che doveva avere la caratteristica dell’universalità, superando qualsiasi opinione soggettiva. Socrate sosteneva, inoltre, che sapere è virtù e chi sa non può che seguire la via del bene, in quanto il male non è altro che frutto dell’ignoranza.
Così è nata la filosofia, ma l’indagine filosofica non si è mai fermata e mai si fermerà. L’uomo è e sarà sempre alla ricerca della verità, certamente non di una verità relativa perché ciò che è relativo non è una verità, in quanto avrebbe le caratteristiche della mutabilità. Dalla filosofia, allora, si deve trascendere, andare oltre il dato immanente, dagli effetti si deve arrivare alla causa, dalle opere giungere al suo artefice. Con il cristianesimo si arriva ad una Verità, ad un Assoluto, a Dio, a colui del quale non si può pensare nulla di più grande, assolutamente perfetto, come affermava sant’Anselmo nella sua dimostrazione dell’esistenza di Dio.
Dio attraverso il Figlio ci ha indicato la verità: Gesù, immagine del Padre, non è solo la via e la vita, ma è la verità (Gv 14,6), è il principio e la fine di tutte le cose. Se la verità è nell’uomo, ma non si identifica con lui, allora è indubitabilmente qualcosa che è molto superiore, va oltre la realtà, non è immanente, è trascendente. A questo punto l’uomo non deve fare altro che trascendersi per poterla raggiungere.
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