(recensione e intervista di Flavia Chiarolanza)
Parliamo di violenza sulle donne. Il vaso di Pandora è nulla al confronto, e c’è già chi si cimenta abitualmente con bollettini più o meno giornalieri.
Gli organi di informazione non lesinano i dettagli, anche macabri, delle vicende che agitano l’ordinaria cronaca dei rapporti tra i generi; e la narrazione mediatica, ahimè, lascia spesso a desiderare, con quell’aura di giustificazionismo che aleggia intorno alla figura del colpevole e l’immancabile parola di rimprovero verso la vittima.
Eppure basterebbe predisporsi all’ascolto, perché le donne abusate sono in grado di gettare il proprio vissuto così com’è in faccia ai miscredenti. Niente, più del loro racconto, può farsi veicolo di realtà, con tutto il carico di stupore che essa si porta dietro.
In tanti hanno scritto sull’argomento, cercando la giusta chiave di lettura; ma quando al linguaggio della cronaca, o a quello più gretto del commentatore occasionale, si sostituisce l’eleganza della prosa, lo sforzo di comprensione appare più lieve.
Un romanzo si affida alla nuda forza delle parole, le porge crudamente al lettore in una sequenza che può solo essere interrotta, mai abbandonata o rimossa. Questo è il compito del buon romanziere: far sì che le pagine vengano sfogliate nuovamente, anche dopo la decisione di chiudere quel libro e riporlo nel cassetto a causa di una descrizione iperrealistica.
Credo che il termine ‘realistico’ sia il più adatto per definire il romanzo di Selene Pascasi, Avvocato aquilano e professionista esperta di questioni di genere. “Dimmi che esisto” è il racconto di una violenza carnale, uno stupro descritto con ferocia, ma non secondo l’accezione sensazionalistica del termine. Il linguaggio adoperato sfugge allo stile morboso dei media, che cercano di sollecitare gli istinti voyeuristici della platea incollata agli schermi.
Selene racconta gli istanti di quella violenza attraverso le parole che userebbe una donna, partendo dal suo corpo e dal suo cervello; descrive gli odori, i vocaboli che le giungono all’orecchio durante l’abuso, l’eternità degli attimi dilatati all’inverosimile, fino a prolungare un tempo che dovrebbe essere breve come la concitazione dell’atto impone. Pare di sentire il rumore delle perle, che si sfilano dalla collana e rotolano sul torace denudato. Quella nudità inflitta, che si vergogna, ma non ha altra scelta se non rimanere lì, alla mercé del mostro. Non si è mai abbastanza confuse o stordite. Ogni dettaglio viene colto e rimane maledettamente scolpito. E saprà affacciarsi al momento giusto, per ricomporre il mosaico dei ricordi che si cerca di debellare. Il dettaglio delle perle, come abbiamo detto, ma anche quello del seno che si agita scomposto sotto la violenza delle spinte.
A noi tocca immaginare l’intera azione, vederla come se ci scorresse davanti agli occhi, senza alcun filtro. Siamo solo noi e quelle pagine grondanti parole spietate. Osservando l’eroina del romanzo, non può più dirsi che basta chiudere gli occhi ed estraniarsi, fiduciosi che dopo si avrà tutto il tempo per farsene una ragione. Selene insegna a noi lettori che il dolore si avverte, eccome, si vive fino in fondo senza anestesia. È il dolore dell’attrito della schiena schiacciata sull’asfalto, o sulla sabbia, o su una qualsiasi altra superficie; il dolore dei corpi che si fronteggiano e si sfregano. E quando finisce, subentra la consapevolezza che quello era solo l’inizio.
Sulle prime il racconto di Selene può trarre in inganno. Il romanzo si apre con la descrizione di un’aula di tribunale, e degli attimi che precedono la lettura della sentenza.
In quell’aula è presente una donna vittima di stupro, che attende il responso dei giudici aggrappata al braccio del suo difensore, anch’essa donna. Il mondo le appare di nuovo sconosciuto e pieno di insidie, come quando era bambina e cercava nell’adulto piccoli gesti di protezione. Lui, lo stupratore, non viene mai descritto. Non sappiamo nemmeno dove sia, sul banco degli imputati o rinchiuso in una cella, a rimuginare sull’accaduto oppure a rievocarne i ricordi più eccitanti. Semplicemente, scompare dalla narrazione, immeritevole perfino di vedersi riconosciuta un’identità.
Tutto sembra procedere a rallentatore. Una pellicola stanca, dai colori bianco e nero. Perfino il carrello dei fascicoli, spinto dal tuttofare, avanza con una lentezza esasperante; e l’autrice con poche, abili mosse narrative ci spiega il vissuto di quell’uomo, la sua dignità nel compiere un’operazione solo apparentemente banale e ripetitiva. Ognuno di quei fascicoli racchiude l’epilogo di una storia, siglato dalla firma magari frettolosa di chi è avvezzo a giudicare le vite altrui.
A quel punto si suppone che la storia abbia una deriva thriller, magari con il consueto flashback che ci porta a conoscere i retroscena di quella violenza e delle indagini che l’hanno smascherata. E invece no, perché altrimenti si cadrebbe nello stereotipo della più becera narrazione giornalistica, impreziosita da qualche espediente letterario. Ciò che inizia è un viaggio a ritroso nella mente della protagonista, che prende spunto dalla vicenda giudiziaria appena conclusa per ricostruire la propria identità di donna precedentemente distrutta. E mai più riabilitata, fino a quel momento.
Selene, anche tu – come la protagonista del romanzo – sei un avvocato, e vanti nel curriculum la trattazione di tematiche legate al genere. Accade spesso che finzione e realtà si intreccino. Quando hai deciso di compiere questa interazione, e affidarne poi il risultato alle pagine di un libro?
In realtà, non c’è stato un momento esatto in cui ho deciso di affidare al narrato parte del mio bagaglio emotivo e professionale. Dimmi che esisto non nasce come progetto strutturato ma come parto inatteso. Sai, il rapporto di un autore con il proprio figlio di carta, passami il termine, è anomalo se vogliamo. C’è chi racconta la sua esperienza, chi inventa ogni singolo passaggio della storia e chi, come me, lancia nel testo veri e propri pezzi della propria anima, senza badare ad altro. Impeto allo stato puro. Nel mio romanzo, tutto è improvvisazione. Scrittura senza filtro.
Il rapporto con la scrittura può essere sofferto, se a monte esiste un’esperienza diretta delle vicende letterariamente narrate? Fino a che punto la penna si lascia guidare dal vissuto?
Può essere molto sofferto, fino al limite del dolore fisico, tangibile. Ancor di più, se si affrontano temi delicati e complessi come la violenza. Certo è che, quando invece di scrivere, ti lasci scrivere dalla tua opera, quando allenti le difese e ti spogli da ogni imbarazzo, beh, è inevitabile che la penna non solo si faccia guidare dal vissuto ma non si arresti di fronte a ragioni di opportunità letteraria che potrebbero trasformare un romanzo d’esordio in un prodotto commerciale da hit. Ma vale la pena piegare la propria arte per incanalarla negli standard del business? Per me no.
Il tuo libro contiene passaggi forti, intervallati da piccoli brani poetici che convertono in versi le parole di dolore. Come e perché ti è venuta l’idea di accostare, a una narrazione così potente, il linguaggio più lieve della poesia?
L’idea non mi è venuta per un motivo specifico. Nasco come poetessa per cui la forma del romanzo è, per me, una sorta di evoluzione narrativa, uno step ulteriore che si affianca alla lirica ma che non è, evidentemente, riuscito a prevaricarla. La poesia fa parte di me da sempre. Fin da bimba ricorrevo ai versi (non alle rime, no, le rime non le amo affatto, così come non amo né conosco la metrica) per lasciare un segno visivo delle mie emozioni. La poesia era l’unico modo che conoscevo per lasciare traccia dei miei pensieri… forse, temevo di perderli. Chissà. E il vizio di poetare, come vedi, non mi ha ancora abbandonato.
Mi piacerebbe conoscere le tue aspettative in merito ai potenziali lettori.
Grazie per la domanda, che mi offre l’occasione per chiarire ciò che non sempre arriva al pubblico. Il mio romanzo, a primo impatto, sembra trattare solo la violenza fisica. Non è così. Giulia, la protagonista, è stata stuprata. È vero. Ma è stata anche manipolata da un uomo, se ne è innamorata e, quando lui le ha voltato le spalle, ha scavato a mani nude dentro se stessa alla ricerca del “difetto” colpevole di averle fatto perdere Lorenzo, l’unico uomo che avesse mai amato. Ecco, mi piacerebbe che il mio libro fosse letto anche dagli uomini, perché è ora che si rendano conto che la violenza verbale, psicologica, la tattica del silenzio o della paura possono far danni seri ad una persona, uccidendole l’autostima. E poi voglio illudermi che le donne, grazie al mio romanzo, imparino ad amare se stesse, prima di amare un’altra persona.
Sei anche lettrice? E, data la varietà della tua formazione, quali letture preferisci?
Sì, anche lettrice. I regali che chiedevo alla mamma erano sempre e inevitabilmente libri. Devo dirti che ho letto molto ma non sono un’onnivora della lettura. Trovo noiosi i gialli al confine col poliziesco. Amo, invece, i thriller psicologici che sondano la mente umana, lasciandoci scoprire aspetti della nostra interiorità che non conosciamo. La psiche è una realtà affascinante, densa di vicoli ciechi e false partenze. Ma sono anche una donna romantica, quindi sul mio comodino non possono mancare i romanzi d’amore. Non quelli zuppi di “glucosio” narrativo, però. Mi piacciono le storie che hanno qualcosa di forte da dirmi, che scomodano i pensieri e aprono scorci inaspettati. Un buon libro, per me, deve parlare dritto ai sensi. Deve essere terapia.
Il tuo lavoro richiede meticolosità. Sei altrettanto precisa anche quando scrivi oppure, in quella veste, preferisci lasciarti andare al flusso dei pensieri (e delle parole, che ne scaturiscono)?
Quando scrivo, che sia una poesia, un romanzo o una canzone, mi lascio decisamente andare al flusso dei pensieri. Mi piace l’espressione che usi: flusso di pensieri. Difatti, ognuno di noi è, né più né meno, che la somma quasi aritmetica del proprio percorso di vita. Immagino le nostre singole esistenze come fiumi, flussi appunto, formatisi nel tempo da milioni di goccioline. Queste goccioline sono gli sguardi che ci sono caduti addosso, le parole che ci hanno ferito, le mani che ci hanno accarezzato la pelle e i sentimenti, le illusioni e tutte quelle maledette volte in cui chi professava amore o rispetto, lentamente ci sbiadiva dentro. È un flusso di vita e non lo fermi scrivendo. Finisce tutto lì, tra le parole.
Ho letto in rete dei numerosi impegni, che scandiscono il ritmo delle tue giornate. Fra l’altro, sei una firma del Sole 24 ore. Da ‘addetta ai lavori’, cosa ne pensi dei resoconti giornalistici in materia di violenza sulle donne? Spesso infatti la terminologia utilizzata è inopportuna, quando per esempio si parla di raptus – in riferimento ad un’azione lucidamente premeditata – come se tutto fosse riconducibile a una esplosione di follia.
Intanto, il termine femminicidio, non me ne vogliano i cultori, non mi convince. Lo si usa, purtroppo quasi quotidianamente, per definire il gesto di un uomo che uccide una donna mentre, per amor di precisione, il femminicidio dovrebbe qualificare l’omicidio motivato da odio sessista, il voler uccidere una donna in quanto tale. Ma, dati di cronaca alla mano, quanti uomini hanno ucciso mogli, compagne, amanti o fidanzate e quanti, invece, hanno puntato il coltello verso una donna qualsiasi, magari incrociata per strada? Ecco perché li chiamo omicidi. Aggravati, orribili, ma pur sempre omicidi. Il raptus, poi. Si parla di raptus con eccessiva facilità. Lo si confonde, come rilevi tu, con un assassinio premeditato. Ho studiato a fondo la mente criminale e ti assicuro che è estremamente difficile analizzarla e comprendere se l’omicida, al momento del delitto, fosse lucido o agisse (uso un gergo tecnico) in un intervallo di lucidità. Si tratta di indagini connesse alla neuroscienza, ambito in cui la terminologia ha un suo peso specifico e nessuno, men che mai i giornalisti dovrebbero farne un uso poco attento. Il rischio? Di creare confusione e “battere” notizie fuorvianti.
Credi anche tu, come ipotizzano gli esperti, che esista una cultura così radicata da rendere ‘banale’ il male inflitto agli altri (nella fattispecie, alle altre)?
Sicuramente è radicata, ma non tanto da aver raggiunto l’irreversibilità. Come dire, non tutto è perduto. Fortunatamente ci sono uomini che affiancano le donne nella lotta contro la violenza di genere, ci sono donne che non rinnegano l’esistenza di una, pur meno invadente, violenza a vittima maschile. E, fortunatamente, ci sono persone che sanno riconoscere il vero perimetro della violenza nella sua accezione più estesa, che ammettono che la violenza non ha genere, che include quella contro gli anziani, i diversi, i bambini e che, soprattutto, non è solo quella che lascia lividi sul corpo ma anche quella psicologica. La mia speranza, te lo grido con il cuore, è che ci si muova sempre di più nel sollecitare l’educazione sentimentale: l’unica chiave che possa scardinare le distorsioni culturali che sfociano in violenza. Penso, ricollegandomi alla lettura giornalistica di cui parlavamo, ai titoli di scatola “voleva lasciarlo”, “omicidio passionale”, “amore malato”. Ma quale amore? L’amore che uccide, che controlla, che zittisce, che ossessiona, non è amore. Questi, sono i concetti da trasmettere fin dall’infanzia. Ben venga, allora, l’educazione sentimentale come educazione emotiva che insegni ai bambini a gestire le emozioni e, perché no, a saper perdere.
Tu scrivi anche in inglese e vanti una notevole competenza in molti settori del diritto. Leggo di proficue collaborazioni all’estero. Con un’agenda così piena, come e quando trovi il tempo di scrivere? Lo fai nei ritagli tra un impegno e l’altro, o dedichi a te stessa un momento esclusivo da destinare a questa attività?
Gli impegni sono molti, sì, ma non da impedirmi di scrivere anche perché, quando ne sento l’esigenza mi fermo o accosto l’auto, se sto guidando, e scrivo, scrivo, scrivo finché quel famoso flusso non si arresta. Quante volte ho preso carta e penna nel bel mezzo di una mattinata in tribunale? Tante. Per rispondere, più precisamente, alla tua domanda… no, non ho un momento specifico della giornata che dedico alla scrittura. Non potrei averlo perché, come avrai capito, mi lascio trasportare dalle emozioni e sono loro a scegliere se, e quando, nascere usando la mia penna.
Hai in progetto una nuova fatica letteraria?
Sì. Proprio pochi giorni fa, d’improvviso, mi è apparsa davanti agli occhi la scena di un film. Li ho socchiusi e ho visto la storia di un uomo di mezz’età. Ho vissuto per un attimo la sua vita. In quel momento, ero quell’uomo. Sarà lui il protagonista del mio prossimo romanzo di cui ho già ben chiaro il titolo (non posso svelartelo, perdonami). Come sempre, non seguirò le regole del libro “wow”, di quello che “se lo scrivi così, vendi milioni di copie”. No. Come sempre lo detterà l’istinto. E spero che raggiunga tanti cuori.
Selene Pascasi, Dimmi che esisto, Edizioni La Gru, 2018
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