di Elisa Scaringi
Guardare un film non è mai una cosa facile: anche senza sforzo fisico gli occhi impongono alla mente un lavoro, fatto di rimandi, metafore e sentieri nascosti. Come quando dicono che leggendo si impara a scrivere, così, guardando uno schermo, si può iniziare a comprendere il mondo: basta trovare la chiave per scoprire cosa c’è sotto.
Dietro La profezia dell’armadillo (adattamento cinematografico del best seller di Zerocalcare) si nasconde, per esempio, un pinocchio contemporaneo (Zero), che varca la soglia dell’età adulta tenendosi per mano a un armadillo (animale notturno adattato a fare le veci del grillo parlante), a metà fra coscienza critica e amico immaginario. La chiave di lettura sta in una morte, quella dell’amica d’infanzia Camille: Zero decolla per un volo nei suoi ricordi di adolescente innamorato, sempre più indietro a ripescare gli attimi di un’amicizia preziosa. Ma in questo non c’è nulla di eccessivamente romantico: l’amore, infatti, è soltanto qualcosa di accennato; quello che preme raccontare è la formazione di un giovane ventisettenne romano, molto diverso dalle figure a cui ci hanno abituato gli ultimi film sulle periferie capitoline. Qui non c’è la malavita o la povertà, il disagio o l’ingiustizia: ci sono due amici, Zero il pensatore (Simone Liberati) e Secco l’esilarante (Pietro Castellitto), che bevono tè, non amano ballare né frequentare feste, sono colti anche se non laureati; insomma due bravi ragazzi di periferia che vengono da un quartiere più in là di Pietralata e molto più in là di Portonaccio, e cioè Rebibbia.
Per questo non si sentono minimamente a disagio, anzi, non amano proprio frequentare il centro, e quando ritrovano la quarta amica del gruppo rimangono delusi: ragazza a modo ma non proprio brillante, Greta sa proporre solo un mazzo di fiori per l’amica defunta. Zero, di fronte a lei, sta un gradino più su: sebbene non se ne intenda di tennis, è capace di instradare il giovane Blanka sulla via della disobbedienza intelligente, attraverso analisi davvero lungimiranti sulla vita dei giovani trentenni di oggi. Ciò che è giusto, infatti, non può essere stabilito da una legislatura, ma se lo è rimane tale per sempre.
Ecco allora che Zero è il ragazzo “giusto” della periferia, quello per cui la provenienza geografica non è un’etichetta che pone un limite ai valori. In questo senso Rebibbia non è più un luogo degradato o degradante, ma piuttosto un quartiere nel quale quattro adolescenti hanno saputo scovare i resti di un mammuth (che nella realtà sarebbe un elefante gigante di età preistorica, ma che esiste veramente), simbolo di un’amicizia sana, per la quale dire “mortacci tua” rappresenta un’espressione di affetto e non più una volgarità linguistica. Attraverso le inquadrature dall’alto, che fanno quasi da contraccolpo a quel piccolo disegno di animale preistorico, il contesto negativo viene superato: la periferia è ora addomesticata dal ricco mondo interiore di un ragazzo che, grazie all’aiuto di un armadillo (spesso noioso e molto ingombrante), è riuscito a crescere. Non a caso il teschio sulle sue magliette passa da un fumetto a un disegno realistico proprio grazie a quell’alter ego (interpretato da Valerio Aprea) che, giusto alla fine, lo accompagna per l’ultimo tratto insieme, tenendolo per mano come un vecchio padre saggio: la trasformazione di quell’immagine rappresenta, allora, l’ingresso nell’età adulta, che comporta affrontare il mondo, e la morte inevitabile che lo caratterizza, scrollandosi di dosso quella specie di ansia che, a un certo punto, Zero confessa di sentire a sua madre.
Il passo verso la maturità sta nella soglia di quella porta a vetri, che si chiude, certo, ma che non nasconde ciò che sta fuori, come a dire che diventare adulti non significa dimenticare il passato, ma averlo lì a portata di mano, dietro un semplice vetro, che ci ricorda ogni istante da dove veniamo. Il film, nonostante la vena malinconica, è allora una storia di vera speranza: ci racconta, infatti, come sia possibilissimo trovare, anche in una periferia degradata, dei ragazzi giusti, capaci di scovare nel grande mondo di una metropoli come Roma la propria strada, diversissima da quella degli altri. Zero, pur bevendo tè nel buio del suo appartamento, riesce a fare della sua passione per il disegno un mestiere, non lasciandosi intimorire dalla fatica del precariato; cosa che lo accomuna con l’autore dell’omonimo best seller Michele Reich (alias Zerocalcare) e, in un certo senso, con il regista (Emanuele Scaringi): tre giovani uomini capaci di superare i pregiudizi che di solito investono quanti provengono dalla periferia, che può essere, invece, luogo di speranza per tutti coloro che abbiano buona volontà.
Se, fino ad ora, Roma è stata raccontata nella durezza di alcuni quartieri e attraverso gli eccessi del centro, con La profezia dell’armadillo la città viene riabilitata: come a dire che anche da Rebibbia qualcosa di buono può venire. Quella previsione del futuro, fondata su elementi soggettivi e irrazionali spacciati per logici e oggettivi, destinata ad alimentare delusione, frustrazione e rimpianti (profetizzata dall’armadillo), non è più soppiantata dall’oggettività del mondo (centro = uniche prospettive): tutto può essere ribaltato, senza violenza o disobbedienza, ma solo grazie alla forza dell’intelligenza.
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