di Francesco Grano
Testimone dell’uccisione del marito e della figlia per mano degli uomini del narcotrafficante Diego Garcia, Riley North (Jennifer Garner) vede, in una manciata di secondi, portarsi via tutto ciò che aveva di più caro. Ferita a sua volta durante l’agguato, Riley entra in coma. Ripresasi, riesce a identificare come assassini tre sospetti arrestati dalla polizia. Ma durante il processo un avvocato e un giudice corrotti riescono a far cadere le accuse, insinuando che la sanità mentale della donna non sia delle migliori. Cinque anni dopo, nello stesso giorno dell’uccisione della famiglia di Riley, i tre sicari vengono rinvenuti morti e i detective Stan Carmichael (John Gallagher Jr.) e Moises Beltran (John Ortiz), coadiuvati dall’agente dell’FBI Lisa Inman (Annie Illonzeh), credono che dietro il triplice omicidio ci sia proprio la donna, scomparsa negli anni precedenti e ritornata in città in cerca di giustizia.
La vendetta è un piatto che va servito freddo recita una massima ultracitata, della quale ancora oggi non si riesce a stabilire l’etimologia originale. E con molte probabilità il regista Pierre Morel, autore di Io vi troverò e di un’altra dimenticabile e mediocre manciata di action, una volta preso in mano lo script dello sceneggiatore Chad St. John ha fatto sua tale frase, dando vita a Peppermint – L’angelo della vendetta (Peppermint, 2018). Revenge movie che si incrocia con i generi dell’action, del thriller e del dramma, Peppermint, come il resto della filmografia di Morel, dimostra di essere l’ennesimo buco nell’acqua del regista e direttore della fotografia francese: non serve molto per capire che ci si trova di fronte a un vero e proprio b-movie malamente realizzato nel quale una sceneggiatura altamente lacunosa e un montaggio (almeno nella fasi iniziali del minutaggio) da videoclip, provocano un sorriso ironico se non addirittura una risata. In primis quello che manca in Peppermint è un adeguato approfondimento del background psicologico e caratteriale dei personaggi messi in scena, su tutti la Riley North interpretata da Jennifer Garner che riesce in qualche modo a entrare nei panni di un’antieroina tutta proiettili e cazzotti, anche se i tempi della serie tv Alias sono ormai lontani.
Uno dei gravi difetti che permeano e affliggono la pellicola, tale da risultare ridicolo, è che nel corso di cinque anni, trascorsi chissà dove, il personaggio di Riley si trasformi da quieta donna di famiglia a letale macchina da guerra: certo, non mancano brevissimi momenti che tentano, in tutti i modi, di dare una spiegazione a tale mutamento, non sufficienti però a far riguadagnare terreno a un film che, in più di una occasione, si avvita su se stesso, mostrandosi incapace di incanalarsi su una strada rettilinea. E se a tutto ciò si aggiunge un altro grave difetto il risultato è davvero di quelli peggiori. Peppermint è sì un film di vendetta, un action thriller che offre discrete sequenze d’azione violenta (rese ridondanti da un inutile e fuori luogo utilizzo dei ralenti) ma, paradossalmente, in una storia che parla di morte e giustizia fai da te a mancare è proprio la violenza, elemento cardine di molta cinematografia di genere.
Pur non volendo esaltare lo spargimento di emoglobina come una sorta di benedizione per gli occhi dello spettatore di turno, né tantomeno promuovere una specie di voyeurismo della violenza di fronte alle scene più truci e brutali, scatta tuttavia il paragone filmico con i classici appartenenti al filone del revenge movie come Il giustiziere della notte o L’angelo della vendetta, così come con il franchise di John Wick o il recente Polar: film che, in tutta la loro crudezza e brutalità, riescono a raccontare estreme e perfette storie di vendetta invece di procedere con il freno a mano alzato come nel caso di Peppermint, classificato come Rated R nonostante appaia come un semplice Parental Guidance 13 e che purtroppo consegna sul grande schermo l’impietoso e ridicolo ritratto di un angelo vendicatore fuori tempo massimo. Mal scritto, malamente diretto e interpretato, Peppermint entra a “pieni voti” nell’alveo delle peggiori produzioni di genere, classificandosi come un titolo altamente evitabile e, se visto, dimenticabile.
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