Recensione di Marco Candida
Dopo tutto quello che ci è collettivamente piovuto addosso negli ultimi tempi, TSO Un’esperienza in reparto psichiatria di Magda Guia Cervesato oggi lo capiamo meglio. Così, leggendo e rileggendo questo libro di un centinaio di pagine che si fulminano in un soffio con uno stile vivace, vario, come di reportage giornalistico scritto coi fiocchi, fatto apposta per non farsi mollare un momento, dote ormai rara nei libri nostrani, mi è parso di aver finalmente chiaro che cosa siano questi centri che si occupano dei cosiddetti “malati mentali”.
Sono né più né meno luoghi di detenzione.
Sono punizioni.
Prima di tutto, chi è il “malato mentale”? Che cosa è?
Un “malato” mentale, potremmo evincere dalla lettura del libro, è un soggetto che assume atteggiamenti pericolosi senza far nulla di realmente pericoloso. È l’atteggiamento nel suo complesso a essere pericoloso. Forse anche meno di pericoloso… Forse solo rischioso. Ma abbastanza da generare timore nella coscienza sociale. Se commetti un reato, commetti qualcosa di reale e concreto. Rubi una pesca. Prendi a ceffoni un passante. Coltivi marijuana in giardino. Per quanto piccoli questi reati ti conducono a farti un giro in compagnia delle persone a cui a quanto pare desideri assomigliare di più. Ai criminali. Ma qui tutto è concreto e reale. Invece, il “malato di mente” non danneggia realmente il prossimo. Una volta mi raccontarono di un TSO a una donna che si era messa a verniciare di bianco il cane. È un gesto che provoca sdegno… ma non è propriamente un reato. Però, genera certamente timore e sia come sia questo tipo di atteggiamento viene punito. Un comportamento troppo disinvolto nei confronti della vita. Un modo troppo aggressivo e comunque trasgressivo. Troppo energico. Troppo creativo, anche. Di chi ha un’anima troppo grossa per la taglia di corpicino che ha. Di chi ha un’anima che arde come un ceppo in fiamme. Di chi non riesce a contenersi. A star fermo. A darsi una controllata.
La “malattia” mentale, in secondo luogo, di per sé non esiste. Non ci sono ragioni valide per rinchiudere un malato nei manicomi – ora chiusi etc., ma il discorso purtroppo vale sempre. Non esiste non solo perché il “malato” non fa nulla di concretamente pericoloso, ma assume solo un atteggiamento generico di pericolosità, ma anche perché la stessa “malattia” di per sé è poco credibilmente descrivibile. Non si manifesta con una febbre. Non compaiono ematomi. Un paziente all’ospedale con una gamba ingessata è chiaro perché si trovi in un ospedale con una gamba ingessata ammesso che nel gesso ci sia una gamba rotta e non pacchetti di cocaina. Ma per un paziente psichiatrico la questione è molto più complicata. Ecco perché il “malato” ne ha ben donde di sostenersi innocente. Di sostenere di essere vittima di un sistema coercitivo folle. Non c’è nulla che provi la sua colpevolezza/malattia. In più, questi atteggiamenti entrano ed escono dai confini della “malattia” a seconda delle oscillazioni etico-morali decise dalla società. Ciò che era segno di malattia mentale ieri oggi non lo è più, e se si legge il libro della Cervesato tutto questo viene spiegato con straordinaria chiarezza. Ma anche per i reati è lo stesso – e un tale parallelismo mostra, tra l’altro, quanto “reato” e “malattia mentale” siano molto più simili di quanto non si pensi. Nella Bibbia, ad esempio, l’adulterio veniva punito con la lapidazione. Oggi le cose sono, e meno male, molto diverse.
Questo relativismo, tuttavia, può essere, attenzione! dannoso.
Dannoso perché offre giustificazioni.
Dannoso perché disorienta senza far capire il punto.
Qual è il punto dell’esperienza che l’io-narrante del reportage ha avuto intorno ai trentasette anni?
Il punto è capire che tutta quella roba ingiusta che è capitata all’io-narrante è stata una forma di punizione.
Questo bisogna capire.
L’ingiustizia subita dall’io narrante in TSO Un’esperienza in reparto psichiatria sta nel fatto che quell’io in quella situazione non doveva finirci. Per le ragioni personali inerenti al personaggio tratteggiato nel libro. Ma l’esperienza in sé è una punizione. Così come punitiva è l’esperienza della condizione dei lavoratori-operai. Così come punizioni erano i Gulag e I Campi di Concentramento. Sono punizioni per persone che hanno sbagliato o che, brividi, sono sbagliate. Non sono luoghi di lavoro quelli dove gli operai lavorano né lavori quelli praticati dagli operai. Allo stesso modo gli ex-manicomi non sono luoghi di cura. Le medicine non sono vere medicine. Le infermiere non hanno funzione di vere e proprie infermiere e i medici nemmeno. Non curano né tantomeno guariscono. Tramortiscono. Tengono fermi. Buoni.
Stare al mondo non è facile. Stare al mondo non è facile. Chiamiamo “civilizzazione” il momento in cui collettivamente ci rendiamo conto che “stare al mondo” è diventato troppo difficile, quasi impossibile: e allora allentiamo la presa, facendo concessioni. Ma il mondo è una gabbia piena di spunzoni con le pareti che lentamente si stringono. Prova ad andare con la famigliola a prendere un gelato al parco per vivere il più classico quadretto di serenità e pace. Prova a non pagare il gelato: questo gesto così semplice, in fondo, trasforma immediatamente il quadretto in un buco nero. Genera subito sconcerto, orrore. Significa che anche i momenti migliori della nostra giornata sono circondati da queste lame pronte a trafiggerci al minimo sgarro. Lo diamo per scontato (diamo per scontato che se non paghi il gelato alla cassa sono guai; e questo “dare per scontato” lo chiamiamo “educazione”), ma questo è anche peggio, in fondo. Non migliora le cose.
TSO riguarda un’esperienza femminile. Questo è un altro elemento fondamentale, che rende questo libro importante. Ma non perché gli uomini e le donne sono diversi e uno fa la pipì in piedi e l’altra da seduta e sanguina una volta al mese. Non è tanto questo. C’è qualcosa di assai più rilevante. Fa impressione che a essere rinchiuse in gabbie del genere siano le donne. Perché abbiamo riconosciuto alla donna molte libertà, molti diritti; e la donna si è battuta per questi diritti. Ma la maggior parte di questi diritti conducono in quei luoghi di controllo che la società usa per tenerci buoni. Il diritto al lavoro, all’indipendenza economica. Abbiamo riconosciuto alle donne quelle libertà che ti fanno finire diritto in una gabbia, in una centrifuga fatta di una routine troppe volte asfissiante. Ma la vera libertà… La libertà di vivere, di bruciare minuti e secondi viaggiando, muovendosi, conoscendo, assaporando, godendosela, ridendo… questa libertà, la libertà di essere elettrici, galvanizzati, se anche messa in atto da una donna, da una creatura femminile, un’opera d’arte, un capolavoro quale ogni donna in fondo è, questa libertà risulta inaccettabile, risulta pericolosa e va… punita.
La domanda è: ma che libertà è una libertà funzionale ad altro? Che scelte sono le scelte comode ad altri? Ecco ulteriori riflessioni possibili leggendo TSO Un’esperienza in reparto psichiatria di Magda Guia Cervesato.
Magda Guia Cervesato, TSO Un’esperienza in reparto psichiatria, Edizioni Sensibili alle Foglie (di Renato Curcio), 2012
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