di Raffaele Laurenzi
Non desiderare la modella d’altri
Agli inizi la redazione era costituita da un piccolo gruppo di giovani pieni d’entusiasmo: ragazzi che sapevano interpretare sulla rivista il messaggio che l’editore e direttore Gianni Mazzocchi intendeva lanciare agli Italiani: «Oggi l’automobile – sosteneva – non è più un lusso, è uno strumento di libertà. Come negli USA, anche in Italia ogni famiglia avrà almeno un’automobile per lavorare e per godersi il tempo libero.»
Un paio di redattori, Giancenzo Madaro e Giancarlo Migliavacca, provenivano da Auto Italiana, settimanale automobilistico dell’Editoriale Domus; altri provenivano dalla cronaca sportiva. Tra questi, un giovane che avrebbe fatto carriera nel mondo del giornalismo e avrebbe avuto successo anche in tivù.
Lo chiamerò Fabrizio. Il nome vero non lo posso dire, non vorrei giocarmi la sua amicizia. Posso dire però che era un gran bel ragazzo, rampollo di una nobile famiglia siciliana: riuniva in sé l’eleganza e lo stile propri delle sue origini e la compostezza di chi sa stare in società. In due parole, un ragazzo affascinante.
Non gli ci volle molto per finire nel letto di una bella fotomodella (anche di lei, mi capirete, non posso fare il nome: accontentiamoci di Lisa). Galeotto fu un servizio per Quattroruote ambientato nel parco di Monza. Fabrizio, Lisa e il fotografo erano arrivati al parco a bordo di una Fiat 2300 Familiare, con il bagagliaio pieno di accessori da fotografare.
Lisa era vestita in modo semplice: capelli trattenuti da un foulard, camicetta, pantaloni con la riga e mocassini. Controllò il trucco allo specchietto, ritoccò il ricciolo di matita nera che le incorniciava gli occhi e si sedette sull’erba, con la schiena appoggiata alla ruota anteriore della 2300, come le aveva chiesto il fotografo. Fabrizio le porse una Blaupunkt Frankfurt e lei la sorresse davanti all’obiettivo cambiando espressione a ogni scatto: sorrideva, ammiccava o s’imbronciava con la sicurezza di una professionista.
Fabrizio le porse via via gli altri accessori: un volante Nardi, un set di foderine coprisedili, un’antenna elettrica, senza toglierle gli occhi di dosso: era bella, brava e bella. Poi lei si sbottonò un poco la camicetta e lui notò anche dell’altro.
Fabrizio passò la giornata a prodigarsi: «Prego», e le apriva la porta dell’auto. «Accomodati», e le accostava la sedia sotto il tavolo del ristorante. «Fumi?», e le porgeva il pacchetto delle Chesterfield… Anche il fotografo ci provava, ma ogni volta Fabrizio lo bruciava sul tempo. Come quando, a fine giornata, le disse: «Macché taxi, ti accompagno io. Ho qui la 500…»
Quella notte Fabrizio non rientrò a casa sua. La mattina seguente si trovò immerso in un mare di nebbia e si perse in quel quartiere a nord di Milano che non conosceva, finché non si accodò a un filobus della circolare, che lo guidò fino a casa. Ma in seguito imparò bene la strada, perché un giorno sì uno no era da lei.
Una sera, era il 1967, Fabrizio andò a prendere Lisa con in tasca due biglietti del Piccolo. Andava in scena L’Istruttoria di Peter Weiss: una pizza tremenda. Lei gli disse: «mettiti comodo sulla poltrona dello studio, che mi preparo». Fabrizio si sedette su una Frau in pelle rossa, appoggiò la testa allo schienale e si guardò intorno. Alla parete erano appoggiate quattro sedie pieghevoli Starck dei fratelli Castiglioni; sulla parete di fronte, bene allineate, erano appese quattro stampe di Attilio Forgioli. Osservò una cura e un buon gusto eccessivi per una modella di modesta cultura. Glielo disse: «Ho osservato il tuo appartamento. Complimenti, è molto bello. Ma, scusa la franchezza: dove trovi i soldi? Non credo che basti il lavoro di modella per tutto questo…»
«Me l’aspettavo prima o poi una domanda del genere» gli rispose. «Te lo dico senza vergogna: avevo un uomo ricco, finché tra di noi le cose sono andate bene, mi ha aiutato. Poi mi sono stufata di aspettare. È sempre così con gli uomini sposati: ti fanno tante promesse, ogni volta accompagnate da un regalo per chiuderti la bocca, ma non hanno il coraggio di lasciare la moglie per l’amante…»
«Però tra di voi non è finita: di chi sono tutte quelle rose in soggiorno?»
«Per me è finita da prima che ti conoscessi, ma lui non si rassegna…»
«Mi puoi dire chi è?»
«Uno che tu forse conosci, che nel mondo dell’automobile conta parecchio. Ma non vorrei più parlarne: ha smesso di telefonare e presto si stancherà anche di mandare i fiori. Spero che non venga a sapere di te, perché te la farebbe pagare. E spero che non tiri fuori le foto…»
«Che foto?»
Lisa ebbe un attimo di esitazione, poi aprì di scatto il cassetto di un prezioso trumeau impiallacciato, unico pezzo d’epoca del soggiorno e ne cavò fuori un mazzo di fotografie in bianco e nero: «Ecco, queste me le faceva lui con la sua Rollei. Capito adesso?»
Erano una dozzina di fotografie di Lisa nuda, sdraiata sul suo letto cosparso di fiori. Lei gliele tolse dalle mani e le strappò a una a una: «Non so neppure perché le ho conservate, è una parentesi che vorrei chiudere.»
Passarono i giorni, Fabrizio e Lisa continuarono la loro relazione, che dava ormai segni di stanchezza, finché non si lasciarono e Fabrizio partì per Roma. Gli avevano proposto un lavoro interessante e lui non se lo fece ripetere due volte: tanto la collaborazione con Quattroruote era finita, non lo chiamavano più, e Fabrizio aveva capito: qualcuno era venuto a sapere della sua relazione con Lisa e aveva chiesto la sua testa.
Disparità di trattamento
«Il tradimento rafforza il legame coniugale» sosteneva un mio vecchio collega, che era stato inviato speciale di un importante quotidiano e aveva girato il mondo. Una teoria curiosa la sua, ma che nel suo caso aveva fondamento, considerato che questo signore aveva praticato il tradimento tutta la vita ed era morto assistito amorevolmente dall’unica donna che aveva sposato.
Non gli ho mai chiesto se considerasse il suo enunciato reversibile, cioè se valesse anche per la donna. Non gliel’ho mai chiesto perché sapevo già la risposta: il diritto al tradimento, da che mondo è mondo, vale solo per l’uomo.
Oggi se enunci una teoria così ti impallinano sui social, ma ancora cinquant’anni fa avresti fatto sorridere tutte le signore e i signori riuniti in salotto a sorseggiare il tè.
Due episodi di amore e sesso consumati intra moenia dell’Editoriale Domus, la casa editrice di Quattroruote, a distanza di quarant’anni riflettono, pur nella loro piccola dimensione, il radicale mutamento dell’opinione pubblica su questo tema.
All’ufficio amministrazione lavorava una ragazza, Daniela, nome fantasioso che le ho dato io per rispetto della sua privacy. L’incontravo a volte al Jamaica, il bar storico di via Brera, dove a mezzogiorno si rifugiavano molti dipendenti della Domus per addentare un panino e fare quattro chiacchiere.
Notai un giorno la sua assenza. Pensai che si fosse stancata del Jamaica: capitava che ogni tanto si cercasse di cambiare strada, locale e compagnia. Ma dopo qualche giorno che non la vedevo, incuriosito, interrogai un suo collega: «Daniela non viene più al Jamaica? Che fine ha fatto?»
«Non lo sai? È stata licenziata.»
«Licenziata? E perché?»
«Hai presente la stanzetta al terzo piano, dove il personale delle pulizie tiene le ramazze, i detersivi e gli attrezzi? Qualcuno la cercava, ha aperto la porta e l’ha trovata che scopava con… insomma, con un collega.»
«Perciò hanno licenziato pure lui…»
«No, lui no: è un padre di famiglia… E poi, allontanata lei, il problema era risolto. Ciò che contava, per l’azienda, era separare i due.»
Passano quaranta anni, la storia si ripete. Tale e quale. Un alto dirigente della Domus, tanto per intenderci uno che ha il potere di assumere e licenziare, un giorno mi sussurra scoraggiato: «Sapessi che mi è successo…»
«Oddio, che cosa?»
«Volevo un numero arretrato di Quattroruote: sono entrato in magazzino e ho assistito in diretta a un amplesso focoso che si consumava su una scrivania a due piazze.»
«Imbarazzante. Chi erano?»
«Due insospettabili.»
«E tu?»
«Che potevo fare? Ho chiesto scusa e ho richiuso la porta. La prossima volta busso…»
Doris Day in segreteria
Torniamo ai primi anni Settanta. La scena si svolge nella segreteria di Quattroruote. Entro per consegnare alcune ricevute, saluto la Giusy e le domando: «Ho saputo che tra i tuoi ammiratori c’è stato un pilota della Regia Aeronautica. Ma è vero?»
«Come no! Una mattina ero qui, battevo a macchina un manoscritto per il Libro di Casa, sentii il rombo di un aereo. Si avvicinava, si avvicinava sempre più forte. I vetri vibravano, il cuore credetti mi scoppiasse. Mi affacciai su via Gabba, lo vidi virare e puntare dritto verso di me, così basso che sembrava toccare i tetti.»
«Era il tuo ammiratore!»
«Eh, sì! Poi andò in guerra e non lo vidi più.»
Giusy aveva un debole per le divise. Quando la conobbi si avvicinava ai sessanta, ma era curatissima: il rossetto le disegnava un cuore sulla bocca e le guance brillavano di cipria. Portava i capelli biondi un po’ corti come Doris Day in Merletto di mezzanotte. L’attrice e cantante americana era il suo modello di riferimento: se volevi farle un complimento, bastava che le dicessi: «Giusy, sei la sosia di Doris Day, dovevi fare l’attrice.»
All’inizio le davo del lei: non perché avesse più del doppio dei miei anni, ma per il suo modo di fare autoritario. Del resto, era una veterana della Domus, trattava noi giovani come pischelli. A volte l’incrociavi in corridoio e manco ti guardava; dieci minuti più tardi ti salutava festosa, «Ciao, bel fiolin», così forte che la sentivano nelle stanze in fondo al corridoio. Altre volte era perfino materna, come quando si appoggiò alla mia scrivania e mi chiese seria: «Ma tu sei a Milano da solo? E chi ti fa da mangiare?»
Tra le altre cose, Giusi gestiva la cancelleria. Le chiesi un giorno un paio di forbici che tagliassero bene. Più tardi, venne da me brandeggiando un paio di forbici lunghe trenta centimetri e appuntite come uno stiletto: «Queste tagliano bene, ma attento a non sbudellare qualcuno.»
Me le allungò e aggiunse severa: «Tienile da conto, erano della Camilla Cederna, quando c’era L’Europeo. Che sbaglio fece il Dottore a venderlo!»
Giusy, dicevo, aveva un debole per le divise, in particolare quelle dei carabinieri della Stradale. Spettacolari le sue telefonate in caserma, tipo questa: «Ciao amore, sono la Giusi, com te va? Finite le ferie? Ascolta, ho poco tempo, hai un collega che si chiama Fernando, giusto?… Ah, è tuo amico? È fuori in servizio? Allora fagli un’ambasciata: ha detto la Giusi di fa’ minga il pirla! Digli di strappare im-me-dia-ta-men-te quella multa che ha fatto ieri a un nostro collaudatore… Perché l’ha fatta? Perché la “targa prova” non era esposta. E allora? Era nel bagagliaio, per forza, se no ce la rubano, è già successo, poi tocca alla Giusi di far la denuncia. Capito?… Bravo, pensaci tu… Va bene, grazie amore… Che faccio sabato? Vado a ballare, lo sai… Al Giardino Firenze, alla Bullona… Viene anche la Rosa… Bravo, ci vediamo lì… ti devo lasciare, ricordati la multa, ciao bello.»
Un pomeriggio, in segreteria, una grande stanza che forse era stata il salotto dell’appartamento patrizio, vidi un uomo appoggiato a una scrivania: era Antonio, il suo fidanzato, agente di Pubblica Sicurezza. Era in borghese, aspettava la Giusi per andare a casa. Feci un calcolo a occhio: avrà avuto quindici anni meno di lei.
Giusi si stava preparando, si presentò un minuto più tardi aggiustandosi la gonna: perfetto il trucco, col rossetto fresco, il caschetto biondo senza un capello fuori posto, le gote luccicanti di cipria. Uscirono a braccetto: «Ciao ragazze, ci vediamo lunedì.»
Il lunedì io arrivai un po’ tardi, forse abusando del privilegio concesso anche ai giornalisti praticanti come me di non firmare la presenza. Incrociai facce cupe, poco inclini al saluto. In segreteria si era formato un capannello. C’erano la segretaria di redazione, il capo redattore, le segretarie, alcuni redattori. Mi avvicinai e colsi una frase: «Penso a quel ragazzo… Sei a letto, abbracci la tua donna e lei ti muore tra le braccia. Immagino lo shock.»
Non feci domande, affrettai il passo e m’infilai nella mia stanza.
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