di Enzo Buscemi
È un’alternanza alla mia consueta irrequietezza. Caschi il mondo, debbo muovermi, uscire, e inventarmi delle commissioni. Sempre.
Ma, oggi, mi hanno prescritto dei giorni di riposo. Dopo l’ennesima permanenza in una sala operatoria.
Quando c’ero entrato, mi aveva colpito la visione di due occhi. Belli, incredibili, sopra la mascherina:
“Le inietterò qualcosa, solo per tranquillizzarla” mi dice l’affascinante anestesista, inguainata in un abbigliamento che ha pochissimo di anonimo professionale. Sembra le sia stato, graziosamente, disegnato addosso per valorizzarne le fattezze.
“Sono calmissimo” ribatto “fa parte del mio carattere. Se il dolore non sarà eccessivo, preferirei sopportarlo ed evitare, se possibile, il ‘rincoglionimento’.”
“Mi sarei permessa di usare lo stesso termine, se avessi intuito la sua spigliata cordialità”, replica la titolare degli splendidi occhi e del resto, “Ma qualche goccia di questa roba non le farà male. Per favore, cambi posizione. Scivoli piano sul lettino. Il più possibile verso di me”.
E come, no?
L’ho accontentata. “Ecco, va bene” e innesta l’estremità di un sottilissimo tubo, nella cannula già infilata nel mio braccio destro.
Una manciata di secondi per scambiare qualche parola con il chirurgo (che nei mesi scorsi si è già dato da fare nelle ‘segrete’ del mio corpo), e un altro sguardo negli occhioni rassicuranti. E poi, poi… poi…
Sono proprio io. Mi, guardo, dall’alto. Sono in giro per il mio appartamento e sto cercando qualcosa.
Ma dove cavolo sarà, non riesco a immaginarlo. Armadi, cassetti, librerie? Già ripassati a fondo.
Sto giocandomi ogni possibile ipotesi. Niente.
Lemmy Caution, il disinvolto agente federale inventato da Peter Cheyney, Philip Marlowe, la creatura di Raymond Chandler, ed Hercule Poirot il geniale, elegantissimo, ometto della inimitabile Agatha, nessuno di loro, seppure consultati a lungo, ha saputo offrirmi una risposta accettabile.
Anzi. Dopo i preliminari, con ipocrita cortesia e una punta di sufficienza (indice di malcelata incapacità), hanno declinato la mia richiesta di collaborazione.
E ho ripreso a rimuginare, da solo, sulla sconosciuta destinazione del ‘bello perduto’.
Chiarisco, sto indagando sulla scomparsa della mia ‘immagine’. Quella dei tempi migliori.
Non ho idea di dove sia finita. Perciò, mi ritrovo a impersonare uno sconosciuto. Un obbrobrio, rispetto all’originale. Se non riuscirò a rintracciare quelle pregiate sembianze, sarà ancora peggio. Per sempre.
Certo, non sono l’unica vittima del default.
Il problema, universale, è ignorato. Eppure, rifletto, tale Dorian Gray, diventato piuttosto famoso, era riuscito a bloccare la fuga della sua bella età.
D’accordo, secondo le cronache, pare che, anche lui, sia finito piuttosto male. Ma erano altri tempi e non sappiamo quale sia stato il vero motivo dell’epilogo.
Mentre continuo il giro di ricerca, puntualizzo che i suddetti, famosi quanto inefficienti investigatori, avevano preteso la descrizione, dettagliata, del mio, scomparso, aspetto originale.
Immagini in ‘8K’, per stare al passo con i tempi. L’altezza, la corporatura, il peso, i colori. Mi avevano, addirittura, sottoposto a una sorta di esame. Per controllare se disponessi di una decente dotazione intellettiva.
Ma intanto, il mio (come quello di tutti, credo) gradevole aspetto originale, è emigrato. Al suo posto, c’è un’umiliante bigiotteria. In continuo, irrefrenabile, degrado.
Alzi la mano chi non subisca la stessa sofferenza e, ugualmente, non riesca a fornire un simulacro della ‘perduta immagine,’ all’ufficio ‘oggetti smarriti’, sperando in un improbabile, recupero.
Rimane l’ipotesi di un’estrema risorsa. La capacità di bloccare, se non altro, la sembianza attuale, prima che peggiori. Ma è inutile. Continua a scivolare, su una china ripidissima.
Le cellule sono sempre in moto. Certe si rinnovano. La maggior parte si deforma o muore. Prova ne sia il disegnarsi di quelle, inizialmente sottili, pieghe sulla pelle. Le cosiddette rughe.
Una dopo l’altra, specie sul viso, si radunano come a disegnare una carta topografica, osservata da un lontanissimo, impietoso, satellite.
Le gote si afflosciano, come i bicipiti e i polpacci. L’addome, da orgogliosamente piatto, diventa più convesso. Come sorta di incomprimibile collinetta.
E i capelli, già setosi, ed esaltati da un intenso biondo, cambiano colore, si assottigliano, perdono tono. Espulsi dal bulbo creatore, cadono. Galleggiando, senza vita.
La statura, senza darne sentore, si riduce.
E gli abiti lo denunciano. La parte anteriore dei pantaloni ripiega, ad oltranza, sulle scarpe. La posteriore finisce sotto i tacchi, si sporca e si distrugge.
Ma non è tutto. La trasformazione dell’addome mette a dura prova la resistenza delle abbottonature.
Non si salva nemmeno la postura. L’esigua attività ginnica, da pigrizia senile, piega la linea del dorso e incassa l’innesto del collo.
Sommaria sintesi della scomparsa dell’immagine di ognuno, e oggetto della mia ricerca.
Nessuno, sino ad oggi, a quanto se ne sappia, è riuscito a individuare il Paese, meta segreta della sterminata turba delle, invidiabili, fuggiasche visioni.
Se ne può supporre solo la natura. Si favoleggia di una stupenda valle. Molto simile all’agognata Shangrilà, accoglie le miriadi di immagini fuggite, e le mantiene, perennemente, giovani e belle.
Nessuno di noi, umili bipedi arroganti, saprà mai dove sia la sconosciuta mecca dell’eterna giovinezza.
Rimane, forse, un’ultima possibilità.
Si favoleggia di una sorta di archivio dalla memoria infinita.
Ne scrissero, molti anni fa, due fratelli, gli autorevoli e rigorosi Jacob e Wilhelm Grimm.
Riferirono di Grimilde, bieca matrigna della dolce Biancaneve, in quotidiano dialogo col suo specchio.
Ma certo. Lo specchio, e che altro!
L’universale, semplicissimo, elemento, in grado di carpire qualsiasi immagine e bloccarla, almeno per qualche istante.
Ma lo affligge un problema: come richiamare la visione desiderata?
Non disperiamo. Se ci riusciva Grimilde, basterà, solo, informarsi sulla procedura.
Un semplice click e torneremmo al nostro, adorabile, aspetto dei tempi belli. Adesso ci provo.
“Prego?”
“Tutto bene dottore?”
Me lo sta chiedendo la fascinosa anestesista. “Ma se ne avevamo appena discusso, perché ancora la stessa domanda?”
“Abbiamo finito. La mandiamo in camera. Verrò a portarle il referto e le racconterò dell’intervento”.
Mi giro verso una costellazione di monitor. L’altra voce è del chirurgo e arriva da quella parte.
“Come finito?” chiedo.
“Tutto fatto. Ha dormito tranquillo”. Conferma anche la diva velata.
“Ma non vorrei svegliarmi. Non ho ancora concluso. Ero a buon punto, nella ricerca del ‘bello perduto’. Se smetto, perderò tutto. E allora, dovrò attendere un altro intervento? Eh, no. Cavolo”.
In copertina, immagine tratta dalla rete.
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