La quale… [parte II]


di Enzo Buscemi

Mi occuperò di te

Ero appena rientrato in camerata a riporre asciugamani, spazzolino e il resto nel borsone, alla ricerca di un ripostiglio dedicato e: “Sei arrivato stanotte da Roma? Sono il maresciallo Salemi. Mi occuperò di te”.

Mezza età, statura al limite del regolamento, bruno, occhi furbissimi. Meridionale, ma con accento adulterato dalla evidente ricerca di omologarsi alla cadenza ‘continentale’, il maresciallo mi fu subito simpatico. Mi presentai. Nome, qualifica e, rotocalco di appartenenza.

“Giornalista, che piacere. Ma come mai recluta a quest’età. Problemi di salute o permanenza all’estero?”

Spiegai, ‘senza spiegare’, che per problemi diversi ero arrivato in ritardo. Lui sembrò convinto, e partì subito per la tangente: “Conoscerai un sacco di gente. Forse ti chiederò un favore. Vorrei essere trasferito a Palermo”.

Di solito non vendo illusioni. Ma il momento storico mi consigliò di farlo. E perché no.

“A Roma di gente ne conosco, il mio è un giornale importante”.

Mi resi conto di stare millantando possibilità, come l’azzeccagarbugli che mi aveva truffato. Ma in stato di necessità, tutto è concesso.

Il maresciallo Salemi si entusiasmò (ci avrei giurato), “Vieni, ti porto a far colazione al Circolo ufficiali”, e partì spedito.

Traversammo l’enorme cortile, il Circolo era dalla parte opposta delle camerate, al piano terra.

Salemi era sicuramente di casa anche se il suo grado non lo abilitava a quel livello. Nel bar c’era parecchia gente, e, finalmente, era caldo. Ordinai ‘caffè e quattro cornetti alla crema’.

Il cassiere si bloccò: “Solo il caffè. I ‘cornetti’ non li abbiamo”. Gli indicai, accanto a lui, sul bancone, un grande vassoio di cornetti in bella vista.

“No. Quelli sono croissant” mi informò con aria soddisfatta. Non era il momento di puntualizzare. “Vanno bene anche quelli, grazie”.

Col maresciallo portammo cornetti, pardon, croissant e caffè a un tavolo. Stavo riguadagnando la temperatura da umano. Mi sentivo già meglio. Entrarono degli ufficiali, salutarono affettuosamente Salemi.

Erano visibilmente incuriositi da quel signore con un elegante Loden verde scuro, non certo d’ordinanza. Il maresciallo ne approfittò per presentarmi. Convenevoli di rito e spiegazioni fumose. Ordinai dell’altro caffè e uno yogurt.

 

Quello sono io

Stavo riprendendo vita, quando entrò un tale, in borghese. In braccio, reggeva un fascio di giornali.

Li selezionò, a raggiera, come carte da gioco, su un grande tavolo, al centro del bar.

Mi bastò uno sguardo. La patinatissima copertina della mia Settimana Incom, faceva sfoggio di colori. Una frustata di entusiasmo, e mi fiondai sul mucchio.

Fresco di stampa, il giornale con il mio secondo reportage sulla coppia degli anziani truffatori. Al centro doveva esserci la mia foto, a tutta pagina. Presi due copie e pagai all’addetto.

Mi tremavano le mani, mi imposi di sfogliare con calma la rivista. Arrivai al centro. Io, con lo stesso Loden che stavo indossando, gli inseparabili Ray-Ban e la testimone.

Con calma, tornai  dal maresciallo: “Che gliene pare”? e gli mostrai il paginone con la mia foto.

Il maresciallo sgranò gli occhi, prese il rotocalco, e corse verso il gruppo degli ufficiali che facevano colazione.

Gli mostrò la rivista. Continuava a parlare e si rivolse dalla mia parte. Tutta la truppa  graduata si girò a guardarmi. Poi mi furono intorno. Si animò una lunga discussione e, io ne ero al centro. Altri tempi, quando l’importanza dell’informazione, autentica, era ancora, sovrana.

Cominciò da quel momento la mia ‘fortuna’ in caserma.

Salemi mi portò a ‘scegliere’ la divisa e il resto del corredo.

Non fu semplice. Per l’altezza, m.1,85, il ‘drop’ militare, di quegli anni, prevedeva un peso di almeno 80/90 chilogrammi con conseguente larga dimensione.

Nel caso specifico,  però, all’altezza corrispondevano, circa 67/70 chilogrammi, ben distribuiti per un fisico ultrasnello.

Per reggere i pantaloni furono indispensabili uno spillone, di quelli, cosiddetti, da balia, e ulteriori fori nella cintura. Nel giubbetto, letteralmente, ci navigavo. Il berretto, senza l’ausilio dei Ray-Ban come sostegno, mi avrebbe oscurato la vista. Dal cappotto sarebbe stato necessario asportare una bella fascia, o ci avrei inciampato.

La mia innata attenzione per l’estetica andò a farsi benedire. Avevo tutt’altro a cui pensare.

 

Vostro onore, ai fornelli

La notorietà mi fruttò una dotazione di ben sette coperte, sette. Il mattino dopo, un inaspettato incontro mi fece felice. Manlio, un ex collega conosciuto all’università, appena più anziano, si era laureato un paio d’anni prima di me e, aveva vinto un concorso per la magistratura.

La burocrazia selvaggia non aveva accettato ragioni. Arruolato da soldato semplice, lo avevano destinato alle cucine.

Gentilissimo, ogni mattina, veniva a piangere da me. Ricambiava la mia considerazione, con una grande tazza di ottimo latte condensato con aggiunta di caffè nerissimo e corredo di biscotti.

L’attenzione degli ufficiali, grazie allo scoop della mia rivista, mi aveva esentato dall’addestramento. Non feci nemmeno un passo delle marce mattutine. Fui assegnato alla Santa Barbara, il magazzino munizioni, con la concessione ‘speciale’ di un mini-fornello elettrico utile come scaldamani.

Mi avevano, anche, garantito la libera uscita quotidiana. Indispensabile per andarmi a rilassare alla Botte d’oro, previa lunga doccia, sosta in bagno e, l’irrinunciabile bidet, accessorio sconosciuto in caserma. Come, d’altro canto, nei ‘cinque stelle’ della spocchiosa Parigi, ‘Hilton Eiffel’ compreso.

Andavo a cenare in un piccolo  ristorante, poco frequentato dai militari che, in paese, erano presenti, in altissima percentuale, con comprensibili e gioie e dolori degli indigeni. Rientravo in tarda serata.

Spesso, dopo il ‘silenzio’, una recluta, non ho mai scoperto chi fosse, metteva in funzione un mangiadischi, apparecchio molto diffuso in quegli anni. I motivi che ci faceva ascoltare erano di esecutori molto diversi. Ma ugualmente capaci a suscitare profonda nostalgia: Io che non vivo senza te di Pino Donaggio e Et maintenant di Bécaud.

Le canzoni si ripetevano senza mai stancarci. L’ignoto proprietario del mangiadischi, spesso aggiungeva Toi, un altro brano del grande Gilbert, ma in un pregiato testo italiano. Sarebbe diventato il tema conduttore di Io la conoscevo bene, il bel film di Antonio Pietrangeli con la giovanissima Stefania Sandrelli.

In chiusura, quanto mai appropriato Il silenzio dalla tromba di Nini Rosso.

Finita la musica, dominavano la tristezza, il buio e i continui, corali, colpi di tosse, sottofondo per notti quasi sempre insonni.

 

Il colpo di genio

Forse la rabbia per le assurde condizioni della caserma, e la disperazione per il mio personale accaduto, esaltarono la voglia di investigare sulle clamorose storture nella gestione della truppa.

La fortuna mi venne incontro.

Le finestre della saletta, d’ingresso alla Santa Barbara, e assegnata per la custodia a  me e a un ragazzo di Sondrio, si aprivano sul cortile e, all’ingresso posteriore del complesso.

Quel varco era riservato ai mezzi di servizio, i militari e quelli degli appalti privati per le  manutenzioni.

Nei primi giorni, il  mio disinteresse, per qualsiasi cosa, era di scena. Preda di assoluta abulia, passavo ore intere a fissare il vuoto. Rinnegando la mia consuetudine, non leggevo alcuna pagina dei libri che portavo sempre con me, né scambiavo più di qualche parola con il mio commilitone. Finché, mi imposi di analizzare anche le cose più insignificanti. Qualcosa di interessante, senza dubbio, lo avrei scoperto.     

Una mattina, osservavo l’ingresso di un camion militare. Il solito, con un carico di legna. Era il rifornimento per le caldaie dei termosifoni che, però, restavano, desolatamente, freddi. Lo testimoniavano il ghiaccio sul pavimento delle camerate e la, rumorosissima, tosse che affliggeva gran parte dei ragazzi.

Mi si accese la classica spia del sospetto. Mi spostai alla finestra che si apriva sull’angolo più remoto del cortile.

L’autista aveva azionato il sistema che sollevava il piano di carico. La legna scivolò rumorosamente al suolo. Riportato il cassone in posizione normale, il soldato risalì in cabina e guidò il camion verso il capannone dell’Autocentro della caserma.

Stavo per tornare al provvidenziale scaldino della nostra postazione. Il ronfare di un grosso Diesel mi fece desistere.

Era un camion civile. Entrò nel cortile e si fermò accanto alla montagnola di tronchetti. L’autista, e due suoi aiutanti, si diedero un gran daffare a caricare tutta la legna sul camion che, quindi, riprese la via dell’uscita.

Straordinario. Chiamai Antonio, il mio compagno di lavoro: “Ecco perché moriamo di freddo. La legna arriva e riparte. E chissà in quanti ci guadagnano”.

Ripensandoci mi resi conto che da quando ero in quella postazione, almeno un paio di volte, avevo visto l’avvicendarsi dei due camion. Ma non avevo assistito alla manovra del furto.

“In che giorno arriva la legna? Dobbiamo documentarci”.

L’occasione si presentò, poco dopo, a mensa.

Sapevamo chi fossero gli autisti che portavano la legna, e sedemmo al loro tavolo. Con un ovvio giro vizioso, portammo il discorso al punto che ci interessava. Il rifornimento per le caldaie arrivava il lunedì e il giovedì o al massimo venerdì. Quel giorno era lunedì.

Preparammo il piano. Ogni errore era, assolutamente, da evitare.

L’indomani rientrando dalla libera uscita portai nella borsa la mia fida Canon Pellix con due obbiettivi, un 50 e un 135mm, e parecchie pellicole. La caricai con un rullo di Ilford Hp4.

Non mi fidai di metterla nell’armadietto, in comune con un altro ragazzo. La Canon dormì sotto il mio materasso sino a giovedì mattina. Poi, nella solita borsa con un libro e un pacchetto di biscotti, mi seguì alla Santa Barbara.

Con Antonio restammo di guardia. Non dovemmo aspettare venerdì. Alle 10,30 il camion militare con la legna entrò dal cancello di servizio. Ci appostammo alla finestra della ‘scoperta’.

Innestai prima il 50 mm e scattai sul totale di camion e cortile. Poi, con il teleobiettivo, i particolari dell’autista, della targa e della legna ammonticchiata al suolo. Esaurii tutti i 36 fotogrammi del rullo. Lo estrassi dalla Canon, me lo misi in tasca, ne caricai un altro e, con Antonio, ci preparammo a immortalare l’epilogo della truffa.

Il piantone alzò la sbarra e il camion civile, lo stesso del lunedì precedente, con identico equipaggio, si fermò davanti alla solita ammucchiata di legna.

Ripresi a scattare le foto con uguale alternanza di obbiettivi. L’operazione di carico durò abbastanza per usare un altro rullo, ripetendo il repertorio. Non si sa mai. Avevo più di cento immagini e, ne ero certo, di ottima qualità.

 

Il gioco è fatto

Nel pomeriggio, Canon, accessori e pellicole, lasciarono la caserma. Prima di andare alla Botte d’oro per la doccia e il resto, passai da un negozio di foto ottica. Lasciai i rulli da sviluppare e chiesi di farmi dei contatti di tutte le immagini. L’indomani avrei scelto quelle da stampare.

“Dovremo allestire  una mostra per il giorno del giuramento”, giustificai.

L’indomani, alla libera uscita, Antonio mi accompagnò dal fotografo. Non avevo ‘sgarrato’ nemmeno una foto. La selezione di quelle da stampare fu lunga. Il padrone del negozio ci fornì un contafili, semplicissimo apparecchio per osservare,  ingrandendoli, i particolari delle mini immagini.

Scegliemmo parecchie foto. Soprattutto del camion civile che portava via la legna, con i dettagli della targa, e le fedelissime immagini del volto dei ‘pirati’ per una inequivocabile identificazione.

Antonio restò con me. Profittò per farsi una lunga doccia. Gli diedi dei boxer e una T-shirt e, in più, una spruzzata di Eau de Rochas. La mia, aspra, colonia preferita. Concludemmo la giornata al solito ristorante. Verso le 22, rientrammo in caserma.

Due giorni dopo ritirai le foto. Gli ingrandimenti diedero corpo alla denuncia. Impossibile negare l’evidenza dell’illecito. I particolari degli interni della caserma, dello scarico della legna e poi, nell’identica posizione, quelle, accusatrici, del camion che se la riportava.

L’evidenza era ovvia. Cominciai a gustare in anticipo quanto avrei fatto. Certo, era legittima una buona dose di timore. Impossibile prevedere come avrebbe reagito il personaggio ‘sconosciuto’ al quale avrei fatto la denuncia.

L’eventualità di una pesante ritorsione, non era da escludere. E, se fosse accaduto, le conseguenze sarebbero state devastanti.

Due giorni dopo andai in ‘fureria’, e chiesi di mettermi a rapporto con il comandante della caserma. Il sergente, che presiedeva l’ufficio, me ne chiese il motivo: “Ragioni assolutamente personali” risposi. Lui forse per la differenza d’età e sapendo chi fossi, non chiese altro e mi mise in lista per le 10 dell’indomani. Lo ringraziai con entusiasmo. Me ne fu, sicuramente, grato.

 

Che cosa ti serve?

Alle 9,30 ero già in attesa, dal caporale di servizio, all’ufficio del comandante. Venti minuti dopo fui davanti alla scrivania dell’ufficiale. Sicuramente alto di grado, non di statura.

Molto più basso di me, stava in piedi davanti a una finestra. Ero, ritto, sugli attenti ma mi sembrò opportuno incurvarmi per perdere qualche centimetro. Avesse il complesso del ‘tappo’. Non si sa mai.

L’ufficiale si sistemò sulla poltrona dietro la scrivania: “Sei quel giornalista di cui parlano tutti? Comodo. Che cosa ti serve?” mi chiese con evidente sarcasmo.

“A me nulla, Signor Comandante. Sono venuto a metterla in guardia. Credo stiano cercando di nuocerle. Pesantemente. Lei non mi conosce. Per motivazione personale e  per mestiere,  non sopporto il malaffare. E, se ne ho sentore, indago. Signor Comandante, Lei ne è, ovviamente, all’oscuro. Nelle camerate i termosifoni sono costantemente spenti. E da quanto mi sono documentato dai commilitoni, non solo in questi giorni. Il riscaldamento, nella palazzina delle camerate non ha mai funzionato. Le conseguenze sono purtroppo evidenti. Numerosissimi e, continui, i ricoveri in infermeria per bronchiti e simili inquietanti complicazioni da raffreddamento. Lo provano i violenti attacchi di tosse che affliggono decine e decine di ragazzi. Basta passare per le camerate per ‘ascoltarne’ gli effetti. Chieda pure ai suoi medici. Le confermeranno che la situazione è preoccupante”.

Il comandante mi ascoltava con un’espressione non certo commossa. Mi sembrava, invece, piuttosto contrariato. E, non certo per la sofferenza dei suoi soldati.

“Quanto stai denunciando è molto grave. Stai accusandomi di non conoscere i problemi della mia caserma?”

Lui si accaldò. Io cominciai a sudare. Respirai a fondo e: “Signor Comandante, mi perdoni il termine, Lei è vittima, inconsapevole, di un pesante raggiro. Il riscaldamento non ha mai funzionato. Alle antiche caldaie, la legna acquistata per attivarle, non arriva. Ma Lei, da ovvio responsabile ne paga, ugualmente, la fornitura”.

“Certo che la pago, e profumatamente. I consumi sono altissimi. Non vedo l’ora che arrivino i bruciatori a gasolio. Ma, intanto, non dire cazzate. I nostri riscaldamenti vanno a pieno regime. Ti farò pentire per quanto stai blaterando”.

Sudavo ancora di più ma tirai fuori il jolly: “Comandante, ha ragione, solo in qualche fabbricato, la temperatura è ottima ed è sufficiente poca legna che qualcuno si occupa di gestire. Due volte alla settimana il carico maggiore arriva in caserma, e Lei lo paga. Ma, appena consegnato c’è chi si occupa di ricaricarlo su un camion civile che lo riporta via. Sono qui da pochi giorni ed ho assistito alla manovra. Un sistema perfettamente oliato che, prima o poi, la metterà in grande difficoltà. Come vede (estrassi le foto dalla busta e le disposi sulla scrivania, in perfetta sequenza d’azione), Signor Comandante, qualcuno sta tramando una sporca manovra nei suoi riguardi. Perdoni la mia invadenza. Davanti ai delinquenti, non riesco a resistere, e agisco. Ora tocca a Lei difendersi. Non c’è più tempo”.

Conclusi con un’enfasi, quasi teatrale, suggerita dall’espressione disperata che aveva sostituito quella sarcastica, sul viso dell’ufficiale.

 

“Caro ragazzo”

Si alzò, lasciò la scrivania e mi venne vicino. Si stirò, al massimo, per riuscire a mettermi, affettuosamente, un braccio sulle spalle e, immediatamente, passò al ‘Lei’.

“Caro ragazzo, vuole andare in licenza? Nel pomeriggio passi in fureria. Troverà il foglio di viaggio per la Sicilia. Grazie per la Sua affettuosa segnalazione”.

Non mi parve sensato dirgli che abitavo a Roma e che ero arrivato in macchina. In qualche modo mi sarei arrangiato.

“Mi raccomando, mantenga il massimo riserbo. Farò subito un’inchiesta. Gliene sono grato, davvero. Molto grato”.

E il Comandante mi accompagnò alla porta.

Le foto rimasero sul suo tavolo. Ma, chissà, il lunedì successivo (io sarei già andato via), la legna per il riscaldamento, appena arrivata in caserma, come al solito, avrebbe riguadagnato velocemente l’uscita?

Alle 14 ritirai il foglio di viaggio ‘10 giorni più 2’. Una licenza così generosa, dopo un paio di settimane di ‘naia’, credo fosse un record.

Lasciai la macchina in garage e presi un treno per Milano. Contavo di prendere l’ultimo aereo per Reggio Calabria. Ci riuscii.

Papà, non stava bene. Vennero a prendermi al Terminal, a Messina, Mamma ed Eva, la moglie del mio miglior amico. Si misero a piangere.

Infagottato nella divisa, calibrata per due taglie superiori, il berretto sostenuto dai Ray-Ban, comunque, calato sulle orecchie, il cappotto quasi alle caviglie con le spalle troppo larghe e tristemente spioventi, davano un’immagine assolutamente diversa dalla mia. Sapevo di essere irriconoscibile e dovetti fare uno sforzo per non associarmi alle lacrime. Un paio di giorni dopo, mi convocarono i carabinieri. Mi comunicarono un immediato cambio di destinazione.

“La recluta, alla scadenza del ‘permesso straordinario’ si sarebbe dovuta presentare, non più a Monterrei ma a una caserma, in Campania”. Effetto della mia denuncia?

 

Il paese del sole

Il mio viaggio fu piuttosto complicato. Non utilizzai il foglio di servizio. Presi un aereo per Milano e un treno per Monterrei. Taxi per la Botte d’oro. Bagaglio in macchina e via, a gran carriera, verso San Giovanni, nell’hinterland del Vesuvio.

Dovetti trovarmi la solita pensione d’appoggio. Una, decente, era pochi passi dalla caserma e la padrona ospitò la mia Abarth nel suo garage personale.

Telefonai al giornale. Il Direttore si scusò. Le sue amicizie non avevano giovato al mio trasferimento a Roma. “Continuerò a provarci” mi assicurò. Lo ringraziai.

Il mio ingresso nell’antica caserma, fu simile a quello precedente. Tardissima serata. Solita trafila, ufficiale di picchetto, piantone e accompagnamento in camerata. La temperatura, ovviamente, era umana. Preparai il letto ma mi apprestai a dormirci sopra e non sotto le coperte. Mi tenni la divisa indosso. Stranamente, mi addormentai. Quasi subito.

Il risveglio non mi trovò in grande allegria. Il problema mi era, ahimè, già noto. Ma, avevo qualcosa che mi dava la forza di resistere.

Un generale, vecchio amico di papà,  aveva fatto balenare la possibilità di un congedo anticipato. Per via del grave problema di salute che aveva colpito mio padre, e che io fossi il suo unico figlio. Se ne sarebbe interessato. Ce lo assicurò.

La speranza di una soluzione mi dava un poco di carica.

In caserma c’era una scuola di specializzazione. Mi piazzarono in un’aula ad imparare l’uso delle telescriventi e di altri apparecchi di trasmissione.

Ero un ritardatario. I corsi erano già iniziati da mesi. Avrei dovuto recuperare. O, non avrei avuto diritto all’uscita serale.

Per l’uso della telescrivente, a parte qualche differenza di configurazione della tastiera, non avevo grandi problemi. Ero già velocissimo nel ‘battere’ a macchina. Per gli altri apparecchi chiesi aiuto agli istruttori. Mi concessero dei ‘doposcuola’. Ricambiai con delle stecche di sigarette comprate, alla prima uscita, dai contrabbandieri che stazionavano in un mercatino, nei pressi della caserma.

I giorni passavano lenti e desolatamente uguali. Sveglia, alzabandiera, colazione, ingresso in aula. Scrittura sotto dettatura alla telescrivente. Controllo del compito. Passaggio ad altra aula per la conoscenza delle apparecchiature di trasmissione. Test vari. Lezioni di tecnica sui vari apparecchi e sulla eventualità di guasti da riparare. Pranzo, siesta brevissima, ritorno in aula e ripresa della routine. Del mio congedo non arrivavano notizie anche se da casa, mi assicurarono che la pratica era stata approvata ed era partita da tempo, verso la mia caserma.

 

Chi trova due amici

Avevo fatto amicizia con due impagabili commilitoni. Fisicamente mi ricordavano Stan Laurel e Oliver Hardy. Tonino, un geometra di Vallo della Lucania era la mente del duo. Statura media, magro, una sorta di esemplare di furbissima estrosità. Giacomo, alto, corpulento, amico del cuore, era l’esecutore, silente e perfetto, dei suoi ordini.

Niente di cattivo, anzi. Tonino era un mago nella ricerca e attuazione di qualsiasi piccola o comunque impensabile risorsa, per rendere meno pesante il nostro soggiorno. Era normale che tutti e tre ottenessimo i permessi per rientrare  dopo l’orario normale assegnato alla truppa.

Ma, una volta, alla normalità, si aggiunse qualcosa di eccezionale. La bravura di Tonino e Giacomo raggiunse un vertice sicuramente impensabile, nella fattispecie in grigioverde.

A Milano, prima di trasferirmi a Roma, avevo avuto una bella storia con Enrica. Bellissima, raffinata e ultrasensibile, del segno dei ‘pesci’. Sognava un mondo tutto rosa. Era stato un amore intenso poi, al mio solito, avevo rovinato tutto. Lei aveva accettato la mia giustificazione. Molte lacrime ma nessun astio residuo.

Da Napoli, una sera le avevo telefonato.

“Ma povero, e se volessi farti una visita, potremmo stare insieme come una volta?” Credevo  scherzasse. Era serissima.

“Le mie ore di libertà sono pochissime. Non ripagherebbero la tua generosità. Forse, mi viene in mente qualcosa. Ti richiamerò. Grazie, Enrica. Dolcissima come sempre. Un bacio”.

A tarda sera, al rientro in caserma andai al letto a castello dei due inseparabili.

“Ho un problema. Sinceramente credo, irrisolvibile anche se un tarlo birichino insinua qualcosa relativa alla vostra estrosità. Un mio ex grande amore vorrebbe farmi visita. Arriverebbe da Milano. Ma, le ore della libera uscita mi sembrano pochine per compensare il suo sacrificio. Ragionando ‘filosoficamente per assurdo’, la ‘T&G’, potrebbe inventarsi qualcosa?”

E, nella penombra della camerata, tentai di osservare la reazione dei miei amici.

“Mi sembra molto complicato” esordì Giacomo e la mia flebile speranza andò a farsi benedire.

“No, un momento” intervenne Tonino “Ho sentito di qualcosa di simile. È successo, nella camerata di altri nostri amici. Prima del tuo arrivo. Domattina mi documenterò”.

 

Sono allergico

Due giorni dopo, il nostro sergente ci annunciò che l’indomani ci avrebbero vaccinato. Entrai in agitazione. La mia  fobia per aghi e siringhe era costantemente presente. Sapevo che l’iniezione del farmaco polivalente era dolorosa. Veniva eseguita in una  mammella con quale delicatezza è possibile immaginare.

Dovevo evitarla. Ma come? Mi arrovellavo al limite della disperazione. Poi il solito genietto, senza  neppure l’ausilio della strofinata alla lampada generosa, mi suggerì la scappatoia.

Corsi in fureria. A uno dei ragazzi di servizio chiesi di usare per qualche minuto, una macchina per scrivere. Su una piccola  parte di un foglio in modo da poterne ritagliare un quadratino, scrissi:

Attenzione, Gruppo sanguigno ‘O Positivo’, in caso di necessità, non somministratemi antibiotici della classe penicillina e, soprattutto, vaccini polivalenti. Soffro di violente allergie, e rischio uno shock anafilattico. In tal caso, somministratemi Sandosten calcium e Kennacort per endovena. Grazie”. Seguivano la firma e la data di tre anni prima.

Ritagliai il foglietto e lo ‘invecchiai’ strusciandoci ripetutamente sopra le dita, umettate con la saliva. Ripiegato diverse volte, finì nel portafogli.

La fila, dall’infermeria si allungava sino alla sala mensa. Mi preparai alla sceneggiata di salvezza ripetendo silenziosamente il discorso preparato.

La maggior parte dei ragazzi reduci dalla somministrazione, era stravolta. Si dirigevano alle camerate, alcuni, addirittura barcollando. L’avvicinarsi del mio turno mi mise in agitazione. E se non avessero accettato la mia giustificazione o, peggio ancora, se mi avessero denunciato per il trucco. Nella mia cartella, ammesso che fosse arrivata dopo le mie traversie, non si accennava all’allergia. E poi che farò? Non riuscivo a riflettere.

“Scopri il torace, sbrigati” mi intimò il soldato-infermiere, munito di un enorme batuffolo di cotone idrofilo, rosaceo, per via dell’alcol che lo inzuppava.

Su un tavolo coperto da un lenzuolo bianco erano allineate, decine di siringhe già piene del farmaco. Altre ne arrivavano, dall’opera incessante di altri tre infermieri.

Davanti a me due commilitoni furono letteralmente ‘colpiti’, dalla siringata di altrettanti medici. Due “Ahi” per nulla repressi, mi fecero venire la pelle d’oca.

“Sei pronto?”, mi disse uno dei due medici e si girò per prendere una siringa “non indurire i pettorali. Sennò l’ago si può rompere, e sono cazzi”.

La mano ‘armata’ stava per infilzarmi.

“Signor capitano, non posso fare l’iniezione. Sono allergico” dissi velocemente portando avanti un braccio a difendermi.

“Sono tenente. Che dici?”

“Soffro di molte allergie e ho sempre un biglietto nella patente se mi capitasse un incidente. Eccolo” e dal giubbetto presi il portafogli. Estrassi il foglietto e lo consegnai al medico.

“Fammi vedere” e posò la siringa. Lesse, rilesse e si rivolse al suo collega: “Guarda un po’. Che te ne pare?” Si guardarono senza parlare ma con evidente reciproca preoccupazione. “Chi se la prende la responsabilità. E se questo muore?” disse quello che avrebbe dovuto farmi l’iniezione.

“Hai ragione. Però prendi il numero di matricola e specifichiamo nel verbale ‘Impossibile somministrare il vaccino poiché paziente a rischio di reazione anafilattica” e rivolto a me “Tu vai fuori dalle palle. Portati sempre in tasca le pillole di Bentelan, e non ti perdere questo biglietto”. E me lo restituì.

Ringraziai con espressione molto preoccupata e uscii, segretamente trionfante dall’infermeria.

La coppia T&G mi fece i complimenti, e mi comunicò che avrei avuto tutta una fine settimana con Enrica.

In effetti l’escamotage fu da commedia di Steno.

Prenotai in un hotel a ‘Torre del Greco’ per la settimana seguente. Venerdì mattina uscii con un permesso. Mi cambiai alla pensione, presi l’automobile, una corsa a Capodichino. La meraviglia di rivedere Enrica.

 

Ritroviamoci

Affascinante. Forse ancora di più dal ricordo del nostro ultimo incontro. Era raggiante e io, confesso, allo stesso livello. Puntammo  su ‘Torre del Greco’. Traffico scarso, per fortuna. Arrivo in albergo. Avevo azzeccato la scelta. Balcone spalancato sul golfo. Arredamento romanticamente démodé, bella biancheria, pavimento in ceramica.

Con Enrica non ci vedevamo da un po’ e, il commiato non era stato proprio amichevole. Ma tutto dimenticato. Ci ritrovammo. Come ci fossimo separati la sera precedente. Il fascino del panorama fu nostro complice.

Aria di mare e il resto, per un appetito da smaltire. Chiedemmo consigli al portiere, ci indicò un locale d’antan ma a colpo sicuro. ‘In seguito’ ci disse di passare da una antica pasticceria. “Vi resterà impressa” assicurò.

La giornata volò. La sera fu ancora più romantica. Ero in paurosa carenza di normalità. L’operazione di mio padre, il servizio militare, decisamente fuori tempo per la mia età mi avevano quasi mandato al tappeto. Enrica e la sua dolcezza mi tranquillizzarono.

Sabato mattina arrivò la telefonata di Tonino: “Fatti trovare in albergo. Passeremo a prenderti appena in libera uscita. Tranquillo, è filato tutto perfettamente. Non dimenticare un paio di stecche: una Lucky Strike e una Chesterfield. Sai a che cosa serviranno. A domani e buona serata!”

Il risveglio della domenica arrivò troppo presto. Ma i due giorni precedenti erano stati ricchi di quanto avessi potuto desiderare.

L’aereo era previsto per le 17. Avevamo tempo per  prendere un po’ di sole e fare un ultimo bagno. Dissi al portiere di riservarmi un tavolo sulla terrazza. La sera precedente avevamo scoperto che il ristorante dell’hotel non aveva nulla da invidiare a quello famoso che mi era stato consigliato. In più, la terrazza, affacciata sul mare, era splendida.

La mia consuetudine di puntualità, ci fece arrivare in aeroporto poco dopo le 15. Prendemmo un ennesimo caffè, buono “sulo a Napule u sanno ffa”. Coda, brevissima per la carta d’imbarco, una serie di baci, qualche lacrima, saluti, e via all’hotel.

 

L’inciucio

T&G arrivarono verso le 19. Salirono in camera. Eccitatissimi: “Com’è andata. Sei più tranquillo. Hai preso le sigarette?” Erano un fiume in piena.

“Calmi, tutto bene, grazie a voi. O almeno spero di non finire in cella di rigore. Le sigarette sono pronte. Spiegatemi come avete nascosto la mia assenza e come dovrò comportarmi. Confesso, sono piuttosto ansioso”.

“Rilassati” esordì allegro Tonino. “La tua assenza non poteva essere scoperta perché il tuo letto era scomparso. Il materasso è stato aggiunto al mio, lenzuola e cuscini sono finiti nei bauletti di Giacomo e del nostro amico Ernesto. La branda, dietro gli armadi, nel magazzino annesso alle docce. Oggi, durante le pulizie, e con l’aiuto di un paio di amici, ogni cosa è tornata a posto. Non è mancata qualche ansia. Forse venerdì sera. Per il contrappello c’era Pietrino, il calabrese, e smaniava. Si sarebbe persa la finale della sua squadra, non so contro chi, trasmessa in televisione. Gli abbiamo cambiato il turno con Ernesto per non rischiare  che contasse i letti. Operazione che, di solito, non fa nessuno. Ma non si sa mai. Nessun problema per sabato. Toccava proprio a Ernesto. Le Lucky Strike gli spettano di diritto. Le Chesterfield, invece, sono da dividere. Due pacchetti a testa per quelli che ci hanno aiutato a far scomparire la branda”, concluse.

Alla coppia di fantasisti, offrii la cena. Mi sembrò il minimo.

Tornai libero un mese dopo.

La pratica del congedo, giaceva in un cassetto della fureria. Già dieci giorni dopo il mio arrivo in Campania. La rintracciarono grazie alle mie continue sollecitazioni.

Ripresi subito servizio al giornale e cambiai indirizzo. Trovai un piccolo attico, con un delizioso terrazzino arredato da un antico glicine, in ‘Vicolo dei cinque’. All’angolo con Piazza Trilussa, sul Lungotevere.

La redazione festeggiò il mio  rientro con una cena al Capriccio. Il night di moda, nostra meta, quasi abituale, del ‘dopolavoro’ in tarda serata. Anch’esso all’angolo con via Veneto.

Lo champagne ce lo offrì Remo, lo storico direttore.

Quella sera, cantava Fred Bongusto.


parte I qui: https://lettermagazine.it/racconti-2/la-quale-parte-i/

 

Immagine di copertina realizzata con strumenti di IA (ChatGPT)

Scatto in B/N: per gentile concessione di Enzo Buscemi

Gamy Moore
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